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Altre Narratività

Alla ricerca di nuovi autori per effe #6

Scade il 21 ottobre 2016 il nuovo contest dedicato ai racconti inediti

di Redazione / 13 ottobre

Limite: dal latino limes, confine, linea terminale o divisoria, livello massimo al di sopra o al di sotto del quale si verifica normalmente un fenomeno, impedimento fisico, umano oppure divino.
Questo è il tema da cui lasciarsi ispirare per partecipare alla selezione dei racconti per il prossimo numero di effe – Periodico di Altre Narratività, il #6. Una traccia deliberatamente nebulosa, un concetto il cui significato finale sia determinato in maniera esclusiva dall’autore, dalla sua capacità di interpretare e modulare una sostanza vaga e polisemica fino a renderla una cosa netta, chiara, propria.

La partecipazione al nuovo contest è aperta a tutti, autori giovani, meno giovani, esordienti e no.

I racconti, rigorosamente inediti, devono essere inviati all’indirizzo altranarrativa@flaneri.com, in formato .doc, specificando nell’oggetto della mail titolo, nome e cognome. La lunghezza del racconto deve essere compresa tra le 15.000 e le 40.000 battute. La scadenza del contest è fissata alle ore 23 del 21 ottobre 2016 e la partecipazione è gratuita.

Dopo un’attenta lettura, i testi più meritevoli saranno sottoposti agli editor di 42Linee, lo studio editoriale a cui è affidata la cura redazionale del volume, e pubblicati sul prossimo numero dell’antologia periodica effe e su Altre Narrativitàla sezione di Flanerí dedicata ai racconti brevi.

Per chi ancora non lo conoscesse, effe – Periodico di Altre Narratività è un progetto indipendente che coniuga le narrazioni inedite con la creatività di giovani illustratori, con l’intento di creare una «zona franca» in cui autori meno noti siano sostenuti da scrittori già affermati.

Alcuni degli autori comparsi nei volumi precedenti sono: Riccardo Gazzaniga (Einaudi Stile Libero), Marco Lazzarotto (Indiana), Enrico Macioci (Mondadori), Riccardo Romagnoli (Transeuropa), Paolo Zardi (Neo edizioni), Vins Gallico (Fandango Libri) e Demetrio Paolin (Voland).

Sul sito www.42linee.it trovate i volumi precedenti e l’elenco delle librerie in cui è possibile acquistarli.

 

Per ulteriori informazioni:
redazione@flaneri.com
redazione@42linee.it

 

 

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Altre Narratività

Alla ricerca di nuovi autori per effe – Periodico di Altre Narratività #6

Scade il 21 ottobre 2016 il nuovo contest dedicato ai racconti inediti

di Redazione / 21 settembre

Limite: dal latino limes, confine, linea terminale o divisoria, livello massimo al di sopra o al di sotto del quale si verifica normalmente un fenomeno, impedimento fisico, umano oppure divino.
Questo è il tema da cui lasciarsi ispirare per partecipare alla selezione dei racconti per il prossimo numero di effe – Periodico di Altre Narratività, il #6. Una traccia deliberatamente nebulosa, un concetto il cui significato finale sia determinato in maniera esclusiva dall’autore, dalla sua capacità di interpretare e modulare una sostanza vaga e polisemica fino a renderla una cosa netta, chiara, propria.

La partecipazione al nuovo contest è aperta a tutti, autori giovani, meno giovani, esordienti e no.

I racconti, rigorosamente inediti, devono essere inviati all’indirizzo altranarrativa@flaneri.com, in formato .doc, specificando nell’oggetto della mail titolo, nome e cognome. La lunghezza del racconto deve essere compresa tra le 15.000 e le 40.000 battute. La scadenza del contest è fissata alle ore 23 del 21 ottobre 2016 e la partecipazione è gratuita.

Dopo un’attenta lettura, i testi più meritevoli saranno sottoposti agli editor di 42Linee, lo studio editoriale a cui è affidata la cura redazionale del volume, e pubblicati sul prossimo numero dell’antologia periodica effe e su Altre Narrativitàla sezione di Flanerí dedicata ai racconti brevi.

Per chi ancora non lo conoscesse, effe – Periodico di Altre Narratività è un progetto indipendente che coniuga le narrazioni inedite con la creatività di giovani illustratori, con l’intento di creare una «zona franca» in cui autori meno noti siano sostenuti da scrittori già affermati.

Alcuni degli autori comparsi nei volumi precedenti sono: Riccardo Gazzaniga (Einaudi Stile Libero), Marco Lazzarotto (Indiana), Enrico Macioci (Mondadori), Riccardo Romagnoli (Transeuropa), Paolo Zardi (Neo edizioni), Vins Gallico (Fandango Libri) e Demetrio Paolin (Voland).

Sul sito www.42linee.it trovate i volumi precedenti e l’elenco delle librerie in cui è possibile acquistarli.

 

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Libri

Cantastorie e imperatori

“Kalpa Imperial” di Angélica Gorodischer

di Claudio Bello / 3 marzo

Ogni storia racchiude infinite versioni di sé stessa. Così anche la Storia con la s maiuscola. Kalpa Imperial di Angélica Gorodischer è un trattato sulla Storia di un impero fittizio, un’indagine sull’importanza del punto di vista, una prova schiacciante della molteplicità del mondo. Pubblicato in due volumi tra il 1983 e il 1984 – e portato per la prima volta in Italia da Rina edizioni, nella traduzione di Giulia Zavagna –, Kalpa Imperial rappresenta probabilmente l’apice della carriera della cosiddetta «dama della ciencia ficción argentina». Nata nel 1926 a Buenos Aires, Gorodischer comincia a farsi conoscere come scrittrice negli anni Sessanta, oscillando nel tempo tra i due poli di una fantascienza colta, ispirata a Ballard e Le Guin, e dello sperimentalismo tipico della letteratura argentina di quegli anni (si pensi a Borges, Cortázar, Ocampo). Come spiegato da Loris Tassi nell’interessante prefazione al volume, nella vasta produzione di Gorodischer va qui segnalato Trafalgar, del 1979, anticipazione di Kalpa Imperial e insieme suo libro gemellare: la scrittrice vi narra le avventure, tra un pianeta e l’altro, di un viaggiatore di commercio intergalattico, Trafalgar Medrano. Il tutto sotto forma di amichevoli colloqui tra il protagonista e i suoi amici; il tutto nascondendo sotto il tono fantascientifico una critica politica al regime dei militari che aveva preso il potere in quegli anni in Argentina. La struttura polifonica del “romanzo di racconti”, il “resoconto orale” trasposto sulla pagina, il continuo scambio metaforico tra realtà e finzione: sono tutti elementi che ritorneranno in Kalpa Imperial.

Kalpa Imperial è composto da undici storie ambientate in un unico mondo fantastico, raccontate da narratori, o meglio, cantastorie, diversi: provvisti del potere oracolare di plasmare passato e presente, confinati in quel limbo divino che sta tra l’autrice e i personaggi, sono loro, i narratori, i veri protagonisti del libro. Quella che raccontano, ognuno a suo modo, dal proprio punto di vista, è la Storia dell’Impero. Una storia orale dell’Impero, alla maniera degli aedi greci. Ma che cos’è l’Impero? Rispondendo con una parola, è il mondo; oppure, in una delle tante interpretazioni che gli si possono dare, è l’istituzione che da tempi immemori governa, tra glorie e declini, l’universo di Kalpa Imperial. “Governare” d’altronde è una parola centrale in questo libro. Molte delle storie hanno per protagonisti imperatori, imperatrici, nobili e cospiratori di corte; la Storia dell’Impero si confonde inevitabilmente con la Storia del potere. C’è in Kalpa Imperial qualcosa della fatalità della tragedia greca: la miopia del potente, la caduta del re, la morte dell’immortale. Ma anche questa è solo una delle mille versioni della Storia; accanto ai potenti, la gente comune possiede un ruolo decisivo, appartato ma spesso ancor più enigmatico. L’Impero, come si diceva, è il mondo intero. Non disdegna, e non perdona, nessuno.

I racconti si muovono in un tempo lunghissimo, millenario, di ispirazione fantasy e insieme biblica; nelle trame dei narratori di Gorodischer le epoche e le dinastie dell’Impero si alternano e confondono senza soluzione di continuità. Si narra di bambini che diventano imperatori, e di impostori che diventano imperatori, e di come questi poi prosperino oppure impazziscano; di imperatrici che si fanno insegnare la Storia da cantastorie raccattati per strada; di attentatori, avvelenatori, pervertiti, fuggiaschi e cospiratori; di città che splendono, decadono e splendono di nuovo in un processo irreversibile; di viaggi in carovana, di fughe, di battaglie inutili e di altre decisive; del selvaggio e lontano Sud, che l’Impero mai è riuscito a soggiogare… Ognuna di queste storie è un frammento splendente: si muove verso il lettore come una piccola ma abbagliante stella; tutt’intorno secoli di buchi neri, nomi pronunciati e mai spiegati, allusioni a eventi inconcepibili. Quello che si percepisce, infine, è lo scheletro di una Storia fantastica, un reticolo composto da tasselli che, volontariamente, non si lasciano incastrare. In questo tempo infinito e caotico che potremmo chiamare Impero, però, ci sono alcune certezze: la guerra, la sofferenza, la rinascita.

I modelli principali di Kalpa Imperial sono chiariti dalla stessa autrice nei Ringraziamenti: Hans Christian Andersen, J.R.R. Tolkien, Italo Calvino, «senza le cui parole di incoraggiamento questo libro non sarebbe mai stato scritto». Il testo effettivamente possiede molti elementi del classico fantasy tolkieniano: l’ambientazione medievale, gli svariati racconti di stampo militare, la creazione di una vera e propria mitologia immaginaria; ha anche un carattere frammentario, etnografico e discontinuo, che rimanda invece a Le città invisibili. Al capolavoro di Calvino, Kalpa Imperial assomiglia nella ricchezza delle descrizioni: lo stile di Gorodischer è eclettico, colorato, più volte straripante; ricorre spessissimo agli elenchi e all’uso di immagini stranianti, potenti e carnevalesche. Decisamente calviniano è anche il coraggio di Gorodischer nell’unire – amalgamandoli con sapienza ma anche facendoli scontrare – generi letterari diversi; una caratteristica, questa, che lo rende un libro moderno, da Ventunesimo secolo. Kalpa Imperial è un testo coltissimo e allo stesso tempo orgogliosamente di genere: come detto, è un fantasy tolkieniano a tutti gli effetti; è però anche una fiaba, a tratti dolce a tratti asprissima (proprio come accadeva nel maestro Andersen); è poi un serio studio (che indaga profondamente la questione delle fonti, cioè i citati narratori) di Storia fantastica, di geografia fantastica, di antropologia fantastica; è un testo metaletterario e sperimentale; è, infine, un libro spiccatamente argentino. Come riscontrato da Tassi, infatti, molte delle storie dell’Impero non sono altro che una riproposizione fittizia ma speculare di eventi realmente accaduti nel paese. “Ritratto dell’Imperatrice”, per esempio, è un chiaro “Ritratto di Eva Perón”; altri racconti richiamano l’esplosione demografica di Buenos Aires, la dicotomia tra città e campagna e, soprattutto, la violenza della dittatura.

Il tema centrale di Kalpa Imperial, d’altronde, è quello del potere. Cos’è il potere?, sembra chiedersi Gorodischer. Ne esiste uno buono e uno cattivo? Come si amministra? E, quesito principale: come si perde? Il dubbio ontologico sul potere è il motore delle storie, e della Storia; il potere infatti è quanto di più instabile esista in tutto l’Impero. Poche volte migliora una persona, spesso invece la corrompe; di sicuro la fa ammattire. Chi lo tocca alla fine impazzisce, su questo Gorodischer sembra non avere dubbi (Kalpa Imperial, forse, non è altro che un carosello macabro di re pazzi). Ecco insomma che il potere è catalizzatore e primo creatore di storie; il suo gemello – o forse il suo fratello maggiore – è ovviamente il racconto. Un’altra cosa che Angélica Gorodischer ha ben chiara è questa: non c’è potere senza racconto del potere. E così i poveri cantastorie sono insieme ai regnanti le figure chiavi dell’Impero: se l’imperatore può distruggere – o far prosperare –, il cantastorie può manipolare, cioè inventare le storie, cioè inventare la Storia. Che, come si diceva, non è mai una, ma mille. E anzi: è proprio il racconto che rende il potere instabile, ed è proprio da quella instabilità che sgorgheranno poi nuovi racconti. È in questo circolo – se sia vizioso o virtuoso è impossibile dirlo – che si nasconde il segreto dell’Impero.

 

(Angélica Gorodischer, Kalpa Imperial, trad. di Giulia Zavagna, Rina edizioni, 2022, 344 pp., euro 18, articolo di Claudio Bello)
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Libri

Zweig al Grand Budapest Hotel

A proposito di “La società delle chiavi incrociate” di Stefan Zweig - Wes Anderson

di Claudio Musso / 2 marzo

Chi ha visto il film Grand Budapest Hotel  ricorderà che, nel momento di maggiore difficoltà, il protagonista, Monsieur Gustave – Trimalcione premuroso nella cura degli propri ospiti ma anche Don Giovanni assiduo frequentatore delle stanze di signore attempate, preferibilmente bionde –, riesce a ottenere aiuto e protezione dall’associazione segreta dei concierge dei più prestigiosi hotel del mondo, di cui lui stesso fa parte, che hanno in due chiavi incrociate la cifra della propria coesione.

Ci piace pensare che quel simbolo richiami anche il forte legame tra il regista del film, Wes Anderson, e la vita e le opere di Stefan Zweig, come riportato nei titoli di coda: il film, sfiorato dalla grazia della leggerezza, da una certa poesia visiva ma anche da passi di danza sull’abisso, riverbera la vita reale dello scrittore viennese, quella onirica delle sue storie e infine quelle stesse storie nel tessuto della quotidianità, mostrando quanto tutte queste cose siano intrecciate.

In questo contesto risulta interessante l’uscita in libreria presso Editoriale Jouvence di La società delle chiavi incrociate, pubblicato per la prima volta nel 2014. Il testo si apre con una chiacchierata, tradotta da Giulia Vallaqua, tra il regista e George Prochnik, autore di un’accurata biografia di Stefan Zweig, in cui emergono non tanto le influenze dell’opera letteraria sulla pellicola – certo qualche suggestione è facilmente rintracciabile –, quanto su Anderson come lettore. Quest’ultimo scopre Zweig per caso e poi fa incetta dei suoi romanzi, come accade a molti, e in questo testo, come in una sorta di antologia, riporta pagine scelte da tre sue opere che lo hanno segnato, desiderando condividerle con altri per i quali vale ancora la domanda: «Zweig! Chi era costui?». La folgorazione sulla Ringstrasse risulta chiara per Anderson, sia nel preludio con Prochnik che nella selezione dei brani, soprattutto nel momento in cui ci si imbatte in riflessioni come questa: «Ogni ombra in fondo è anche figlia della luce e solo chi ha potuto sperimentare tenebra e chiarità, guerra e pace, ascesa e decadenza, può dire di avere veramente vissuto». Un messaggio che suona quanto mai attuale a osservare il mondo che ci circonda e che ci conferma l’universalità dell’opera di Zweig.

