La macchina diglossica

Non te lo aspetti, no? Di prendere uno strappo in romanesco e ritrovarti in una valle bergamasca. Chiariamo: Son due sorelle / Son molto belle e risiedono/studiano/vivono a Roma. Tu ne conosci una, Sara. Che ti dice “Sai, cerco casa”. E tu: “Dai? Davvero? E in che zona?!” La tua. Di lì oltre la solita trafila dell’amicalità cortese, quella agli albori, la fase scintille di mutua simpatia : “Ho un amico che lavora in un’agenzia proprio da quelle parti, se ti trovi un pomeriggio te lo presento”. E lei “Dai, davvero? Domani passo in zona, vedo una casa proprio.…”.

Per farla corta (Pe’ falla breve…), punta sotto la casa da vedere: “Ti presento  mia sorella”, “Piacere Andrea”. Casiamo, guardiamo, s-casiamo. “Carina, casa, ve’?!”; “Certo un po’ attufata… magari c’è di meglio, no?!”; “Vediamo che dice l’amico, dai: ci siamo… passiamoci”.

In Agenzia, altra trafila: quella, stavolta, dell’amico dell’amico; ciak si ri-gira: “Ciao Piacere Sara”, “Molto lieto. Quanti metri cerchi? E se ci spostiamo un po’??”; “No sai, per me è  meglio in zona…”. Segue e chiude epilogo, sempre lo stesso: “Va bene dai, se ho notizie ci sentiamo”; “Occhèi, grazie!”; “Bella Andrè, ciao ciao ciao…”. Fuori, ineludibile: “Caffettino? C’è un posto qua dietro…”.

Tutto in romanesco. Beh insomma, non proprio in romanesco: italiano regionale di Roma con  qualche farcitura de Riomma Riomma: fa sempre scena, rompe il ghiaccio, insaporisce di qual gaio coattume che sa di schiettezza, di “Io non ti frego”, di “Bella Saré, semo ggente de borgata”.

E non te lo aspetti. Non te lo aspetti proprio.

Verso il bar; lo strappo. Sali davanti, guida Sara. Parlano. Strano. Tra loro, intendo. Parlano strano. Dai, sarà la radio. No, spenta. Non sarà.. Dio Santo… Sarà mica Sara?! Sì, è Sara. Trasfigurata. Bergamasca. Parla (fissando innanzi a sé la strada…) alla sorella (dietro…) in Bergamasco. Beh insomma, non proprio in bergamasco: italiano regionale di Lombardia con qualche farcitura (le cose che non capisco) di Bergamo Bergamo.

Ora io non so se vi è mai capitata, la macchina diglossica: un flash. Un trip. LSD. Non ci credi. Letteralmente, non credi alla tue orecchie. Fino a un minuto prima erano “dei tuoi”, ora sono “altro”. Più su, molto più su. Appartengono a.. su, là, al Nord. Noti, prima no, le differenze morfologiche perché loro, ora, tra loro, emettono suoni nuovi. Noti il pallore, le dita lunghe, il colore dei capelli. Quello degli occhi. Le movenze, anche. Diverse. Giuro: la gestualità era diversa. Da Berga-femmine. Non è solo questione di toni e suoni: erano diverse loro.

La macchina diglossica. Esiste, ed ha una funzione sociolinguistica: ti svela quanto l’appartenenza sia un fatto di lingua, quanto identità sia in primis comunanza di suoni. Consonanza, ecco.

Io non riesco più a guardarla come prima (la) Sara. Alberga in lei un’entità foresta. Mi sa d’alpeggi, di cazzuole, di malta. Prima Sara era mura: ora è mura & muri.

Fate attenzione, alla macchina diglossica: i suoi strappi non si ricuciono facilmente.