Narratore e narrazione

Indizi di inattendibilità nella prosa contemporanea

di / 18 marzo 2022

Tanto negli studi narratologici di matrice strutturalista, ampliamente radicati nella teoria letteraria italiana, quanto in quelli di indirizzo «postclassico» (su cui si è diffusamente espresso Stefano Ballerio) ricopre una posizione di notevole interesse la figura del narratore, analizzata sia nella sua funzione testuale sia nei suoi rapporti con l’autore ‒ reale o implicito – come illustrato da Paolo Giovannetti (Il racconto, Carocci, 2012).

L’aspetto della voce narrante, che concorre al processo di costruzione del personaggio, è stato protagonista di una progressiva evoluzione tecnico-stilistica culminante, nel corso della storia letteraria, in differenti tendenze della narrativa moderna e postmoderna.

Alle categorie tradizionali di narratori verisimili (il celeberrimo eterodiegetico dei Promessi Sposi e l’autodiegetico Marcel della Recherche) si è così venuta affiancando una voce inattendibile: un narratore di prima persona cioè non solo direttamente coinvolto nella storia, ma anche pronto a proporne al lettore una propria versione falsata tramite processi di alterazione, distorsione od omissione dei fatti.

 

Lo sconcerto del narratore inaffidabile nella narrativa breve

 

Il caso contemporaneo più eloquente è costituito dai racconti di Vladislav Otrošenko, significativamente intitolati Testimonianze inattendibili (Voland, 1997). Nelle righe di queste storie si cela infatti una rete di segnali linguistici, lapsus e allusioni che conduce al colpo di scena conclusivo, in ciascuno dei testi strutturato sul radicale capovolgimento della premessa incipitaria.

Mario Caramitti, curatore del volume italiano, chiarisce il meccanismo stilistico-narrativo di questo tipo di prosa (M. Caramitti, Postfazione, pp. 119-124):

«Basta interrompere bruscamente il corso dei vostri pensieri e lasciar spazio a un qualsiasi concetto, purché assurdo, inverosimile, paradossale, in tutto casuale e arbitrario, assolutamente il primo che vi passi per la testa. Poi vi sforzerete […] di giustificare a tutti i costi quello che avete affermato, cercando tortuose connessioni logiche col contesto interrotto, costruendo fantasiosi castelli di prove e intorbidando più che potete le acque».

Dalle finzioni, e relativi svelamenti, attorno a cui s’avvita l’intreccio di ogni racconto non dipendono soltanto gli elementi della cornice narrativa (in primo luogo le categorie di tempo e spazio), ma i personaggi medesimi, le cui azioni procedono di pari passo con le distorsioni della realtà di cui essi si risolvono essere vittime. I protagonisti delle vicende, infatti, vivono insieme al lettore quell’inganno che, dapprima alterandone le azioni, finisce con il deformarne le coscienze e, di conseguenza, snaturarne le identità. Gli esiti di questo processo, soltanto in apparenza puramente stilistico, consistono o nello smarrimento esistenziale, prerogativa di molte voci otto-novecentesche (come si vede, nient’affatto che esclusivamente europee) e iconograficamente descritto dalla «vertigine» di S. Kierkegaard ne Il concetto dell’angoscia (1844), o in alternativa nella resa nichilista. Nel racconto che apre la raccolta, (Il congedo dell’archivista, pp. 5-36) infatti si ammonisce: «Tutto è possibile. Tutto è mutevole. Non esiste nessun ordine eterno nell’universo».

 

Lo stravolgimento programmatico nei romanzi con narratore inattendibile

 

Tale impianto narrativo può confarsi a opere letterarie di vario tipo, caratterizzando tanto racconti più o meno brevi quanto testi in prosa ben più ampi, come veri e propri romanzi. Il caso più celebre è rappresentato dal personaggio-narratore del professor Humbert in Lolita (1955), la cui voce narrante risulta tutt’altro che accessoria e anzi, perfettamente strutturale alla storia della celebre ninfetta, appunto mediata dalla prospettiva del professore di letteratura. Questi, imputato, racconta infatti in prima persona la vicenda quando già si è conclusa, mescolando ai fatti osservazioni personali che, qua e là spacciate per ricordi o valutazioni imparziali, mirano invece a rabbonire i giurati durante le sedute a porte chiuse del processo (V. Nabokov, Lolita, Adelphi, 1996, pp. 17; 382):

«Signori della giuria, il reperto numero uno è ciò che invidiarono i serafini […]. Guardate questo intrico di spine. […] Incominciai, cinquantasei giorni fa, a scrivere Lolita, prima in osservazione nel reparto psicopatici e poi in questa clausura ben riscaldata, seppur tombale».