Che sia un lettore ma anche un regista di culto a farci conoscere Zweig – quello più squisitamente romanzesco, perché poi c’è anche l’altro, l’autore di accurate biografie storiche con felice mano da ritrattista – rende ancora più stimolante l’avvicinarsi alle opere di un autore che ha subìto negli anni, anche in Italia, tra editori e lettori, l’alta e la bassa marea della popolarità. E pensare che egli è stato nel primo Novecento l’autore di lingua tedesca maggiormente conosciuto all’estero, per la sua capacità di avvicinare un vasto pubblico di lettori divulgando una materia storica e umana in cui era facile identificarsi, da attento e imparziale testimone del proprio tempo, condividendone in prima persona la sorte tragica, e da assertore della libertà interiore dell’uomo. Il cinema in qualche modo gli è sempre invece rimasto fedele. Sono infatti numerose le versioni cinematografiche tratte dalle sue opere: da La paura di Roberto Rossellini fino al recente Il re degli scacchi diretto da Philipp Stölzl, passando per Lettera da una sconosciuta di Max Ophüls.

Tornando alla mediazione di Anderson, il libro di Jouvence ci permette di addentrarci in tre testi che pongono al centro della propria riflessione l’evocazione di un mondo perduto attraverso l’autobiografia di un europeo senza Europa, ormai esule, il tema di una vita scelta dagli altri e del difficile compromesso con la compassione, la capacità di ritrovare le parole adatte per ricordare un evento spartiacque nella propria vita che si è chiuso nell’oblio.

Il mondo di ieri, pubblicato postumo nel 1944 (qui proposto nella traduzione di Giuseppe Dolei), l’anno prima che Zweig, esule in Brasile per la sua ebraicità, si suicidasse, è un’autobiografia e, al tempo stesso, il ritratto incantato di quella Felix Austria definitivamente scomparsa. Anderson ne seleziona i capitoli iniziali, quelli dedicati alla formazione, soprattutto culturale, di Zweig, che arrivano fino ai prodromi della Prima guerra mondiale. È come se Anderson volesse espungere l’elemento guerra, lasciando un finale aperto e mantenendo intatta un’atmosfera di vita colta, raffinata e libera, la stessa, sospesa e lontana dalla Storia, che si poteva respirare al Grand Budapest Hotel. Ricorda infatti il regista:

«Credo che l’arte fosse il centro della sua attività e anche di ciò che c’era di più popolare. Un dettaglio che ricordo dal Mondo di ieri è che i quotidiani che ricevevano ogni mattina contenevano poesie e scritti filosofici. Lui e gruppi di amici si riunivano regolarmente nei caffè. Nuove opere teatrali venivano prodotte di continuo e tutti seguivano i drammaturghi. Vienna era un luogo di grande e profonda cultura, ma quest’ultima subiva un trend equivalente a quello delle rockstar: era la moda del momento. La cultura era estremamente popolare nella Vienna del tempo. Zweig viveva esattamente nel cuore, nell’epicentro di questo fenomeno. E ci visse fino al momento in cui tutto finì».

Lo Zweig che leggiamo in questi primi capitoli è un uomo che vive in un mondo di sicurezza garantita dall’Impero asburgico, per il quale guerre e rivoluzioni sono inimmaginabili, sicurezza che diventa anche un ideale di vita e una commovente fiducia nel poter recingere la propria esistenza contro tutti gli assalti del destino a cui si associa, specie nelle generazioni più giovani, la fede quasi religiosa nel progresso. Zweig, rampollo della buona borghesia ebraica, nei propri ricordi si sofferma su un tema divisivo, negli anni della sua giovinezza, quando ancora  essere ebreo non era diventato un problema. Spiega infatti come l’ideale immanente degli ebrei viennesi di allora non fosse diventare ricchi quanto ascendere alle professioni intellettuali e confondersi nella comunità umana, liberandosi dalle piccolezze del ghetto dei propri avi e facendo della cittadinanza austriaca una missione davanti al mondo.

Zweig vive la propria giovinezza in una città artigiana di cultura – non solo per le classi elevate –, accogliente e dotata di una peculiarità: attira a sé le forze più disparate, le mitiga, le seduce, le placa. A Vienna vige un’atmosfera spirituale e conciliante in cui ogni abitante è inconsapevolmente educato all’internazionalismo, al cosmopolitismo, a essere un cittadino del mondo interno. Un aspetto di cui Zweig sarà alfiere per l’intera vita, grazie ai suoi numerosi contatti con esponenti della cultura di tutto il mondo, una sorta di società delle chiavi incrociate. E non stupisce come la successiva introduzione dei passaporti risulti non solo ingombrante, ma una vera e propria forma di controllo per chi come lui perde la libertà geografica, la possibilità di attraversare i confini senza pensarci. Ci tornano alla mente le scene in treno di Monsieur Gustave, accompagnato dal suo braccio destro, un immigrato di nome Zero, un altro uomo senza patria, in cui questi vengono fermati per il controllo di documenti, che diventano essenziali e addirittura una questione di vita o di morte.

Tornando ai ricordi biografici di Il mondo di ieri, Zweig ci offre nel capitolo “Eros Matutinus”, che Anderson inserisce nella scelta, perché ulteriore tessera del puzzle dell’ambiente viennese, una tassonomia della sessualità sotterranea, specie per i giovani, della città di fine secolo: un mondo di cui tutti conoscevano l’esistenza ma di cui non si doveva parlare apertamente. A questo si aggiunge la frequentazione di Zweig dell’ambiente degli universitari, che si percepivano come una élite a sé stante, con una propensione all’aggressività e, allo stesso tempo, a quella servilità da orda che costituisce il lato peggiore e più pericoloso dello spirito tedesco. Se c’è dunque in queste pagine la nostalgia commemorativa di un mondo che non esiste più e che dava quella sicurezza di cui Zweig sarà poi privato con il crollo della monarchia asburgica e l’avvento del nazismo, emergono anche affondi di acuta riflessione sulla natura umana che verranno ulteriormente nutriti dagli anni berlinesi, vissuti decisamente più a briglia sciolta, lontano dall’ambiente posato da cui proveniva, prediligendo figure intense e indomabili che saranno poi al centro di molti suoi romanzi successivi.

Resta comunque indubbio che la Prima guerra mondiale venga percepita da Zweig come una cesura che pone fine a un sentimento di crescita e di europeismo. Lo scrittore osserva infatti che vi fu un eccesso di forza come tragica conseguenza di quel dinamismo interiore accumulatosi in quarant’anni di pace, e che doveva necessariamente esplodere con violenza. Ogni stato ebbe improvvisamente la sensazione di essere forte e dimenticò che anche gli altri si sentivano allo stesso modo: ognuno voleva di più e qualche cosa dall’altro. E a poco valsero gli impegni degli intellettuali, a cominciare da quello di Romain Roland – il cui incontro segna la vita di Zweig –, il loro appello alla fraternità quando non fanno ancora propria la preoccupazione dei venti di guerra.

In L’impazienza del cuore, il suo primo romanzo, pubblicato nel 1939, qui proposto nella traduzione di Umberto Gandini – secondo testo scelto da Anderson –, Zweig riporta il racconto di un ex militare pluridecorato durante la Prima guerra mondiale, che confessa di essere più un disertore della propria responsabilità che un eroe del senso del dovere. Un uomo che è stato obbligato a seguire, per così dire, il cursus honorum della vita militare e che poi si trova ad affrontare altri doveri. Il libro si apre con uno scrittore noto che visita un ristorante fuori Vienna che suppone essere passato di moda. Ma poi ritrova oggetti e visi familiari e viene approcciato da un Adabei, reso in italiano con un “Eccomi”, quel genere di persona che conosce chiunque, almeno in modo superficiale, che si muove tra la gente e passa da un tavolo all’altro raccontando aneddoti su questo e quello, compreso in questo caso il militare, di cui si scoprirà così la storia. Nelle scene iniziali di Grand Budapest Hotel troviamo uno scrittore che torna dopo anni in quell’hotel dove nulla è cambiato, a parte la vocazione alla decadenza, e ritrova Zero, il braccio destro di Gustave, l’“Eccomi” della situazione, che nel frattempo ne è diventato il proprietario. Ma ciò che lo ha segnato nell’esperienza di lettura, spiega Anderson, è il concetto di «pietà distorta», di cui Zweig offre una singolare doppia definizione:

«Ci sono due tipi di compassione. L’una, quella debole e sentimentale, che è soltanto impazienza del cuore, vuole solo sbarazzarsi il più in fretta possibile della penosa commozione prodotta dall’altrui infelicità; non è affatto una con-passione, ma solamente un’istintiva reazione di difesa del proprio animo di fronte alla sofferenza del prossimo. E poi c’è l’altra, l’unica che conti: la compassione non sentimentale, ma fattiva, quella che sa ciò che vuole, quella decisa a sopportare tutto con pazienza e comprensione, fino allo stremo delle proprie forze e anche oltre».

Tutti vogliono parlare con Zweig, fatto che emerge spesso nei racconti, vista la sua capacità di ascoltare con attenzione e la franca predisposizione a dare il proprio parere, gentile ma sempre puntuale, a volte pungente, sempre con quell’invito a raccontare e raccontarsi con la massima sincerità. Succede alla protagonista di Ventiquattro ore nella vita di una donna, pubblicato nel 1927 e qui tradotto da Cristina Baseggio, un racconto che ha come sfondo un gruppo di ospiti di un lussuoso hotel della Costa Azzurra. Un’anziana signora inglese racconta proprio a Zweig le sue ventiquattro ore di un giorno di trent’anni prima, quando si trovava al casinò di Montecarlo, con il lutto ancora addosso. A colpirla erano state le mani parlanti dei giocatori della roulette, mani come cavalli trattenuti a fatica affinché non scattino anzitempo, che tremano, si alzano e si impennano e rivelano la personalità dei loro proprietari: il cupido dalla mano adunca, il prodigo dalla mano floscia, il calcolatore dal polso calmo, il disperato dal polso traballante. E sarà proprio su quest’ultimo tipo che la donna inglese aprirà una parentesi senza avere la forza di chiuderla. E racconterà quelle ventiquattro ore che hanno cambiato la sua vita. Perché Anderson sceglie questo racconto per concludere la raccolta? Perché alternando con maestria tensione narrativa e sottile scandaglio psicologico Zweig ci offre non solo un testo moderno e conturbante su quanto il destino sia imprevedibile, ma ci introduce in controluce quella poetica che troverà poi formulazione in questo brano compreso nell’antologia andersoniana:

«Il poeta, invece di inventare, ha solo bisogno di farsi trovare dai personaggi e dagli avvenimenti, i quali, se avrà saputo conservare con una lucida capacità di vedere e ascoltare, lo cercheranno di continuo perché si faccia loro narratore: a chi ha spesso tentato di spiegare i destini, molti riferiranno i loro».

 

(Stefan Zweig, La società delle chiavi incrociate. Le opere che hanno ispirato Grand Budapest Hotel. Con un’intervista a Wes Anderson, Editoriale Jouvence, 2022, 290 pp., euro 19, articolo di Claudio Musso)

 

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Libri

La vecchiaia e la scrittura

“Floridiana” di Emanuele Pettener

di Teodora Dominici / 1 marzo

Floridiana di Emanuele Pettener (Arkadia Editore, 2021) è un libro insolito e davvero ben costruito. Innanzitutto per via della sua trama: Tom, un facoltoso dentista settantunenne con velleità letterarie e una bellissima famiglia, ha un’incomprensione con la moglie e va via di casa, poco prima di aderire a una vacanza studio letteraria a Venezia.

Poi, perché ha dei personaggi anziani. Ma non come in certa letteratura dei paesi nordici, in cui aleggia una diffusa aria di mestizia: qui c’è un’anzianità travolgente, un gruppo di uomini e donne settantenni con pensieri, desideri e impulsi vivacissimi, impegnati a correre dietro a una vita ancora colma di sorprese, domande, imprevisti, e a parlarne con sagacia di fronte a un drink o a un’insalata di aragosta in uno dei ristoranti di Ocean Boulevard (siamo a Boca Raton, Florida).

In ultimo, per la lingua. Il lettore è portato per mano e talvolta trascinato dall’eloquio colto, brillante e ogni tanto gustosamente sboccato di Tom, che narra la vicenda in prima persona. Brio e arguzia animano le memorie, gli sfoghi e gli excursus del protagonista, impegnato a saltare tra il presente – la lite con l’adorata moglie April, critica cinematografica e docente universitaria con la passione dell’orto – e una serie di flashback riguardanti la sua vita, la nascita del loro amore, i figli, la prima casa, la carriera, le amicizie importanti, le letture, e soprattutto il sogno di diventare scrittore. Quella dolce fantasia e spina nel fianco così pressante da averlo spinto a frequentare un corso di Creative Writing, a inviare decine di plichi contenenti racconti alle riviste letterarie più in vista, a raggiungere la sudata pubblicazione della prima e ultima raccolta, e per l’appunto anche a litigare con April.

«Le stavo leggendo il mio ultimo racconto e, a metà della scena cruciale, lei mi domanda ex abrupto: “Ti sei ricordato i fagiolini?”».

Ecco il motivo del dissidio: il narcisismo dello scrittore spazzato via in una frase dal pragmatismo della consorte. È tragicomico, e ben raccontato, il groviglio di crucci, tensioni, gelosie e rimpianti del protagonista, la cui psicologia si srotola come un coloratissimo arazzo lasciandoci esplorare un’età molto trascurata in narrativa. Ed è davvero una boccata di ossigeno rendersi conto che non tutto si esaurisce nella giovinezza, anzi.

Rende godibile la vicenda un montaggio ad arte, dove episodi del passato e parentesi si incastonano proprio al punto cruciale del momento presente: con un’alternanza perciò di fatti che si inanellano interrompendosi e proseguendo nei punti di maggior tensione narrativa.

Frequenti citazioni letterarie, giudizi mordaci su grandi scrittori (Carver e Márquez, per citarne solo un paio) strizzano l’occhio al lettore, ponendolo di fronte a un gioco di specchi: nel protagonista Thomas Giannini, italoamericano di New York figlio di un immigrato palermitano, si riflette proprio l’autore, Emanuele Pettener, nato a Mestre e professore di Lingua e Letteratura italiana alla Florida Atlantic University di Boca Raton. È facile immaginare che le dichiarazioni di amore nei confronti della parola letteraria provengano dall’autore, che presta la voce al suo personaggio.

