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Musica

[IlLive] David Byrne & St. Vincent @Auditorium Parco della Musica, 11 settembre 2013

di Valerio Torreggiani / 20 settembre

Dopo lo sfizioso antipasto estivo rappresentato dall’EP Brass Tactis (4AD, 2013), il veterano David Byrne e l’astro nascente Annie Clark, in arte St. Vincent, portano in tour il loro Love This Giant (4AD, 2012), uscito esattamente un anno fa, con una sfolgorante e colorata esibizione dal vivo accompagnati dall’immancabile fanfara di ben otto fiati, con batterista e tastierista a completare il gruppo. Due sono gli elementi, tra loro complementari, che devono essere tenuti in considerazione: un primo prettamente musicale e un secondo costituito invece dal fattore scenico-performativo.

Musicalmente parlando è il suono degli ottoni che si ritaglia un ruolo centrale, con maggiore efficacia rispetto alla registrazione su disco. La tuba, i tromboni, i sassofoni, il corno francese, la tromba; sono loro la vera spina dorsale dello spettacolo. Sono loro che, magistralmente guidati dai due leader, fanno vivere, respirare e vibrare il gruppo di una sonorità che riporta la mente alla New Orleans delle brass band degli anni Venti. Una New Orleans che viene però aggiornata ai tempi delle metropoli caotiche e confusionarie: le calme e placide acque del Mississippi sembrano infatti sostituite dalle strade newyorchesi, disordinate giostre di nevrosi.

Sugli splendidi arrangiamenti di questi roboanti ottoni prendono vita le acrobazie circensi di David Byrne e di Annie Clark, una innocua coppia di freak, riunitasi quasi per caso, che mette in campo tutta la raffinatezza compositiva raggiunta nel disco dello scorso anno. Quello presentato sul palco dell’Auditorium è un circo festoso e multicolore, spensierato. Una musica all’interno della quale convivono con facilità orecchiabili melodie pop e innesti rock, ritmi funky e arrangiamenti disneyani. La scaletta è quasi interamente presa da Love This Giant: si parte con i fiati sugli scudi in “Who”, primo singolo estratto dal disco, per proseguire poi con la batteria elettronica di “Weekend in the Dust” e la dolce e futuribile ballata “Outside of Space & Time”. A impreziosire la serata ci pensano poi i brani pescati dalle carriere soliste dei due. Byrne risulta qui il protagonista assoluto e regala al pubblico, nostalgicamente avido e insaziabile di successi del passato, la sognante “Strange Overtones”, presa dall’ultimo disco in collaborazione con Brian Eno, Everything That Happens Will Happen Today (Todo Mundo, 2008), e alcune memorabili pietre miliari del periodo Talking Heads, come “Road to Nowhere”, la cui vena country viene evidenziata in questa versione tutta fiati, “This Must Be the Place”, dedicata a Paolo Sorrentino, e infine “Burning Down the House”, sulle note della quale non c’è sala concerti che riesca a incollare il pubblico ai propri posti. Anche la Clark si ritaglia il suo spazio, proponendo alcuni brani dei suoi lavori più apprezzati. Su tutti spicca il brano “Marrow”, tratto dal disco Actor (4AD, 2009), trasformato in uno schizzato delirio d’ottoni, chitarra distorta e voce sensuale.

 

 

Ma parlare esclusivamente della resa musicale sarebbe come aver guardato il concerto a occhi chiusi. Il vero spettacolo, infatti, è in tutto ciò che ruota intorno alla musica e del quale la musica stessa finisce per nutrirsi. Uno spettacolo totale, di sapore wagneriano, che mira a una sintesi delle arti dove la musica è circondata, sostenuta, esaltata da un insieme di gestualità, di coreografie, di corpi che, tra movimenti geometrici, stasi e balletti, creano un tutto artistico che è aristotelicamente superiore rispetto alla semplice somma delle sue parti. La mano di Byrne c’è e si vede ovunque. Tutti sembrano marionette gestite dal gran maestro, che con le sue doti di prestigiatore dirige silenzioso questo magico teatro musicale danzante, dando il meglio di sé in scattosi balletti cerebrali al limite tra danza, mimo e teatro.

Tuttavia, è Annie Clark la vera sorpresa della serata. Elegante, sinuosa, raffinata ma allo stesso tempo leggerissima e ironica. In un vestitino a là P.J. Harvey e con i capelli biondi ossigenati, in stridente contrasto con il sobrio pallore d’età vittoriana del volto, Annie Clark risulta essere molto più che una semplice vestale. Il suo canto camaleontico, graffio e carezza al tempo stesso, si unisce a uno stile chitarristico che varia da un rumorismo docile e educato, appreso forse anni fa alla corte delle cento chitarre di Glenn Branca, a un ermetismo punk-funk tipicamente anni Ottanta. Il tutto viene reso in uno stile performativo unico e originale che, con robotiche movenze da bambola meccanica – quasi una tanz-bambolina di cameriniana memoria –, sembra farla muovere su e giù per il palco guidata da fili invisibili.

Ciò che emerge chiaramente dal vivo è una totale assenza di ruoli predeterminati da presunte gerarchie artistiche o meriti musicali passati. Tutte le interazioni tra cantanti e musicisti si svolgono in maniera naturale, senza alcuna forzatura. Le nevrosi senili di un divertito e divertente Byrne, sempre più centro gravitazionale della musica d’oggi, hanno trovato in Annie Clark più che una semplice spalla o una bella e sensuale comparsa; hanno trovato una complice che collabora attivamente alla riuscita del colpo. Una complice intelligente, curiosa e spregiudicata al punto giusto. È chiaro, quindi, che il gigante da amare non è più, solamente, David Byrne.