Humbert-narratore infatti non mente affinché la propria immagine risulti esemplare, ma per scagionare le proprie azioni verso Dolores, apostrofata con il vezzeggiativo di Lolita: egli ammette la propria ossessione per lei, ma la giustifica, riportandola alla morte della ragazzina amata da bambino, Annabel, così da sublimarla apertamente in un’esperienza infantile traslata, a causa del traumatico lutto, in età adulta. Analogamente, egli dichiara apertamente i terribili progetti accarezzati con il pensiero per avere Lo tutta per sé (dopo aver sposato la madre, Charlotte, da cui egli era a pigione, ucciderla per diventare a tutti gli effetti l’unico tutore legalmente responsabile di Lolita), salvo poi dichiarare di averli puntualmente respinti in blocco (pp. 93, 113):

«Io non progettavo di sposare la povera Charlotte per poi eliminarla in un modo volgare, […] come metterle cinque compresse di bicloruro di mercurio nello sherry preprandiale o qualcosa del genere; ma devo riconoscere che un pensiero famacopeico, delicatamente affine, tintinnò nel mio cervello sonoro e offuscato. […] Semplice, no? Ma pensate un po’, ragazzi… proprio non ce l’ho fatta!»

Oggetto dell’alterazione attuata dal narratore dunque non è la storia tout-court, ma il rapporto che va via via instaurandosi tra Humbert medesimo e Lolita. Scopo di quest’operazione consiste nell’invertire i piani di realtà e finzione nella storia e, conseguentemente, i ruoli di preda e persecutore nei personaggi: all’immagine di un’orfana ostaggio di un uomo che si finge suo padre e dal quale lei desidera fuggire a ogni costo il narratore sostituisce man mano l’idea di un «micidiale diavoletto» (p. 27) le cui tacite profferte egli stesso non riesce a fuggire.

Il meccanismo è talmente riuscito che nel linguaggio comune il ricorso al termine lolita si è cristallizzato in forma antifrastica, indicando una «ragazza adolescente di aspetto provocante che suscita desideri anche in uomini maturi», come attestato nel Dizionario della lingua italiana.

A testimoniare la natura polivalente del narratore inaffidabile, al cui uso si confanno strutture testuali tra loro anche molto differenti, un ultimo esempio, un libro ben distante per intreccio e contenuti dalle opere di Otrošenko e di Nabokov: Follia (Adelphi, 1998) di Patrick McGrath, dove il personaggio-narratore, lo psichiatra Peter Cleave, riferisce a posteriori della tormentata relazione extraconiugale tra il proprio paziente uxoricida Edgar e la moglie di un collega medico, Stella. In questo caso la falsificazione dei fatti non investe tanto il rapporto tra i due (anzi analizzato assumendo le idiosincratiche e patologiche inclinazioni di ciascuno) quanto piuttosto la natura dell’interesse nutrito da Peter medesimo per la donna, nella cui valutazione psichiatrica egli, mosso da ragioni tutt’altro che professionali, commette una serie di fatali errori ‒ tra i quali spicca il rifiuto di farle incontrare Edgar durante il ballo dell’istituto dove, nell’ultima parte del romanzo, entrambi i pazienti si trovano ricoverati e dove, per l’appunto, lo psichiatra presta servizio. Nel corso del romanzo le sue decisioni, lungi dal connotarsi come parte di un progetto terapeutico, si rivelano frutto di un desiderio personale che ostacola il suo giudizio: l’inattendibilità del narratore coincide così con il camuffamento da lui operato nelle premesse narrative della storia. Gli arguti indizi sparsi nel testo per segnalare questa operazione narrativa hanno talmente contribuito all’ambiguità del personaggio narrante che nell’adattamento cinematografico Asylum gli viene attribuita un’intenzionalità machiavellica probabilmente estranea al personaggio originale.

È chiaro come da una voce inattendibile, motore di svariate riflessioni in opere assai diverse per contenuto, intreccio e persino genere letterario, derivi un’architettura narrativa in cui ricorrono perlopiù gli stessi stratagemmi stilistico-formali che appaiono ben sintetizzati dalla denuncia del dottor S. nella Prefazione all’autobiografia di Zeno Cosini (I. Svevo, La coscienza di Zeno, Giunti, 1993, p. 13): «Se il mio paziente sapesse quante cose potrebbero risultargli dal commento delle tante verità e bugie ch’egli ha qui accumulate!».

 

 

 

***

Nel testo, la riproduzione di un dettaglio di P. Paoletti, Esopo racconta le favole (Villa de’ Manzoni, 1937); una locandina dell’adattamento cinematografico di Lolita (Stanley Kubrick, 1962). In copertina: P. McGrath, Follia (Adelphi, 1998).

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