«Mi era concesso un futuro? O almeno un presente in cui quella che sentivo la noce della mia identità, parte sostanziale di me, anzi forse proprio me per intero – la scrittura – non fosse considerata un hobby? Non è terribile che chi ti ama – e tu ami per giunta – consideri hobby l’unico modo in cui tenti di esprimere quell’infinitesima cellula originale che, avvolta da mille sfoglie sociali e familiari, possiamo chiamare definitivamente io? Anche qualora l’effetto di questo tentativo sia solo un balbettio, questo balbettio è più vero di tutte le convenzioni, gli alibi, le maschere morali, le imitazioni volute o meno che vi affastelliamo attorno […] – ecco, scrivere è il tentativo in extremis di non dar più così tanta importanza al mondo, a quello che il mondo pretende da noi, e squarciare a una a una le maschere fasulle che ci siamo appiccicati per accontentarlo, blandirlo, servirlo – e cercare invece quel nocciolo profondissimo di verità che sta dietro tutto e dentro noi, quel diamante purissimo, quel balbettio».

Le riflessioni e le guasconate dell’attempato dentista, così vivacemente attento a ogni aspetto della vita, anche il più sensuale, si mescolano a una fine trattazione psicologica dei personaggi e di quella che è la storia di una vita, anche quando si interseca con la Storia, come nel caso della tragedia delle Torri Gemelle.

Il romanzo è molto estetico, ma anche molto divertente, e colpisce per questa lingua esuberante, rigogliosa, tesa a “cercare un effetto luminoso”. Gustosa è anche la parodia delle manie degli scrittori, sempre un po’ egocentrici e in cerca di attenzioni, come figuranti arrivati in un mondo in cui alla fine tutti, non si sa perché, vogliono diventare scrittori.

C’è molta psicologia e molta leggerezza: la risultante sembra essere che il cuore umano è un guazzabuglio. E c’è anche un velo di malinconia e di pietà nei confronti della propria vecchiaia, della vecchiaia in generale: un’età che di per sé ingenera riflessioni molto profonde e talvolta amare, pur con tutti i sensi ancora all’erta.

Una nota di pregio non indifferente, nell’ultima parte, sono le descrizioni che Pettener, nativo appunto di Mestre, dedica a Venezia: dalle calli riecheggianti di voci al cantico di davanzali che sovrastano la laguna, dai tavolini assolati dove turisti e studenti sorseggiano cappuccini mentre i gatti passeggiano pigramente tra le loro gambe, sino ai richiami dei portuali e dei gondolieri e all’eleganza sognante dei palazzi color oro antico e rosa che si specchiano nei canali, tutto fa pensare di trovarsi in un acquerello di Hugo Pratt, ma più moderno e caotico, facendoci per una volta guardare la nostra cara vecchia Italia con gli occhi incantati di uno straniero.

 

(Emanuele Pettener, Floridiana, Arkadia Editore, 2021, 236 pp., 16 euro, articolo di Teodora Dominici)
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Libri

L’ebraismo fra assimilazione e revisionismo

Su “I Netanyahu” di Joshua Cohen

di Alberto Paolo Palumbo / 22 febbraio

Quando si parla di ebraismo, non si intende soltanto la religione, ma l’identità ebraica in tutta la sua complessità. Chi si può definire ebreo? In questo senso tante sono le riflessioni che si possono fare. L’identità ebraica, infatti, risulta essere più complessa di quello che effettivamente è, come spiega nel seguente brano di Operazione Shylock Philip Roth:

«La ragione è che la divisione non è solo tra ebreo ed ebreo: è all’interno del singolo ebreo. Esiste, in tutto il mondo, una personalità più multiforme? Non dico ‘divisa’. Divisa è niente. […] Devo spiegare l’ebreo come una massa di tremila anni di frammenti speculari a chi ha fatto fortuna come il principale ebreologo della letteratura internazionale? C’è da meravigliarsi se l’ebreo litiga sempre? È una lite personificata!»

Secondo Roth, l’identità ebraica altro non è che un costrutto culturale multiforme che spesso porta a dissidi interiori nell’ebreo stesso. L’autore parla a questo proposito di “inadeguatezza” come “stile degli ebrei”, consistente o nella totale assimilazione dell’ebreo nella sua comunità di arrivo o nell’estremizzazione della propria identità. Espressione di questa inadeguatezza sono due tra i più famosi personaggi della narrativa rothiana: Seymour Levov “Lo Svedese” e Alex Portnoy. C’è chi, ad esempio, decide di assimilarsi alla cultura del paese ospite rinunciando al proprio ebraismo come il primo, e chi invece, come il secondo, decide di vivere da ebreo con le proprie tradizioni. In ogni caso, l’ebreo risulta sempre un outsider: per la sua stessa comunità e per quella di approdo, in quanto incapace di venire a patti col proprio essere.

Una dicotomia del genere la riprende Joshua Cohen con I Netanyahu, vincitore dell’ultima edizione del Premio Pulitzer per la narrativa e pubblicato in italiano da Codice Edizioni. Il romanzo racconta la storia di Ruben Blum, professore di Storia dell’economia americana specializzato negli studi sulla tassazione alla Corbin University, un’università immaginaria nello stato di New York. Blum viene incaricato dal suo capo George Moss di far parte della commissione di valutazione di un nuovo candidato per la cattedra di Storia europea: Ben-Zion Netanyahu, specializzato nello studio del tardo medioevo europeo, in particolare nel periodo dell’Inquisizione. L’incontro con questo potenziale professore porterà però Ruben Blum a fare i conti con la propria identità ebraica:

«Al mio bris, fui chiamato Ruvn ben Alter, “Ruvn il figlio di Alter”. Se avessi avuto un figlio, sarebbe stato ben Ruvn, il figlio di Ruvn. Ben-Zion era il figlio di Zion: il mio ebraico da barmitzvah almeno a quello ci arrivava, anche se si fermava lì. Stavo per conoscere il figlio di Sion».

Per comprendere al meglio questo romanzo, bisogna concentrarsi su due dettagli; il sottotitolo, ovvero Dove si narra un episodio minore e in fin dei conti trascurabile della storia di una famiglia illustre, e la dedica in esergo: «In memoria di Harold Bloom». Come spiega nei ringraziamenti, che possiamo considerare una postfazione vera e propria, Joshua Cohen ha di fatto trasposto un aneddoto raccontatogli dal celebre critico letterario Harold Bloom, che alla Yale University, dove insegnò, incontrò Benzion Netanyahu, il padre di quello che poi diventerà il premier israeliano più longevo della storia, Benjamin “Bibi” Netanyahu.

L’autore spiega inoltre di aver volutamente trasposto in maniera letteraria l’aneddoto di Bloom, in quanto non gli interessava scrivere un romanzo biografico sul padre del Canone occidentale:

«[…] in seguito alla sua morte [di Harold Bloom], nel 2019, ho iniziato a scriverne [dell’aneddoto], e facendolo mi sono ritrovato a inventare un certo numero di dettagli che lui aveva tralasciato e, per via delle circostanze che sto per spiegare, a romanzarne qualche altro. Va da sé che “Ruben Blum”, il prosaico professore di storia economica americana, non vuole essere un ritratto di Harold Bloom, il professore di letteratura inglese più-distante-del-prosaico, così come “Edith” non vuole essere un ritratto di Jeanne, la moglie di Harold altamente acculturata, ingegnosa e sagace, che ha confermato il resoconto della visita di Netanyahu fatto da suo marito e ne ha cortesemente benedetto il mio uso […] e dunque presto i “Blum” hanno preso una vita tutta loro, persino quando i Netanyahu sono rimasti i Netanyahu».

Così Harold Bloom è diventato Ruben Blum, non insegna a Yale Letteratura inglese ma Storia economica americana nell’università immaginaria di Corbin, mentre sua moglie Jeanne è divenuta Edith; Judith, invece, non è la vera figlia di Harold e Jeanne Bloom, ma una parente mandata da loro per stare lontana dal Bronx. Chi resta reale, invece, sono i Netanyahu: Benzion con sua moglie Tzila e i figli Yonatan – che nella realtà morirà nel 1976 a Entebbe, in Uganda, durante un’operazione per liberare degli ebrei presi in ostaggio dai terroristi, diventando così un eroe nazionale di Israele –, Benyamin, che qui ha un ruolo marginale, e Iddo. Riguardo ai nomi dei Netanyahu, quello di Benzion viene scritto con il trattino fra “Ben” e “Zion”, come a rimarcare l’estremizzazione della diaspora e dell’identità ebraica nel patriarca dei Netanyahu, che, come spiega Cohen, ha poi contribuito a plasmare Benyamin Netanyahu come uomo politico:

«Bibi Melech Yisroel, lo chiamavano i suoi sostenitori: “Bibi, re di Israele”. Il suo regno, segnato dalla costruzione di muri e insediamenti, e dalla normalizzazione dell’occupazione e della violenza di Stato contro i palestinesi, rappresenta il trionfo finale della visione revisionista, un tempo caduta in disgrazia, promulgata da suo padre».

L’autore racconta il tutto facendo uso del tipico umorismo yiddish à la Woody Allen e Philip Roth. I Blum e i Netanyahu, infatti, ci vengono presentati non solo in momenti più seri come la vita accademica, ma anche in quelli di convivialità come le cene in famiglia e le feste, mettendo in evidenza – lo recita il sottotitolo – quanto le loro siano sì vite trascurabili – e i loro siano sì episodi minori – ma comunque incisive nella Storia.

Un altro aspetto da non trascurare è la scelta di raccontare questa storia nella forma del campus novel. In questo senso, I Netanyahu è molto simile a La macchia umana di Philip Roth. Come nella storia di Coleman Silk, costretto a ritirarsi dall’Athena College per aver definito “fantasmi” due studenti afroamericani che nemmeno conosceva – in inglese Roth adopera il termine spook, usato nello slang per indicare gli afroamericani –, e vittima dell’antisemitismo sistemico della sua stessa università, anche Ben-Zion fa esperienza di una certa discriminazione nei confronti degli ebrei insita nel sistema universitario americano e, in misura più grande, nella società americana in generale.

L’eco di Philip Roth e dei suoi personaggi – che sia Coleman Silk, Seymour Levov o Alex Portnoy – è molto presente nel romanzo di Cohen, come si può notare dalla storia di Ruben Blum, un ebreo da sempre considerato outsider e costretto a essere come gli altri per non ritrovarsi sempre sotto i riflettori:

«In sostanza, per quasi tutta la vita – a dire il vero fino a poco tempo fa, quando una valanga di traumi piede-gamba-anca mi ha costretto a barattare la mobilità per la mortalità –, non ho mai tratto forza dalle mie origini e ho colto tutte le occasioni possibili per ignorarle, quando non potevo negarle. Sono venuto al mondo con una pelle non del tutto bianca, ma mentre crescevo si è indurita. […] In quanto unica famiglia ebrea a risiedere nel nostro piccolo villaggio sul lato sbagliato dei monti Catskill nel milieu del dopoguerra, noi Blum (io, mia moglie Edith e mia figlia Judith) dovevamo confrontarci con vessazioni continue. […] L’aspetto con cui io e Edith dovevamo confrontarci più spesso in quanto primi ebrei di Corbindale era la continua condiscendenza a bassa intensità: la sensazione che dovessimo sentirci fortunati anche solo per essere lì, per essere stati ammessi, per aver avuto un lascia passare. Ci parlavano dietro, ci parlavano sopra; ci si “degnava” di darci retta; venivamo trattati con aria di superiorità, studiati. La nostra presenza era un insulto per alcuni e una curiosità per altri».

Già in queste righe si può intuire il motivo per cui Ruben Blum ha sempre cercato di fuggire dalle sue radici, un aspetto rimarcato per esempio nella discussione con i genitori di Edith sull’assunzione di Ben-Zion e sul rischio di sfuggire o meno all’accusa di favoritismo verso gli ebrei, ma anche nel momento della correzione dei compiti di Judith: «Più tempo dedicavo a quelle correzioni, più potevo stare alla larga dagli ebrei, da ciò che – o meglio da chi – mi girava sul cuore». Quello di Blum è lo stesso sentimento di vergogna provato da Seymour lo Svedese, che lo porta a privarsi della sua identità ebraica e a diventare americano a tutti gli effetti perché, parafrasando Roth, la pastorale americana dura ventiquattr’ore: una convivenza fra confessioni religiose diverse non è pienamente possibile, e in questo senso la terra promessa americana non è che un sogno mai realizzato. Questo nascondere le proprie radici da parte di Blum è evidente soprattutto nella sua attività di storico, ma anche in quella di revisore degli elaborati di Ben-Zion:

«Era come se, facendo così, stessi tenendo a bada la mia, di storia; come se stessi lasciando fuori il passato, le vecchie voci rauche e perdute da grilli parlanti dei rabbini nello scantinato, tantissimi anni prima, che stavano di nuovo mormorando attraverso l’infelicità e la rigidità di un altro straniero che si era avvalso pure lui dell’inglese del dizionario per mettermi in guardia contro l’autocompiacimento… per mettermi in guardia contro l’America».

L’arrivo di Ben-Zion fa nascere in Blum la consapevolezza di essere vittima dell’antisemitismo sistemico della Corbin University – che costringe Ben-Zion a tenere seminari sulla Bibbia – e dell’America nel suo complesso. Nella lettera che il professore Peretz Levavi della Hebrew University di Gerusalemme indirizza a Blum, si legge che Ben-Zion «ha mostrato una tendenza a politicizzare il passato ebraico, trasformando i suoi traumi in propaganda». Esempio di questa tendenza alla politicizzazione è lo studio sull’Inquisizione nella penisola iberica, che secondo Netanyahu aveva lo scopo non tanto di convertire gli ebrei al cattolicesimo, quanto di colpevolizzare quelli già convertiti, come se non si smettesse mai di essere ebrei. Questa rivisitazione dell’Inquisizione risulta essere, secondo Levavi, il frutto del trauma subito dal padre di Ben-Zion, Nathan Mileikowsky, sfuggito al pogrom del 1879; questo, sotto l’influenza sionista del yeshivah (istituzione educativa ebraica) di Volozhin, cambiò nome in Netanyahu (mandato da Dio) per investirsi del ruolo di traghettatore dei sionisti verso la Terra Promessa dove diventare ebrei liberamente:

«La storia del sionismo è così difficile da raccontare, e tutti i tentativi si trasformano presto in metafisica, diventando evanescenti. Socialisti, comunisti, anarchici, sionisti: provi a pensare a quante identità gli ebrei hanno dovuto assumere nell’era moderna solo per poter essere quel che erano, per poter essere di nuovo ebrei… Ma questa volta, per essere ebrei liberamente…»

L’estremizzazione delle idee e dell’identità di Ben-Zion, e di conseguenza anche il suo revisionismo storico, sono dovuti alla sua reazione verso l’atteggiamento dell’America e della Chiesa nei confronti dell’identità ebraica, considerata una categoria da estirpare per meglio dominare gli altri popoli:

«Oggi, in America, sospetto che revisionismo significhi quasi la stessa cosa, ma dentro il contesto di un’altra struttura di potere: il revisionismo è l’insistenza a scrivere la storia in un mondo che destabilizza ciò che si definisce classe dirigente e interferisce con il funzionamento del governo e degli affari. Ammetto che questo mutamento di significato mi ispira: una parola che in origine significava minare una dottrina radicale ai fini del compromesso è passata a essere una minaccia pericolosa all’ordine dominante. Ma non è forse quello che succede sempre quando si fanno dei compromessi? Si perde, la causa è persa, e la tua debolezza ti viene rigirata contro. Sotto un altro aspetto, la versatilità della parola revisionismo, la sua applicabilità a qualsiasi fine politico, mi ricorda l’uso e l’abuso di un’altra parola: ebreo».

Alla luce di quanto detto da Ben-Zion, Blum comprenderà di essere un falso, un costume in carne e ossa, una persona che per vivere come americano ha dovuto estirpare la sua vecchia identità, perché la società americana ha preteso questo per meglio assoggettarlo alla sua influenza. Quanto a Netanyahu, la sua presunta follia e il suo fanatismo paradossalmente risultano essere una sconfitta per gli americani, in quanto cercare di eliminare confessioni diverse dalla propria porta sempre alla loro estremizzazione, col rischio di fomentare ancora di più le divisioni: il fallimento, cioè, della pastorale americana.

Quello che racconta Joshua Cohen in I Netanyahu diventa, insomma, un episodio minore che fa da specchio a un intero mondo: non solo quello universitario statunitense, ma anche quello globale che travalica i confini americani. Trasponendo letterariamente un aneddoto personale di Harold Bloom, Cohen ci racconta ciò che ancora oggi è visibile: il persistente fanatismo di certe confessioni religiose dovuto alla discriminazione sistemica, che diventa un modo per liberarsi dalle costrizioni sociali e per non rinunciare alla propria identità.

 

(Joshua Cohen, I Netanyahu, traduzione di Claudia Durastanti, Codice Edizioni, 2022, 271 pp., euro 20, articolo di Alberto Paolo Palumbo)
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Libri

Cos’è la fame

Tre autori per una condizione a noi quasi sconosciuta

di Elisa Carrara / 20 febbraio

Io non so cosa sia la fame, la fame vera: non la conosco, e non sarei in grado di raccontarla. Appartengo a quella porzione di mondo che crede sia normale sedersi a tavola tre volte al giorno e consumare pasti diversi e nutrienti; che impiega più o meno trenta minuti per assemblare un piatto, i cui ingredienti sono stati acquistati al supermercato, in offerta.

Non conosciamo la fame perché come tutto ciò che conta nella vita (l’amore, il dolore, la morte), può essere compreso solo attraverso l’esperienza diretta. Possiamo ricorrere all’immaginazione e chiederci: cosa si prova a essere affamati? Non per qualche ora, per un giorno o due, ma per settimane, mesi, anni. È una debolezza infinita? Un tormento perpetuo? Qual è il limite, il momento esatto in cui il vuoto nello stomaco diventa un buco nero, una voragine capace di inghiottire il corpo, l’anima, la vita stessa?

Con la fame accade esattamente quello che succede con l’idea della morte: talvolta ci illudiamo di afferrarla, di capirla, perché ne incontriamo ciò che crediamo essere una sua versione attenuata, purificata. Quando immaginiamo di non esistere più, pensiamo al buio, al momento in cui chiudiamo gli occhi prima di addormentarci; e quando immaginiamo la fame, pensiamo ai morsi dello stomaco o a quella volta che abbiamo digiunato per un giorno intero.

Un corpo affamato è un corpo che mangia sé stesso, e non è una metafora. A spiegarlo bene è Martín Caparrós giornalista e scrittore argentino, nella sua opera monumentale La fame (Einaudi, 2014): chi è affetto da denutrizione acuta (una delle tante definizioni della fame) si consuma fino a non esistere più.

È in questa fase, spiega, Caparrós, che compare il kwashiorkor, la condizione dal nome impronunciabile, che colpisce prevalentemente i bambini piccoli (sotto i 5 anni): addome sporgente, ingrossamenti al volto, alle braccia, anemia, capelli che virano al rossiccio, ossia i segni ostensivi della fame. Quelli che abbiamo imparato a riconoscere soprattutto nei corpi dell’Africa subsahariana, condannati allo status di affamati perpetui, a essere una forma, una nozione nella nostra scala di conoscenza; condannati a non avere un’identità, ma a diventare, loro malgrado, solo la rappresentazione di un fenomeno: tutti uguali, indistinguibili, gonfi, disperati. E soprattutto, lontani, da noi, dal nostro modo di vivere, dal nostro modo di mangiare e di esistere.

Nell’agosto del 1968 Goffredo Parise visitò l’allora Repubblica del Biafra e raccontò la sua esperienza, prima in Biafra (Feltrinelli, 1968), poi in Guerre politiche (Einaudi, 1976), una serie di reportage forse tra i più toccanti della storia del giornalismo italiano: i momenti significativi riguardano l’ingresso e la permanenza in un campo profughi a Umuhaia (oggi in Nigeria): «Solo un poco alla volta», scrive al suo arrivo, «e aguzzando lo sguardo si riesce a distinguere in questa massa, che ha perduto le caratteristiche individuali dell’umanità e ha assunto quelle collettive e indecifrabili della morte, ciò che un tempo doveva essere un uomo, una donna, un bambino. Si è costretti a guardarli dall’alto perché quasi nessuno si regge in piedi». Poi si sofferma sui più piccoli «una folla di minuscoli vecchi in silenziosa, educata, composta attesa» e introduce un elemento chiave, ricorrente nell’osservazione e nel racconto della denutrizione: il silenzio e la fame sono viaggiatori destinati non solo a incontrarsi, ma a coesistere. Anzi, si può dire che senza l’uno non esisterebbe l’altra.

Parise descrive i bambini come creature ultraterrene, esserini che vagano in un limbo, sospesi tra la vita e la morte, inconsapevoli di entrambe e perciò indifferenti alla loro condizione. Il corpo grida, ma dalle bocche non esce un suono: i movimenti sono lenti, e persino la vista del cibo non produce in loro il minimo interesse. Parise, a questo punto, compie un’ulteriore operazione di avvicinamento: il suo sguardo oltrepassa la folla indistinta, per arrivare a un gruppo più ristretto (i più piccoli), fino a soffermarsi su un microcosmo composto da sole due persone: si lascia rapire da un’immagine, una giovane madre, una ragazza sui 15 anni, che ruba, nascondendosi, quel poco cibo che viene portato al figlio di appena due anni.

Scrive Caparrós quasi cinquant’anni dopo il reportage dello scrittore vicentino: «C’è stato un tempo in cui la fame era un grido, ma la fame contemporanea è, soprattutto, silenziosa: la condizione di chi non ha la possibilità di parlare. Parliamo – con la bocca piena – noi che mangiamo. Chi non mangia in genere tace. O parla dove nessuno lo ascolta».

Nel 1890 il norvegese Knut Hamsun pubblicò un romanzo semiautobiografico dal titolo esplicito: Fame (Adelphi, 2002) è la cronaca della vita quotidiana di uno scrittore bohémien, che cerca di sopravvivere nella capitale norvegese di fine Ottocento, Cristiania (che di lì a poco avrebbe cambiato il nome in Oslo). Il libro inizia con un’affermazione sincera e radicale «A quel tempo ero affamato»: e tale convinzione profonda lo accompagnerà per quasi tutto il tempo. Lo vediamo vagare di notte nella città, coricarsi sulla panchina in un parco pubblico, vendere il panciotto e la coperta in cambio di qualche moneta. Lo osserviamo svegliarsi in una soffitta spoglia, addormentarsi con le scarpe addosso per non sentire troppo freddo, tentare di procurarsi carta e matita per scrivere degli articoli, proporli a un giornale e guadagnare qualcosa. «Avevo una fame atroce. Avevo tanta fame che non sapevo dove battere la testa. […] Mi strappai una tasca dalla giacca, me la ficcai in bocca e mi misi a masticare, ma senza pensarci, aggrottando la fronte […].»

In questo grandioso romanzo (che raggiunge le vette di Kafka e Dostojevskij) Hamsun sottolinea un elemento nuovo nel racconto della malnutrizione: chi ha fame non solo è circondato da un silenzio assordante, ma ha perduto il diritto di esprimersi e di essere capito. A non essere ascoltate sono le grida di aiuto, è vero, ma anche ciò che l’affamato vuole e può dire.

Nell’indifferenza del mondo urbano, il protagonista di Hamsun cerca disperatamente di aprire bocca, per parlare, nutrirsi, socializzare e persino amare: ignorato, tenta di trovare altri modi di esprimersi, di urlare al mondo la sua fame, di cibo e di vita. La scrittura gli appare come l’unica via di salvezza, come il solo mezzo attraverso il quale poter rivendicare la propria esistenza. Chi non può nutrirsi, semplicemente non esiste e non ha alcun potere, sulla sua esistenza, sul futuro, sul presente. Non possiede neppure l’opportunità di immaginare, perché ogni energia, ogni gesto, ogni pensiero sono tesi a capire se e quando si mangerà di nuovo.

Trovare del cibo, quando non lo si possiede o non si ha accesso ad alcuna riserva, è un’impresa sfiancante: si è costretti ad attingere alle ultime risorse per cogliere anche la minima traccia di un qualche tipo di risorsa. Siamo abituati a pensare che mangiare sia un atto meccanico, naturale; che ciò che si trova sulla nostra tavola sia il risultato di scelte e, perché no, di una accurata preparazione. Ma la realtà, per chi non siede alla nostra stessa tavola, è ben diversa.

Ci sono posti nel mondo, in cui per assicurarsi un pasto, bisogna svegliarsi all’alba, e lavorare senza sosta fino a che non si è ottenuto il cibo: per poi andare a dormire e ricominciare daccapo il giorno dopo. Lo racconta sempre Caparrós (e sempre benissimo) quando, nelle prime pagine del suo libro, dialoga con una ragazza in Niger: la sua giornata è letteralmente scandita dalla preparazione di un impasto di miglio, da dare al marito e ai figli. Per lei non esiste altro: l’idea di poter mangiare qualcosa di nuovo o di poter trascorrere i suoi giorni in modo diverso non la sfiora neppure. La sua vita è un’eterna e incessante preparazione di un pasto.

C’è, infine, una definizione nell’opera di Caparrós che mi è rimasta impressa e che trovo particolarmente vicina anche al libro di Knut Hamsun, e proviene da una donna in Bangladesh: «la fame sono centomila zanzare nell’orecchio».

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Libri

Fantasmi romani, ieri e oggi

A proposito di “Diario di un’estate marziana” di Tommaso Pincio

di Niccolò Amelii / 13 febbraio

Diario di un’estate marziana di Tommaso Pincio, uscito per Giulio Perrone Editore proprio sul finire dell’anno che ha celebrato (seppur un po’ in sordina) il cinquantenario della morte di Ennio Flaiano, è un testo difficilmente catalogabile – non è una biografia, non è un «medaglione», non è un ritratto –, mosso, più che dall’andamento lungo e felpato dell’indagine, dal passo cadenzato e timido del corteggiamento, dell’avvicinamento cauto e sussultante. La struttura portante del testo è affidata a una divagazione saggistica che però assume cangianti sembianze diaristiche, costellata da «improvvisi» narrativi – di natura spesso aneddotica – in grado di agire come collante tra io narrante e io narrato, così come tra presente e passato. Quella di Pincio è, infatti, una flânerie non solo topografica, ma anche temporale, vale a dire un andirivieni diacronico che si dipana senza soluzione di continuità nel retroterra della mitografia romana, di ieri e di oggi, all’insegna degli umori reali e dei moti esistenziali profondi di chi quella stessa mitografia ha collaborato a metterla in scena senza però aderire davvero mai alla sua superficie brillantinata. Il Flaiano che emerge gradualmente dalle pagine del Diario è un uomo sfuggente e inquieto, che va ben oltre il personaggio, oltre la maschera che gli è stata cucita addosso – quella dell’arguto fustigatore dei costumi nazionali, pigro e indolente, ma dalla battuta sempre pronta –, e che lui stesso a volte si è sentito obbligato a indossare per rispondere alle aspettative altrui, alle pressioni culturali che premevano intorno. Pincio vuole giustamente emancipare – e alla fine ci riesce benissimo – Flaiano dalla «flaianite», ossia da quel fenomeno assai diffuso tra critica e pubblico per cui lo scrittore abruzzese viene spesso ridotto a mero caratterista, aforista, elzevirista, come se la sua intera opera artistica – teatrale, letteraria, cinematografica – non fosse altro che un di più, una ramificazione secondaria da apprezzare da lontano.

In questo «libercolo di pensieri sparsi», a metà tra digressione meta-artistica e rêverie urbana, Pincio instaura, con una prosa dinoccolata e raccolta, che fa della frammentarietà e del tono colloquiale – pur aperto a squarci di più intenso lirismo – i suoi maggiori pregi, un dialogo con un fantasma ancora aleggiante su quei luoghi – via Veneto, via Isonzo, via di Campo Marzio – che sono stati teatro di un lungo e sofferto disinnamoramento. Sì, perché Roma è l’altra grande protagonista del libro, e non potrebbe essere altrimenti. Roma è una città che puoi amare – specialmente agli inizi, quando il disincanto è ancora lontano –, ammirare, bestemmiare, ma mai capire davvero, e questo Flaiano lo aveva intuito perfettamente. Troppe facce, troppe stratificazioni storico-culturali, troppe nature differenti inglobate e poi fuse e sedimentatesi in un unico immenso coacervo urbanistico. A Roma esiste solo la storia, che si dispiega quale somma di infiniti passati. Il tempo, in una città in cui si ragiona in termini di secoli e non di ore, te lo devi inventare, carpirlo dal quotidiano affastellarsi di volti, gesti, voci per provare a imprimergli una traccia che possa definirti, almeno un poco, nella vana speranza di non essere subito dimenticato, sperso tra la folla dei senza nome, irretito da un immaginario così suadente da ammaliare persino i suoi più fieri oppositori. A Roma non esiste l’eclatante, il fuori luogo, l’assurdo, tutto è già stato detto fatto visto scritto. Proprio per queste ragioni, la capitale è il posto ideale per incubare e portare a ebollizione l’amaro scetticismo che sottende, sin dai germi inaugurali, l’intera produzione flaianea. Nonostante il rapporto di «odiamore», che negli anni si esacerberà sino a far prevalere il primo termine sul secondo, solo a Roma, assistendo giorno per giorno alla sua tanto peculiare fenomenologia – tanto più estroflessa e luccicante negli anni del boom economico, della «Hoolywood sul Tevere», della «società del benessere» –, Flaiano può trovare confermati gli assunti centrali della sua filosofia negativa, per cui la vita è un vero e proprio valzer degli errori, tutto è vanitas, ogni cosa è destinata a decadere tra l’indifferenza dei molti, i sogni fatui della gloria e della fama brillano come miraggi imprendibili.

A Roma Flaiano – forse perché la liaison con la città nasce sul terreno già dissestato di un precoce abbandono, causato dall’espulsione dal nucleo famigliare e dal conseguente trasferimento in collegio a soli dodici anni – sperimenta sulla sua pelle l’eterna diffidenza del provinciale, che non si sente mai al suo posto, come fosse un intruso illustre, un ospite non proprio benvoluto a cui è concesso apparire sul proscenio ma solamente per un rapido saluto di commiato. Ecco allora che le sue parole – acuminate, esatte, prensili – agiscono innanzitutto come schermo, come difesa, come spazio intermedio tra sé e la realtà circostante. Lo stesso umorismo flaianeo – tutto impregnato di quel «sentimento del contrario» di matrice pirandelliana – provoca sempre un riso trattenuto, che subito vira verso la malinconica presa di coscienza del dramma quotidiano che si nasconde nella sostanza delle cose, al di là delle apparenze che mistificano il volto contratto dell’umanità. Ne consegue una satira mordace, tutta pars destruens, che si sviluppa all’ombra di una visione esistenziale fondata sulla convinzione che non ci sia più nulla da costruire, nessuna parola d’ordine da difendere, alcun ideale su cui fare leva per proiettarsi in un ipotetico futuro migliore. Flaiano è, in fondo, un postilluminista, ovverosia un fatalista raziocinante che ha però smesso di credere nel progresso e anche nel potere taumaturgico della ragione. La sua ironia velata di tristezza rappresenta allora l’applicazione letteraria di una particolare postura individuale, l’estrinsecazione artistica di uno sguardo gettato sul mondo da una posizione irregolare, defilata, estranea e straniata, che gli consente di cogliere le aporie del quotidiano, il costante sfasamento tra essere e apparire, tra impotenza e desiderio, tra moralità evanescente e vaneggiamento diffuso.

Spesso in disparte, sfuggente, vittima di un’intelligenza troppo acuta, attenta a infilarsi nelle scorciatoie – così importanti nella trama del suo unico romanzo, Tempo di uccidere (1947), vincitore della prima edizione del premio Strega –, negli «strappi» del presente, negli interstizi che si aprono nella facciata falsamente agghindata del reale, Flaiano non riesce a godersi il successo, considera effimero il «protagonismo» tanto agognato dagli altri membri del demi-monde romano, soffre per le doppiezze e le illusioni di coloro che ritiene amici – Fellini, in primis. Pincio coglie perfettamente il lato più opaco e più vero – nel suo vulnus, nelle sue criticità – di un autore non ancora perfettamente storicizzato in sede critico-teorica, ma che ha compreso meglio di chiunque altro che la realtà non può farsi troppo a lungo mito, perché il mito si rivela compiutamente solo nella stasi, nella sospensione, nell’immobilizzazione dell’atmosfera e dei caratteri. Oltre il mito, dopo il mito, c’è solo farsa asfissiante, riproposizione posticcia, prolungamento patetico e demodé. Del resto, cos’altro è la Dolce vita se non un sogno tardivo che si dissolve improvviso al momento di un risveglio che si sarebbe voluto rimandare ancora e ancora?

In Flaiano – così come in Pincio (e le tangenze tra i due autori non finiscono qui) – è ben radicata l’amara consapevolezza che le cose tendono a brillare nel loro massimo fulgore proprio nel momento in cui cominciano a scomparire, soprattutto a Roma, città-set in cui lo spettacolo della vita e della morte, dell’odio e dell’amore, si confonde, si mescola, si prolunga dal palco alla platea, facendo di tutti attori, comparse, meteore; soprattutto d’estate, stagione che rappresenta innanzitutto uno stato d’animo, la fascinazione perversa per l’abbaglio più lucente, per le ore dilatate e però già apparentemente estinte, per ciò che si riverbera al tramonto, in procinto di scomparire nel torno di poche settimane.

Dall’accostamento di nuclei tematici che si sfilacciano improvvisi per poi ricomporsi e sfibrarsi di nuovo – le amicizie tormentate, le ferite sottaciute, le delusioni letterarie – viene fuori un triangolo, anzi un doppio triangolo non del tutto sovrapponibile, che però condivide lo stesso inevitabile apice, Roma: Flaiano-Passato-Roma + Roma-Presente-Pincio, restituito mediante le accensioni estemporanee di un’opera costruita con un montaggio di schegge, di flash, di aneddoti frammentari, in cui a emergere è la figura di un Flaiano umbratile e malinconico come può esserlo, per chi la ama, la fine di ogni estate. Nell’economia di questo diario saggistico-aneddotico la collisione estemporanea dei discorsi e dei registri si accompagna specularmente a un processo ermeneutico per cui la memoria – quella dell’autore, così come quella della città – diviene palinsesto composito, utile a illuminare quelle convergenze parallele che permettono a Pincio di accostarsi al fantasma di Flaiano in cauto ascolto, senza forzature o sovrainterpretazioni. Tale aderenza di vedute si esplica proprio nella capacità di entrambi gli scrittori – e chi è un affezionato lettore dell’opera pinciana lo sa bene – di cogliere il nocciolo duro della vita proprio quando essa si dà in absentia, cioè quando, all’apogeo del suo splendore, lascia scorgere in filigrana la malinconia di là da venire, il retro ombroso delle cose pronto a occupare presto l’intera scena. Sarà per questo motivo che Flaiano tanto teneva alla propria pigrizia, facendone persino un vanto, una risorsa da difendere gelosamente. Essa era per lui il modo più congeniale per sentirsi sempre in potenza, senza mai lasciarsi catturare dalle forme, rinunciando alla perfezione asfissiante del cristallo. Sfuggendo alla frenesia del fare e dell’apparire, mettendo a tacere, seppur a fatica, le proprie ambizioni, Flaiano lascia che le idee, le emozioni, i pensieri lievitino all’interno, per poi raccoglierli quando emergono in superficie, restituendoli con precisione svizzera sulla pagina, intagliata icasticamente come se le parole fossero incisioni di Fontana.

 

(Tommaso Pincio, Diario di un’estate marziana, Giulio Perrone Editore, 2022, 180 pp., euro 16, articolo di Niccolò Amelii)
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Cinema

Addio al capitalismo culinario

di Elisa Scaringi / 3 febbraio

L’anno prossimo il Noma chiuderà i battenti per diventare 3.0. La formula gourmet abbandona il campo all’esplorazione di nuovi progetti. Il ristorante più famoso al mondo mette in luce la crisi di un sistema per tasche ricchissime, ma ormai non più sostenibile. The Menu, in sala lo scorso novembre e ora disponibile su Disney+, propone allora una soluzione estrema: dare fuoco alla cucina di alto livello. Il piccolo esercito della brigata guidata da un tenente colonnello (lo chef candidato ai Golden Globe Ralph Fiennes, in arte Julian Slowik) fa scoppiare letteralmente la bomba, mettendo sulla griglia degli s’more umani, vestiti di marshmallow e col cappello di cioccolata. Il fuoco è la fiamma purificatrice «che ci nutre, ci riscalda, ci reinventa, ci forgia e ci distrugge». Il cibo industriale è la cenere che rimane a inquinare la terra, oltre che il nostro stomaco. I ricchi che pagano per avere un’esperienza culinaria sono la brace ardente, che non ha paura di andare in fiamme pur di degustare, pagando fior di quattrini.

All’inizio del film l’aspettativa dei commensali è alta, cominciando dalla suggestione di approdare sull’isola esclusiva di Hawthorn, e se non fosse per la deriva violenta che prende la vicenda, le pietanze la soddisferebbero ampiamente. Il cibo nel piatto, però, è sintomatico di un disagio: fino a che punto possono spingersi il potere e la ricchezza prima di cadere nel baratro di un limite che non sembra mai arrivare?

Come è stato per Triangle of Sadness, anche qui il capitalismo viene preso di mira, sbeffeggiato e fatto a pezzi. L’ironia passa attraverso il cibo gourmet, il simbolo di una cerchia di ricchi che possono sborsare 1.250 dollari per una cena. Solo Margot (la “regina degli scacchi” Anya Taylor-Joy, candidata anche lei ai Golden Globe) non comprende la filosofia che la circonda: ha voglia di cheeseburger e alla fine lo ottiene, mettendo alla prova lo chef, ripreso nell’unico momento in cui davvero cucina con entusiasmo.

Il gourmet è un genere ormai stanco e noioso, che folgora ancora i ricchi, ma senza più alcun senso ideale: il cibo “perfetto” è quello casalingo e genuino, che ricorda l’infanzia e dà uno schiaffo alla sperimentazione fredda e cruda di piatti già fuori moda.

Anche nella prima stagione di The Bear, sempre su Disney+, la cucina d’alto livello fa una brutta figura: il protagonista, infatti, si ritrova proprietario del locale di famiglia, infimo, sporco e confusionario, dove però i rapporti umani lo risollevano da un passato come chef di prim’ordine. Dopo aver lottato, sofferto, sudato per scalare posizioni nella brigata, anche a costo di maltrattamenti e soprusi, un dolore personale diventa l’aggancio per lasciare il bianco pulito di una cucina ordinata (ma odiosa) e immergersi nel buio sporco di un locale trasandato (e poi bellissimo). The Bear potrebbe essere il contraltare di The Menu: da una parte c’è il nome del ristorante dei sogni, l’orso che sta in gabbia ma vorrebbe evadere, dall’altra l’appellativo dell’unica cosa che conta in una cucina gourmet, ossia il menu. Ma The Bear potrebbe anche essere ciò che viene dopo The Menu, quando l’isola è saltata in aria e rimane solo un sopravvissuto, la Margot del cheeseburger goloso e familiare, che solo alla fine gusta davvero il cibo ottimale per il suo sentire. Non più la freddezza di un piatto perfetto e incomprensibile, ma il calore di un ricordo familiare.

Nella vita reale è il Noma che sta per dare il suo addio ai palati dorati da 500 euro a pasto. Non si potrà più pagare per avere un’esperienza culinaria di alto livello, almeno in quel di Copenaghen. Si chiude un capitolo, forse, per dare nuovo spazio al cibo e alla creatività artistica.

(The Menu, di Mark Mylod, 2022, thriller, 107’)

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Libri

Donne, uomini, bestie e città invisibili

Brevi appunti a margine di “Qualcosa sulla terra” di Davide Orecchio

di Pietro Bocca / 30 gennaio

«L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».

Italo Calvino, Le città invisibili

 

Ci sono due città elementali visibili, e più che visibili. Un asse verticale che unisce l’acqua al fuoco, l’abisso al braciere; una città che sprofonderà nel mare e un’altra che verrà bruciata da piromani disperati. E queste città, che sono e non sono l’Italia, che sono e non sono Venezia e Roma, non possono avere nomi: sono agglomerati di palazzi scarnificati e città-mondo, metafore friabili dell’abitare, all’interno delle quali un esercito di non-playable-characters e fantasmi corregge le proprie aspettative di vita a fronte di spese insostenibili e marciapiedi desertificati. Sono città in cui c’è stata una pandemia, c’è una pandemia, ci sarà una pandemia – dove la Storia si rispecchia nelle storie, e le storie sono semplici, perché gli esseri umani sono semplicissimi.

In una di queste città, nella città bruciata, nella «città che s’incendia, pazza per l’odore del fuoco» si muove il corpo lirico di Davide Orecchio, fra le voci più rilevanti della contemporaneità letteraria, che provando a smaterializzarsi cerca di “esistere” transitivamente una di queste storie semplici di umani semplicissimi; cerca di dare vita a un non-detto, di strappare dalla gola cadaverica di un corpo femminile inerte – perché bruciato – tutti «i pensieri negati dal mondo alla donna», e lo fa in un lampo, in un racconto “lungo” che si affida a un punto di vista ab inferis (a tratti à la Mario Luzi e a tratti à la Citizen Kane), un punto di vista infernale che si traduce in uno sguardo verso l’alt(r)o inteso come salvagente anulare. Qualcosa sulla terra: ma dove bisogna guardare? Mi sembra che la risposta di Orecchio sia chiara: ci si deve guardare in faccia, scendere di casa, magari ancora con «gli zigomi feriti da una maschera di protezione» – ogni cosa perde il suo nome proprio: città, scrittori-poeta, social network divenuti teche d’esposizione –, e scendere di casa per trovare l’Altro, per chiedergli la sua storia. Per sapere dove sono scappati i suoi gatti quando è stato ricoverato in ospedale d’urgenza e non c’era nessuno che chiudesse la porta; i suoi gatti che un nome ce l’hanno.

C’è bisogno di un (ir)realismo creaturale, di una militanza del sentimento, in questo pianeta Terra dell’antropocene. Questo, Orecchio l’ha capito: c’è bisogno di un’idea di vita che sia dignitosa, c’è bisogno di posare lo sguardo su palazzi fatti di cartapesta e chiedersi quando crolleranno, e poi di farsi più stretti; di fare comunità. Di parlare con gli ectoplasmi che si aggirano per il quartiere con un lutto sulle spalle. Di operare a ritroso per creare una genealogia dell’insignificanza – e cambiare così prospettiva, mettersi nei panni, nel pelo, nei problemi di bestie (umane e non) che vivono. Che rispondono con la carne al nostro presente liofilizzato, già Storia prima che storia, in cui non sappiamo più che nome dare alle cose. In questo tono immediato si riassume il confine sottile fra un sentimento della fine del mondo, demartiniano, e una speranza che rema al contrario.

Qualcosa sulla terra: Bianca e Gilberto. Ma Bianca e Gilberto chi sono? Chi può garantire per loro? Chi li ha notati quando respiravano a fatica nei loro piccoli appartamenti, colpiti da un Coronavirus mai nominato? Chi ricorderà i loro nomi in un domani inconoscibile e reso frammento? A quattro domande risponde una sola parola: nessuno. Bianca e Gilberto non sono nessuno, se non una lapide e un cognome sconosciuto sul citofono; e, allo stesso tempo, sono l’Altro. Orecchio sceglie di scriverne l’elegia antimediale, antiletteraria, schivando il pericolo implicito del patetismo (al quale io, invece, mi sottraggo a fatica) per dare vita a un testo che è complesso da posizionare in una scatola precisa: topografia del fantastico, reportage impossibile, scheggia di autofiction, corsa a ostacoli, invocazione, evocazione, cartone animato, favola, nosografia del presente, tragedia periferica – ogni cosa vicina a ogni cosa, a seguito di un’implosione che si manifesta nell’anacoluto, nell’involuzione morfosintattica, e poi nella ripetizione della parola e nel suo dispiegamento improvviso, nella paratassi sincopata; nello uàgana uàgana, verso diabolico dei gabbiani che dal cielo si proietta sulle piazze svuotate da un’apocalisse senza palingenesi.

«Fare qualcosa, / qualcosa / fare / nell’alto, nel / basso. / Qualcosa, sulla terra»: di nuovo una verticalità, una linea che congiunge terra e cielo, nell’esergo di Celan che, insieme a due versi della compianta Patrizia Cavalli, introduce la materia del racconto; ma non si intuisce ancora a pieno quel tema vagamente escatologico che Orecchio lascia trasparire in controluce lungo tutto il racconto. Nella prima e nella quarta sezione della struttura tetrapartita del racconto (una struttura-canovaccio, sbilanciata, e proprio per questo efficace) ci sono degli avvertimenti, delle preoccupazioni, che si esprimono prima attraverso la parola controllata di Orecchio e, solo in chiusura, tramite la parola impossibile di Bianca, impossibile perché sotterrata, e incenerita. In quest’inquietudine, che appartiene a chi vive tanto quanto a chi è morto, c’è un presagio del timore che suscita il nostro presente; la percezione di una discesa con un guasto ai freni. Ma è anche vero che sembra bastare un grido, una lotta, o un alleato inaspettato, per discutere da capo i termini del nostro esistere – un esistere transitivo («Lei esisteva me e io la esistevo»), come dicevo all’inizio –, per scoprirsi più uniti di fronte al «cadavere di una detonazione» che è la postframmentazione odierna.

Qualcosa sulla terra: noi – e, solo in seconda battuta, lo scrittore che ci descrive.

 

(Davide Orecchio, Qualcosa sulla terra, Industria & Letteratura, 2022, 76 pp., euro 10, articolo di Pietro Bocca)
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Libri

L’ESEMPLARE RIUSCITO E LO SCARTO

A proposito di “La camera oscura di Damocle” di Willem Frederik Hermans

di Claudio Musso / 18 gennaio

Nel 1940 un giovane olandese, dalla vita familiare lastricata di inciampi, passa le proprie giornate dietro il bancone di un negozio di sigari dove si sviluppano anche rullini fotografici, nel tentativo, privo di entusiasmo, di fare qualcosa. Nel perimetro domestico ci sono la poco avvenente cugina, ora sua moglie, che affonda le mani negli incassi dell’attività per godersi la vita alle spalle di un marito diafano, e una madre confusa che ha fatto fuori il padre e che gira per casa, spesso di notte, avvolta da un lenzuolo per spaventare gli altri. Certo non proprio una vita idilliaca per chi, come Henri Osewoudt, il protagonista di questo romanzo, deve confrontarsi da tempo con l’essere non del tutto uomo, per giunta senza particolari qualità, agli occhi degli altri e, in fondo, anche dei propri. La sua bassa statura gli impedisce infatti il servizio militare e, nella mentalità degli anni Quaranta, l’accesso alla virilità, a cui si aggiungono suo malgrado altri difetti come il viso perennemente glabro e una vocina acuta da castrato. Non stupirà dunque se qualcuno, nel corso di questo racconto, lo farà travestire da suora infermiera per fargli passare indenne i blocchi militari.

La successiva occupazione nazista dell’Olanda diventa per Osewoudt un’opportunità per sfuggire alla routine e al solito sé stesso. Quando infatti un giorno entra nel suo negozio un tale Dorbeck, misterioso membro attivo della resistenza, le cose prendono un altro corso. Quest’ultimo somiglia in modo impressionante al protagonista, «come un negativo di una foto è uguale al positivo». Dorbeck chiede a Osewoudt – con quella voce «sonora come una campana di bronzo» che dà l’idea di una sveglia che squarcia il torpore nel quale vive il tabaccaio ma rimarca anche la differenza di mascolinità nonostante la somiglianza fisica – di sviluppare alcuni rulli fotografici che conterrebbero informazioni sui nazisti. Ed è questa la prima delle molte missioni che nel tempo vengono affidate a Osewoudt con messaggi spesso confusi e farraginosi che restituiscono al lettore un’immagine meno eroica e molto improvvisata della resistenza olandese.

Grazie a questo incarico il protagonista esce da una vita ai margini e si mette nei panni di un altro sé, un altro in cui gli si dice di essere. Segue infatti ciecamente gli ordini di Dorbeck perché questi rappresenta il mondo dell’attività, del dominio e dell’avventura che Osewoudt desidera fortemente per ragioni che poco hanno a che fare con il patriottismo. Compie sabotaggi, depistaggi e delitti – che stupiscono per la freddezza e l’abilità dimostrate, data la totale impreparazione – dei quali conosce le motivazioni, ascrivendoli a una generica banalità del bene che richiede il suo contributo. Si comporta insomma come un vero uomo mandando così in frantumi la sua precedente immagine.

In un primo momento si ha l’impressione che Osewoudt agisca come un automa, come un prolungamento di Dorbeck. Quest’ultimo appare quasi una sorta di esorcista dell’io inerme del protagonista, una persona di cui non si può più fare a meno, pena la rinuncia a questa nuova esistenza a contatto con il rischio e a una virilità recuperata. In un secondo momento all’interno delle vicende narrate, ricche di incontri e scontri, avventure, inseguimenti, tradimenti, scambi di persona, il partigiano vero agisce freddo e spietato e quello per caso esegue i compiti assegnati dall’altro immaginandosi già un paio di decorazioni militari una volta finita la guerra. Tuttavia, benché le operazioni avvengano parallelamente, per tutti i personaggi del romanzo – tranne che per il lettore che osserva gli avvenimenti solo attraverso la visuale e la verità di Osewoudt – è solo uno ad agire, data la forte somiglianza, lo stesso che compare sui giornali e sullo schermo dei cinema con tanto di taglia. A complicare poi l’intreccio contribuiscono due fatti: in primo luogo nessuno, tranne il protagonista, ha mai visto Dorbeck, neanche scavando nei segreti dell’intelligence del dopoguerra; in secondo luogo la constatazione che tutti quelli che sono venuti in contatto con Osewoudt, nelle sue varie peripezie e acrobazie, sono finiti nelle mani del nemico tedesco e giustiziati. Ne consegue che, mentre il protagonista ci racconta il suo impegno nella resistenza, con fatti circostanziati e con tanto di interrogatori della Gestapo in quanto in cima alla lista dei ricercati, il mondo intorno a lui lo considera invece un traditore che, protetto dai tedeschi, si insinua nelle cellule partigiane per stroncarle.

In questo romanzo del 1958, pubblicato ora per la prima volta in Italia da Iperborea con la traduzione di Claudia Di Palermo, Willem Frederik Hermans, figura di spicco della letteratura nederlandese, usa la guerra solo come pretesto, come sfondo dal quale raccontare un’esistenza, quella di Osewoudt. Questa viene sottratta all’arbitrio del singolo, trasformata nel suo contrario e infine condannata per ciò che non ha fatto con la messa in dubbio delle proprie verità. Ci troviamo dunque di fronte a un testo «innamorato del reale e allo stesso tempo sedotto dall’improbabile e dalla stranezza» – nelle parole di Milan Kundera –, che si presenta come metafora di un individuo che, gettato nel mondo, compie azioni assurde che in ultima istanza gli si ritorcono contro. E come risuona profetico quel brano letto a scuola da Osewoudt nell’ilarità generale:

«Per giorni vagò con la sua zattera, senza bere. L’acqua dell’oceano era salata e lui moriva di sete. Odiava quell’acqua che non poteva bere. Ma quando la zattera fu colpita dal fulmine e prese fuoco, raccolse con le mani l’odiata acqua per cercare di spegnere l’incendio!»

Quando Osewoudt passerà da prigioniero dei tedeschi a prigioniero degli Alleati, benché invochi il nome di Dorbeck e il suo intervento a dirimere la questione, prova «l’impressione di vivere in un altro mondo in cui nessuno mi può credere». Il disorientamento è dunque destabilizzante per chi ha aperto la camera oscura non solo del suo retrobottega per sviluppare rullini contro i tedeschi ma anche del proprio animo per rendere realtà il suo nuovo io. Come destabilizzante è essere un novello Damocle che, vestiti i panni di un uomo più forte – in fondo dell’uomo che ha sempre voluto essere –, sente la minaccia della spada appesa sopra la propria testa quando la ricerca dell’onnipotenza, quasi nietzschiana, è strettamente connessa con l’autodistruzione.

Le letterature si parlano. La vita è quella che è, ci suggerisce Hermans, inutile dibattersi o ribellarsi a una sorte dai meccanismi incomprensibili (in altri testi dall’autore definiti “sadici”) di cui si è prigionieri con lacci che stringono quando si tenta di scioglierli e dove «tutta la lotta è un viaggio nell’oscurità dove il senso delle cose svanisce», sempre nelle parole di Kundera. Inoltre sembra che la verità sia solo una questione di interpretazioni e di combinazioni casuali di dettagli, come i numerosi faldoni pieni di fogli volanti a carico che Osewoudt si vede sbattere in faccia durante gli interrogatori. E la verità degli altri, del tutto arbitraria ma accettata come una colpa, richiama quella che troviamo nelle vicende di Karl Rossmann in America di Franz Kafka: il protagonista del romanzo prima viene licenziato in tronco con accuse che proliferano impazzite, incapace di difendersi, e poi diventa schiavo a casa di Delamarche, incapace di ribellarsi.

Il romanzo ci introduce in un’atmosfera generalmente fredda e distante nella quale la presenza nazista tra la popolazione non viene percepita come un corpo spurio ma come parte integrante di una nuova quotidianità che va per conto proprio, elemento che rimarca da parte di Hermans il paradosso olandese durante la Seconda guerra mondiale. Il narrato è brillante e punteggiato da personaggi dinamici e da eventi che si susseguono rapidamente con un ritmo talmente veloce da non lasciare tregua al lettore. Hermans apre le proprie pagine dentro la testa di Osewoudt perché è lì che avviene tutto, è lì il deposito da cui partono i binari sui quali corrono le vicende, il crocevia in cui si confondono colpa e innocenza, verità e inganno, il punto cieco in cui il protagonista decide di essere come Dorbeck, chiede la sua ammissione all’umanità, benché questo sia: «Più o meno quello che succede nelle fabbriche: ogni tanto esce un prodotto con un difetto, allora ne fanno un altro e scartano l’esemplare malriuscito… Solo che io non sono stato scartato, pure se difettoso ho continuato a esistere. E non me n’ero mai reso conto, finché non ho incontrato Dorbeck. Allora ho capito. Ho capito che lui era l’esemplare riuscito, che a paragone di quell’uomo non avevo motivo di esistere, e l’unico modo per rendermi accettabile era fare per filo e per segno come mi diceva. Ho fatto tutto quello che mi ha chiesto, ed è stato parecchio».

Questo testo è una psicomachia senza requie. Perché saremo sempre dibattuti dal dubbio se Dorbeck sia esistito realmente o solo nella testa di Osewoudt. Ancora oggi la critica si interroga e si divide su questo punto, sottolineando elementi a suffragio di una o dell’altra tesi. Ma concentrarsi troppo sul primo personaggio ci fa dimenticare il secondo. Nel testo, difficile non coglierlo, ribolle infatti sotterraneo – a conferma delle molte riflessioni che questo romanzo suggerisce, aldilà della sua patina thriller – un tema molto moderno: l’identità di genere, quella di chi è imprigionato nel proprio aspetto da tutta la vita, un aspetto dal quale vuole scappare. E forse serve a poco chiedersi: Dorbeck, dove sei?

 

(Willem Frederik Hermans, La camera oscura di Damocle, traduzione di Claudia Di Palermo, Iperborea, 2022, 448 pp., euro 19,50, articolo di Claudio Musso)
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Libri

Di scrittura e di memoria

A proposito di “La Triomphante” di Teresa Cremisi

di Manuela Altruda / 11 gennaio

«Sono nata ad Alessandria d’Egitto, sull’altra riva del Mediterraneo. Non ho deciso di scrivere per dar sfogo alla nostalgia. Soltanto i luoghi riescono a scatenare dentro di me tempeste violente, ma la nostalgia è un sentimento che non amo coltivare. Sono una persona pratica, con i piedi per terra».

Non esiste scrittura senza memoria e viceversa. Chi scrive sa bene – inutile negarlo, salvo rare eccezioni – che tra le sue pagine si nasconderà sempre un gesto, un ricordo, una parola che appartiene al passato e che, volente o nolente, si paleserà in quell’atto così intimo e al tempo stesso violento. Ciò accade con smentita dello scrittore o della scrittrice di turno nel più dichiarato romanzo di finzione, e con meno tentativi di diniego in un memoir o in un testo di autofiction – questo genere tanto inflazionato quanto misterioso sul quale in molti hanno ancora le idee confuse.

La memoria è alla base della scrittura e ne è uno strumento imprescindibile. Ma chi scrive può davvero fidarsi dei suoi ricordi? E se la risposta è si, allora cosa è reale? In sostanza: chi scrive può piegare la memoria o è l’esatto opposto? È ovvio che non esista una risposta certa e scientifica, ma chi legge – per diletto o per mestiere – può comunque indagare e provare a capire fino a che punto la memoria inganni e devii il modo di raccontare una storia.

Questo vale anche per le memorie editoriali: memoir, lettere, testi, dialoghi lasciati da figure che hanno fatto la storia dell’editoria italiana del Novecento, da Calvino a Vittorini, da Ginzburg a Pavese, e così Livio Garzanti, Valentino Bompiani, fino all’ultima fatica di Gian Arturo Ferrari.

Se molte volte questo genere di testi mira a mettere sotto i riflettori il lavoro di uomini e donne già celebri, nel memoir di Teresa Cremisi La Triomphante (apparso per la prima volta nel 2016 per Adelphi, nella traduzione di Lorenza Di Lella e Francesca Scala, e ora in commercio in una nuova edizione tascabile), la propensione all’apologia è molto lontana. Teresa Cremisi è stata braccio destro di Antoine Gallimard e direttrice editoriale della maison Gallimard per diciannove anni, poi presidente e CEO delle edizioni Flammarion fino al 2015 (riunendo Flammarion, J’ai lu, Casterman, Autrement e Fluide glacial) e oggi, dal 2021, dopo la morte di Roberto Calasso, è presidente di Adelphi. Inoltre fa parte del consiglio di amministrazione del Musée d’Orsay e della Bibliothèque nationale de France. Eppure in questo libro non c’è una sola parola che faccia intravedere tutto ciò: non ci sono grandi nomi o grandi incarichi, solo una donna che ha cambiato città, lavoro – passando di azienda anonima in impresa sconosciuta – e inevitabilmente sé stessa.

L’autrice ha settant’anni quando scrive La Triomphante, un memoir diviso in quattro atti – Mattina presto, Tarda mattinata, Pomeriggio, Nove di sera – in cui tutto scorre come in un’opera lirica. Con fare da contralto la voce di Teresa racconta al lettore gli affetti, le delusioni, ma anche le incertezze di una vita da migrante. In chiusura – Mezzanotte e mezza – c’è una poesia intitolata Dalle nove di Constantinos Kavafis, poeta originario anch’egli di Alessandria. Non è un caso l’accostamento alla lirica perché il titolo sembra un rimando convinto alla Juditha triumphans di Antonio Vivaldi, l’unico oratorio sopravvissuto dei quattro – il numero quattro che ritorna – scritti dal compositore veneziano. L’oratorio viene citato nel libro a metà della narrazione e se in un primo momento sembra chiarire la scelta di questo titolo ermetico e sfuggente, è la stessa autrice a smentire in seguito le conclusioni affrettate del lettore: «Dopotutto Giuditta aveva trionfato solo su Oloferne, ubriaco fradicio e innamorato».

In quest’opera Cremisi mette ordine tra i ricordi e prova a colmare i vuoti di memoria, come quando tentava di ricostruire le storie nascoste dietro cartoline d’epoca trovate in una vecchia scatola da scarpe nel negozio di un rigattiere ad Avignone. Nata nel 1945 ad Alessandria d’Egitto, cresce negli anni della crisi del canale di Suez, in un contesto familiare multiculturale: suo padre era un imprenditore italiano, sua madre una scultrice spagnola e italo-inglese, Teresa frequenta il collegio cattolico francese di Nostra Signora di Sion. Intorno ai dieci anni si rende conto che la sua condizione non è la normalità ad Alessandria: possedere diversi passaporti – quello svizzero era considerato «il massimo dello chic» –, vivere in palazzi un po’ stile Haussmann un po’ Art déco, essere in vacanza già a marzo in Svizzera e poi ad Antibes nei mesi più caldi, spostarsi in Chevrolet e non con il «treno dei poveri», si tratta di privilegi per pochi.

Le rivolte del Cairo del 1952 furono spia di qualcosa che stava cambiando, ma è nel 1956 che i Cremisi sono costretti a lasciare quella vita effimera per scappare da ciò che sarebbe venuto dopo. Se fino a quel momento i viaggi sono stati simbolo di una vita agiata, dopo il 56’ si trasformano in necessità. La prima tappa dell’epopea dei Cremisi è Roma.
«Perché proprio Roma? Per mia madre era evidente: per via del nostro passaporto italiano e dei rapporti d’affari di mio padre».

Qui la famiglia acquista un appartamento in fondo a via Nomentana, all’epoca margine estremo della città, inizio o fine di essa, a seconda dei punti di vista. In questi anni c’è di buono che la madre riesce a farsi notare come artista, grazie anche all’appoggio di un noto scultore del tempo, Pericle Fazzini, conosciuto alla Biennale di Venezia. Acquistano una Fiat seicento verde oliva per esplorare le spiagge del litorale laziale così come facevano in Egitto. L’illusione di serenità dura però poco: il 26 luglio del 1956 il presidente Nassar annuncia la nazionalizzazione del canale di Suez, e l’azienda di cui è socio il padre di Teresa è in gravi difficoltà. Ancora una volta la loro storia va di pari passo con quella dell’Egitto, ancora una volta sono costretti ad andare via. Teresa legge I sette pilastri della saggezza di Lawrence e, come è solita fare, cerca di farsi coraggio leggendo. Prossima tappa: Milano.
«Non sapevamo bene dove si trovasse Milano. Al nord, vero?»

Nei primi mesi alloggiano in un hotel alle spalle del Duomo, l’Albergo Rosa; il padre riesce a ottenere un lavoro grazie a un conoscente di Alessandria mentre la madre trova un nuovo appartamento facendo oscillare un pendolo su una vecchia mappa della città; la giovane Teresa si iscrive a scuola in un convento di suore marcelline e il suo migliore amico e consigliere è lo stendhaliano conte Mosca. Poi ci sarà l’università, la laurea in Lingue, e il primo impiego in una redazione di un giornale grazie a un pezzo di critica teatrale – anche se il suo obiettivo è la politica interna. Ma il traguardo sarà diverso e inaspettato: direttrice della tipografia del giornale per molti anni e codirigente del gruppo editoriale insieme al delfino dell’azienda, il figlio del direttore. Crede – come sempre accade con i primi impieghi – di aver trovato il lavoro della sua vita, ma ci saranno momenti di grande sconforto e pentimento. In quei casi va in un supermercato, il suo preferito è la Upim di corso Vercelli. Intanto Teresa perde la madre che prima di morire ha avuto la lucidità di attuare il suo piano di damnatio memoriae della famiglia: aiutata da una qualche domestica corrotta distrugge foto, lettere e ricordi. Sopravvive all’operazione una foto degli anni egiziani, ritrovata solo dopo la morte del padre. Un feticcio della memoria o un appiglio.

È un momento complesso caratterizzato dall’insoddisfazione nei confronti dell’Occidente idealizzato come concetto, solo «una grigia omologazione ottenuta a furia di impegno e rinunce», e dallo spaesamento. È ancora un libro a chiarirle le idee: Conrad le suggerisce di andare oltre la sua linea d’ombra e Teresa si trasferisce a Parigi, terra della lingua materna – lingua delle origini, degli anni felici e non a caso scelta anche per la scrittura di questo testo. Nel racconto degli anni francesi viene fuori con forza un tema che torna in tutta la narrazione: la lingua, quella salvata in senso canettiano, è considerata l’unico mezzo possibile per integrarsi. Solo la lingua ci fa appartenere. Il francese di Teresa è ancora lì, nella sua memoria, ma è quello della madre, un vocabolario datato da manuale scolastico che lei cerca di aggiornare ascoltando tutto ciò che la circonda. Apprendere, assimilare. È così che dopo anni si convince di essere pronta per richiedere la cittadinanza francese nonostante le sedici pagine di documentazione da compilare e un test attitudinale impossibile da sostenere.

All’identità linguistica si affianca la ricerca di quella religiosa. Teresa si fa battezzare da bambina senza troppa convinzione e solo perché le sue compagne di classe sono cristiane. Arrivata a Parigi chiunque incontri dà per scontato che sia ebrea. Del resto «gli ebrei d’Alessandria sono il sale della terra», come faceva a non rendersene conto?

Dopo lunghi anni il legame con Parigi sembra vacillare, così Teresa decide di passare alcuni mesi dell’anno in un piccolo borgo sul mare. Qui il lettore scopre che la Triomphante non è Giuditta, l’eroina biblica che ha trionfato con l’inganno, ma una corvetta dell’Ottocento oggetto di un disegno di Édouard Jouneau, un felice ritrovamento dell’autrice presso un antiquario parigino. Tutto sembra più chiaro: Teresa è nata dal mare e al mare ritorna, nella piccola Atrani: «Ho un’immaginazione portuale» scrive nella prima riga di questa opera meravigliosa, e dopo averla letta nulla ci sembra più vero e sincero. Nonostante la dichiarazione di non scrivere per dare sfogo alla nostalgia, questo libro, fatto di parole semplici ma scelte con cura – un lessico che ricorda quello famigliare di Natalia Ginzburg –, profuma di mare, di carta e di vecchie foto ritrovate in un mercatino delle pulci. Questo libro sa di memoria, reale o ingannevole che sia.

 

(Teresa Cremisi, La Triomphante, trad. di Lorenza Di Lella e Francesca Scala, Adelphi, 2022, 185 pp., euro 12, articolo di Manuela Altruda)
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Libri

Federico Caffè, ovvero l’alternativa inascoltata

“Una civiltà possibile” di Thomas Fazi

di Marco Di Geronimo / 9 gennaio

«Se [quanto scrivo] non basterà a modificare le cose, servirà almeno a chiarire, per futura memoria, che una alternativa inascoltata è sempre esistita nel nostro Paese». In due righe, Federico Caffè riassumeva così il compito di un’esistenza intera. Una vita di sforzi intellettuali per un’Italia diversa, rispettosa della dignità dell’uomo, intransigente con la grande finanza distruttiva. Thomas Fazi ha reso onore al pensiero di Caffè con un volume divulgativo, da qualche mese in libreria con Meltemi: Una civiltà possibile.

Un libro pregevole con cui l’autore scandaglia tutta l’opera dell’economista facendola costantemente dialogare con il maestro John Maynard Keynes, con gli avversari accademici e con gli attori politici che hanno ancorato l’Italia a politiche di tutt’altro segno. Ne emerge un Caffè poliedrico: rigorosissimo nelle analisi intellettuali, polemico negli articoli per il manifesto, sempre elegante in ogni suo scritto (si sente la distanza dai toni sguaiati del dibattito di oggi, a cui sovente non si sottrae nemmeno lo stesso Fazi). Ma emerge soprattutto la passione politica del Professore abruzzese: l’amore per l’uomo, la considerazione per il suo lavoro, il dovere morale di lottare contro l’oligarchia che lo opprime.

Fazi ricostruisce il retroterra scientifico e culturale di Caffè e sottolinea la portata rivoluzionaria della Teoria keynesiana, che serviva a costruire (per bocca dello stesso Keynes) un «socialismo liberale» (oggi diremmo democratico). Tutt’altro che un modo di salvare il capitalismo da sé stesso, come a volte viene rappresentata. Nelle pagine del primo capitolo se ne respira l’influenza sulle classi dirigenti degli anni Quaranta: Caffè studia a Londra mentre al numero 10 di Downing Street si insedia il determinatissimo laburista Clement Attlee. Ma è anche un tempo dalle forti contraddizioni, con le sinistre italiane già sedotte dalla «suggestione dell’appello al mercato», e il circolo dei dossettiani, invece, permeabile alle novità d’Oltremanica.

In questo scenario comincia la carriera di Federico Caffè, «il più keynesiano degli economisti italiani». Grazie a una sapiente scelta narrativa, Fazi lo mostra sempre in guerra contro la deriva neoliberale dell’economia italiana, spesso in polemica con le sinistre politiche. Si parte da un fugace riferimento a Togliatti, paladino della lotta all’inflazione, e si arriva a una lettera di Caffè a Berlinguer in cui si perora la piena occupazione. Nel mezzo, l’affascinante contestazione da sinistra al sistema delle partecipazioni statali, del quale Caffè criticava «l’intelaiatura “privatistica”» si accompagna comunque alla strenua difesa del welfare state e dell’intervento pubblico in economia, sostenuta sulla scorta degli insegnamenti di William Beveridge. Uno studioso militante, perfettamente consapevole dell’orientamento politico che inevitabilmente influenza qualsiasi economista, il quale non è uno scienziato, ma un uomo che trae dall’osservazione dei fatti i suoi personali «criteri di desiderabilità».

Dopo una brillante prima parte di taglio teorico, le pagine centrali del volume sono dedicate alla grande crisi degli anni Settanta. Epoca di gravissime turbolenze economiche, innescate – non troppo diversamente da ora – da una crisi petrolifera di origine geopolitica, difficili da gestire e da comprendere con i soli insegnamenti di Keynes. L’inflazione, fuori controllo per il boom dei prezzi dell’energia, divenne il perno del dibattito e fu addebitata alle rivendicazioni dei lavoratori. Una trappola perversa, che produsse le teorie del «vincolo esterno», dell’«eccesso di democrazia», e perfino della «crisi fiscale dello Stato», elaborata dal marxista James O’Connor, iniziatore suo malgrado della rottamazione del pensiero interventista.

Fazi dipinge un Caffè consapevole della posta in gioco che, sconcertato dall’arretramento del dibattito, denuncia senza mezzi termini «la riaffermazione di un liberismo economico che spesso confonde la valorizzazione dell’iniziativa individuale con la salvaguardia a oltranza delle posizioni privilegiate». Ben diversa la ricetta da seguire: muovere verso la socializzazione di una larga fetta degli investimenti (nella scia dell’amato Keynes, ma in fondo anche di Polanyi), costruire uno Stato al servizio dell’uomo, che ponga al primo posto la piena occupazione, avvalersi senza timore di un sistema dei cambi flessibili.

Una civiltà possibile si chiude proprio con un’ampia riflessione sul rigido sistema monetario europeo, l’antenato dell’euro, che Fazi ricollega ai «sacrifici senza contropartite» che il PCI decise di gestire insieme alla DC. In un momento delicato per la Repubblica Italiana, nasce il compromesso storico berlingueriano, appoggiato dal sindacato di Luciano Lama e Bruno Trentin. La reazione di Caffè è dura: l’economista chiede se sia ancora lecito parlare di protezionismo economico, e denuncia una «sinistra subalterna che, per andare o restare al governo, rimette al passo le forze del lavoro senza ottenere sostanziali trasformazioni economiche». In questo humus culturale matura la scelta dell’Italia di aderire allo SME, nonostante i rischi di germanizzazione della nostra industria, e alle politiche di austerity del Piano Pandolfi.

Contro tutto questo Caffè combatté una battaglia faticosa, nella quale subì pesanti contraccolpi personali. Preso di mira dalla stampa, con lui polemizza anche Padoa-Schioppa, mentre i suoi allievi Baffi e Sarcinelli (ai vertici di Bankitalia) sono travolti da una macchinazione giudiziaria legata al crack del Banco Ambrosiano che li fa estromettere dagli incarichi dirigenziali, nell’interpretazione di Fazi anche per favorire l’ingresso italiano nello SME. È una sconfitta per il keynesismo. Caffè, pochi anni più tardi, depresso per gli eventi politici e per la pensione che lo priva della gioia dell’insegnamento, sparirà nel nulla senza lasciare traccia.

Breve, di agevole lettura ma profondo, Una civiltà possibile è un libro affascinante, ben costruito, ricco di riferimenti, impreziosito da una miriade di citazioni di Caffè e di molti altri protagonisti del dibattito economico italiano. Un’opera che gronda passione politica e che mostra la forza intellettuale e trasformativa del pensiero interventista in economia.

Negli anni, Thomas Fazi è stato tacciato di sovranismo, di vicinanza ai no-vax, di estremismo dal colore indefinito. Il lettore non troverà niente del genere in questa biografia intellettuale perlopiù onesta e rigorosa, scritta senza conformare – se non di rado – il passato alle idee del presente. Può capitare, qua e là, di incappare in qualche comparsata apparentemente immotivata di Mario Draghi, allievo di Caffè che il saggista evoca con ironica malizia proprio per misurarne lo scostamento dal pensiero del maestro. Il vero punto debole è lo spazio che Fazi, noto per le sue aspre critiche all’euro, riserva allo SME, sproporzionato rispetto alla scarsa mole e portata delle osservazioni in materia di Caffè; e infatti sono soprattutto altri i protagonisti intellettuali che Fazi cita e muove tra quelle pagine. A parte questo dettaglio non proprio trascurabile, il suo è un lavoro importante, che ricorda all’Italia e alle sue classi dirigenti il senso di un impegno intellettuale e politico per un mondo nuovo, purtroppo controcorrente rispetto ai suoi e ancor più ai nostri tempi. Eppure, a dispetto di inutili e idioti determinismi ex post, un’altra civiltà è sempre possibile.

 

(Thomas Fazi, Una civiltà possibile. La lezione dimenticata di Federico Caffè, prefazione di Luciano Barra Caracciolo, Meltemi, 2022, pp. 216, 18 euro. Articolo di Marco Di Geronimo)

 

Flanerí

Libri

Cosa è successo negli ultimi mesi in editoria

#1 ottobre-novembre-dicembre 2022

di Alberto Paolo Palumbo / 23 dicembre

Lo scorso settembre è ritornata per Flanerí la rubrica DietroLeQuarte, con l’idea di tracciare una cartografia dei principali avvenimenti dell’editoria nostrana e non. In questo nuovo articolo si parlerà di quanto successo fra ottobre, novembre e dicembre, periodo in cui non sono mancati premi letterari, fiere e uscite editoriali che sicuramente faranno parlare di sé nei mesi a venire.

Iniziamo ricordando due anniversari importanti che hanno avuto luogo nel mese di novembre e dicembre. Il 16 novembre, infatti, avrebbe compiuto cento anni l’autore portoghese José Saramago, Premio Nobel per la Letteratura nel 1998. In occasione di questo anniversario, che si festeggerà con convegni e presentazioni dedicati all’autore di Azinhaga in tutta Italia, Feltrinelli – editore storico di Saramago – ha pubblicato per la prima volta in italiano la sua opera prima La vedova, uscita in portoghese nel 1947 con il titolo Terra del peccato, e l’album fotobiografico I suoi nomi. Per La Nuova Frontiera sono state pubblicate le Lezioni italiane, volume curato da Giorgio De Marchis che raccoglie per la prima volta tutte le lezioni che Saramago ha tenuto nell’arco di vent’anni in giro per l’Italia fra festival, università e teatri. Il 14 dicembre, invece, è stato il centenario della nascita di Luciano Bianciardi, autore e traduttore originario di Grosseto. Per quest’ultima occasione Feltrinelli ha ripubblicato in un unico volume dal titolo Trilogia della rabbia le sue tre opere più famose: La vita agra, L’integrazione e Il lavoro culturale. A Bianciardi è stato dedicato anche il Premio Luciano Bianciardi, organizzato da Fondazione Bianciardi e Giangiacomo Feltrinelli Editore, il cui primo vincitore, annunciato al Teatro degli Industri di Grosseto il 14 dicembre, è stato Antonio Moresco.

Quanto alle fiere e ai festival, a cavallo fra fine settembre e gli inizi di ottobre ha avuto luogo Book Pride, fiera dedicata all’editoria indipendente che si è svolta quest’anno al Palazzo Ducale di Genova, e ha avuto come ospiti internazionali il Premio Pulitzer Joshua Cohen, Clementine Hanael, Jon Bilbao, i vincitori del Premio Strega Europeo Amélie Nothomb e Mikhail Shishkin. Se dal 16 al 18 ottobre ha avuto luogo a Roma il Salone dell’editoria sociale, dal 28 al 29 ottobre, invece, è stata realizzata l’ottava edizione di Ricomincio dai Libri, con sede a Napoli. BookCity si è svolto a Milano dal 16 al 20 novembre con ospite in apertura alla fiera il norvegese Karl Ove Knausgård, mentre il 16 novembre è iniziata la tredicesima edizione di Presente Prossimo, in provincia di Bergamo. Dicembre, invece, ha visto il ritorno di Più Libri Più Liberi a Roma, con protagonisti autori internazionali come Azar Nafisi, Claudia Rankine, il Premio Goncourt 2021 Mohamed Mbougar Sarr, il Deutscher Buchpreis 2019 Saša Stanišić e Kader Abdolah.

Notizie importanti da segnalare sono la nomina di Giulia Ichino a responsabile editoriale della narrativa e della saggistica italiana per Bompiani, e quella di Ricardo Franco Levi a presidente della Federazione degli Editori Europei (FEP) . Nicola Lagioia ha invece annunciato sui social di non ricandidarsi più alla direzione del Salone del Libro di Torino. Sono inoltre stati annunciati i nuovi curatori di Book Pride, che saranno lo scrittore e finalista del Premio Strega 2022 Marco Amerighi e la giornalista Laura Pezzino.

Il mese di ottobre, inoltre, ha visto l’arrivo di una nuova casa editrice: si tratta di Accento Edizioni, nata da un’idea di Alessandro Cattelan e il cui direttore editoriale è Matteo B. Bianchi. La casa editrice articolerà la sua offerta editoriale in tre collane: “Accento Acuto”, dedicata agli esordienti italiani, “Accento Grave”, agli autori e ai libri da riscoprire, e “Dieresi”, alla saggistica. I primi titoli sono stati: Tutto ciò che poteva rompersi di David Valentini, Senza respiro di Raffaella Mottana e Manuale di caccia e pesca per ragazze di Melissa Bank, ripubblicato con prefazione di Paolo Cognetti dopo la prima edizione Sperling & Kupfer. A novembre, invece, è stata inaugurata la collana di microfinzioni glossa per pièdimosca, a cura di Carlo Sperduti, con l’antologia Multiperso e Statue linee di Marco Giovenale, mentre attraverso il loro marchio Coppola Editore i tipi di Marotta & Cafiero hanno iniziato il rilancio dei titoli di Biplane Edizioni, casa editrice brianzola che ha chiuso i battenti recentemente, con la ripubblicazione di Il vento non si arrende di Elisa Bedoni.

Passiamo ai premi letterari. Il 26 ottobre è stata annunciata la nascita del Premio Strega Poesia, che verrà assegnato per la prima volta a ottobre 2023 con l’annuncio della cinquina finalista a maggio. Dopo il successo del Premio Campiello, Bernardo Zannoni, con I miei stupidi intenti, si è aggiudicato a ottobre il Premio Severino Cesari e a novembre il Premio Fiesole under 40. Il 19 novembre, invece, sono stati assegnati il Premio Letterario Massarosa, andato a Nikolai Prestia con il suo debutto Dasvidania (Marsilio), e il Premio Letteratura d’Impresa, vinto invece da Veronica Galletta con Nina sull’argine (minimum fax). A dicembre lo scrittore astigiano Gian Marco Griffi ha vinto il Premio Mastercard con Ferrovie del Messico, eletto anche libro dell’anno da Fahrenheit, la trasmissione radiofonica di Radio 3. Sempre a dicembre sono stati annunciati i vincitori del Premio Napoli: Titti Marrone ha vinto la sezione narrativa con Se solo il mio cuore fosse pietra (Feltrinelli); Valerio Magrelli ha trionfato in quella di poesia con Exfanzia (Einaudi); Enzo Traverso, infine, si è aggiudicato la sezione di saggistica con Rivoluzione 1789-1989 (Feltrinelli).

Quanto ai premi stranieri, va prima di tutto menzionato il Premio Nobel per la Letteratura, andato quest’anno a Annie Ernaux, pubblicata in italiano dalla casa editrice romana L’orma. Altri premi da segnalare sono il Premio Planeta, assegnato a Luz Gabás con Lejos de Luisiana, il Deutscher Buchpreis, andato a Kim de L’Horizon con Blutbuch, vincitore a novembre anche dello Schweizer Buchpreis e in via di traduzione per il Saggiatore, e il Booker Prize, vinto dal cingalese Shehan Karunatilaka con The Seven Moons of Maali Almeida, che verrà tradotto da Fazi Editore. A novembre è stato assegnato il National Book Award for Fiction a Tess Gunty con The Rabbit Hutch e il National Book Award for Translated Literature a Samanta Schweblin con Sette case vuote, edito da noi presso Sur. Il primo novembre, inoltre, è stato assegnato anche il Nordic Council Literature Prize, che è andato alla danese Solvej Balle per Om udregning af rumfang, un ciclo di sette libri che NN Editore inizierà a pubblicare dall’anno prossimo. Il 3 novembre, infine, si è aggiudicata l’ultima edizione del Premio Goncourt Brigitte Giraud, autrice già nota al pubblico italiano (i suoi libri sono stati tradotti precedentemente da Guanda), con Vivre vite.

Passando alle novità editoriali, quelle in traduzione hanno visto grandi ritorni in libreria e la pubblicazione di autori destinati a raccogliere il consenso di molti lettori italiani. A ottobre è uscito per La nave di Teseo Melancolia, raccolta di tre racconti del romeno Mircea Cărtărescu, mentre Racconti Edizioni ha pubblicato Come scrivere un racconto. Un libro di narrativa di Gordon Lish, celebre editor di Raymond Carver. Einaudi ha invece portato in libreria la biografia di Philip Roth scritta da Blake Bailey e molto chiacchierata per le accuse di molestie sessuali a carico del suo autore. Si segnala, inoltre, il ritorno dell’ungherese László Krasznahorkai per i tipi di Bompiani con Herscht 00769, e quelli per Feltrinelli di Dave Eggers con The Every, sequel di Il cerchio, e di Enrique Vila-Matas con Questa bruma insensata. Per Neri Pozza è tornato invece Amitav Ghosh, con La maledizione della noce moscata. Da segnalare, inoltre, l’uscita per Alter Ego Edizioni di Quaderno ideale di Brenda Lozano, per Pidgin di Mi ricorderò di te di Mary South e per Safarà di Corteo di ombre di Julián Rios. Anche novembre non è stato da meno: in quota Feltrinelli ci sono stati dei grandi ritorni: Karl Ove Knausgård con La stella del mattino e Jonathan Coe con Bournville. Altre pubblicazioni degne di nota sono state quelle di Paul Auster per Einaudi con Ragazzo in fiamme, biografia romanzata dello scrittore americano Stephen Crane, di Ken Kalfus per Fandango con Le due del mattino a Little America, di Donald Barthelme con il volume di tutti i racconti per minimum fax con prefazione di George Saunders, e di Joseph Zoderer, autore altoatesino di lingua tedesca scomparso lo scorso giugno e pubblicato in precedenza da Einaudi e Zandonai, che La nave di Teseo rilancia a partire dal suo ultimo romanzo L’inganno della felicità. Da segnalare, inoltre, la pubblicazione per il Saggiatore di I dipendenti della poetessa danese Olga Ravn, finalista all’International Booker Prize nel 2021 e semifinalista al National Book Award for Translated Literature di quest’anno; di Punacci, storia di una capra nera (Utopia Editore) di Perumal Murugan, autore di lingua tamil per la prima volta edito in Italia; di Piccole cose da nulla di Claire Keegan (Einaudi), finalista al Booker Prize di quest’anno; di Canta ancora, ragazza di Jacqueline Roy (Giulio Perrone Editore), con prefazione di Bernardine Evaristo, vincitrice del Booker Prize nel 2019 in ex aequo con Margaret Atwood. A dicembre il Saggiatore ha pubblicato i racconti dello scrittore polacco Witold Gombrowicz in un volume dal titolo Bacacay, curato da Francesco M. Cataluccio, mentre Pidgin ha dato alle stampe Darryl di Jackie Ess, e La nave di Teseo I bambini indaco di Clemens J. Setz, scrittore austriaco vincitore del Premio Büchner nel 2021. Utopia Editore ha riportato poi in libreria Hassan Blasim con Il Cristo iracheno. Da segnalare, infine, la pubblicazione da parte di readerforblind di 1849. Liliana e altri racconti, volume contenente i racconti dello scrittore polacco Premio Nobel per la Letteratura nel 1905 Henryk Sienkiewicz.

Quanto alle pubblicazioni italiane, a ottobre non sono passate inosservate Black Tulip, romanzo postumo di Vitaliano Trevisan e Tasmania di Paolo Giordano, entrambe edite da Einaudi. Si segnalano, inoltre, l’inizio della ripubblicazione delle opere di Ottiero Ottieri per Utopia Editore con Contessa, il ritorno di Jacopo Barison per Fandango con Autofiction e quello dei Wu Ming con Ufo 78 per Einaudi. Sono di nuovo in libreria, inoltre, Veronica Tomassini per La nave di Teseo con L’inganno, Filippo Polenchi per la collana L’invisibile di Industria & Letteratura con La casa in fiamme e Giulia Caminito per Giulio Perrone Editore con Amatissime. Importante è anche il progetto di ripubblicazione delle opere di Fausta Cialente iniziato da nottetempo con Un inverno freddissimo. A novembre, invece, sono tornati in libreria Andrea De Carlo per La nave di Teseo con Io, Jack e Dio, Gian Arturo Ferrari per Marsilio con Storia confidenziale dell’editoria italiana, Francesca Mattei per Zona42 con la novella Gli stessi occhi e Tommaso Pincio per Giulio Perrone Editore con Diario di un’estate marziana. Quanto alla saggistica, si segnala, invece, il ritorno di Andrea Cortellessa per i tipi di Argolibri con Filologia fantastica. Ipotizzare, Manganelli, volume che raccoglie tutti i saggi che il critico romano ha dedicato a Giorgio Manganelli e che è stato pubblicato in occasione del centenario della nascita dell’autore. A dicembre, invece, vanno segnalate le pubblicazioni di Davide Orecchio con Qualcosa sulla terra per Industria & Letteratura e delle poesie di Laura Pugno per Hacca Edizioni con Melusina.

 Anche questa volta, a conclusione del nostro excursus sulle novità editoriali, vogliamo dedicare uno spazio agli esordienti. Iniziamo parlandovi della XXXV edizione del Premio Calvino: sei dei titoli di quest’ultima edizione hanno trovato già un editore disposto a pubblicarli nei mesi a venire. Il romanzo vincitore, I calcagnanti di Nicolò Moscatelli, sarà pubblicato da La nave di Teseo, mentre Quasi niente sbagliato di Greta Pavan, menzione speciale della giuria, è stato accolto da Bollati Boringhieri. L’altra menzione speciale, ovvero Vita e morte di Saro Scordia, pescivendolo di Giorgio Benedetto Scalia, uscirà con Pessime idee. Ad aver trovato un editore sono anche: Tanto poi moriamo di Marianna Crasto con effequ, Risacca di Francesco Marangi con Alessandro Polidoro Editore nella nuova collana Interzona, che sarà diretta da Orazio Labbate e che sarà inaugurata nel 2023, e La favola racconta che di Rita Siligato con Dalia Edizioni. Oltre ai già menzionati Valentini e Mottana per Accento Edizioni, a ottobre hanno esordito Diana Ligorio con Mia e la voragine per TerraRossa Edizioni, Giulia Muscatelli per nottetempo con Balena e Andrea Betti per Wojtek con Una breve visita. A novembre, invece, è stata la volta di Carolina Cavalli per Fandango con Metropolitana e di Mirfet Piccolo con Senzanome per Giulio Perrone Editore.

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