“Don Camaleo”, l’Italia di Malaparte

di / 14 novembre 2010

Nel pieno della stagione di “Strapaese” le sicurezze di Malaparte su Mussolini, come sappiamo, iniziarono a traballare molto presto; esempio di questa “stagione” è un’opera considerata “minore” come Don Camaleo, ma che evidenzia alcuni tratti molti importanti dell’idea politica coltivata dallo scrittore in quegli anni.

La stesura iniziale risale al 1926 e la pubblicazione iniziò a puntate come supplemento de «Il Giornale di Genova». In principio l’editore sarebbe dovuto essere Gobetti (che ne era stato, tra l’altro, l’ispiratore) ma, a lavoro quasi compiuto, il direttore di «Rivoluzione Liberale» fu costretto a partire per la Francia a causa delle persecuzioni cui era stato sottoposto.Il manoscritto, rimasto per qualche mese chiuso in un cassetto, passò nelle mani di Leo Longanesi che avrebbe dovuto curare un’edizione per i tipi de La Voce, se non fosse che lo scrittore pratese avesse al tempo stesso ceduto i diritti di pubblicazione a Giacomo Calcagno, direttore appunto del quotidiano ligure.

Don Camaleo è, a conti fatti, uno scritto contro la politica del duce (ben intesi: non contro il fascismo). A essere colpito non era l’ideale, ma l’uomo: un vero e proprio attacco al “vertice” che porta ad una ridicolizzazione del Capo e ad una stigmatizzazione dell’apparato simbolico e propagandistico che di esso è parte integrante.

Mussolini è confrontato con un Camaleonte, rettile conosciuto per la sua capacità di cambiare colore adattandosi a quello dell’ambiente circostante e anche in relazione al loro umore (anche se in realtà questa capacità non è certo illimitata poiché si riduce a pochi colori): questo animale dalle caratteristiche quasi esclusivamente umane e con il dono della parola, dall’albero di un giardino romano, dove se ne stava a prendere il sole, si ritrova sui banchi di Montecitorio a parlare e a tenere discorsi al parlamento.

Non vi è differenza, per Malaparte, tra gli uomini e gli animali: i primi si rispecchiano nei secondi che a loro volta riflettono la parte più segreta del loro animo in quanto proiezione della loro coscienza.

L’autore si mette in prima persona diventando, ancora una volta, l’osservatore “speciale” e privilegiato della Storia, non importa se “reale” o “fantasiosa”. Una mattina del 1922 è proprio Malaparte a ricevere da Mussolini il compito di offrire una educazione al piccolo camaleonte, un animale sopra le righe, capace di vivere «tra gli uomini» e «come gli uomini». Un animale «sociale e politico»che – se cresciuto in un ambiente consono ovvero in quella Roma frequentata dai politici e dai “politicanti” di regime dove il trasformismo è di casa – è capace di sfruttare al meglio le sue inclinazioni: l’adattamento alla realtà circostante tramite l’arte del mimetismo, quella cioè che gli permette di assimilare e comprendere con una velocità fuori la media. Una realtà che è formata da un certo tipo di situazioni, di mentalità collettiva, di cultura della società e di ambiente politico.

Il camaleonte è prima ribattezzato con il nome di Camaleo, poi educato come nella volontà di Mussolini. Il pedagogo sarà Sebastiano, bibliotecario di Malaparte e simbolo, forse, della cultura tradizionale: il suo compito è quello di trasformarlo da semplice animale in un «animale aristotelico», cioè politico. Il camaleonte, per dono naturale, è intelligente e ricettivo e la sua “metamorfosi” avviene in un tempo ristrettissimo: in una biblioteca (che è poi quella dello scrittore) si trova tra scaffali colmi di volumi di ogni genere (Cartesio, Leibniz, Bacone e tanti altri) e acquisisce sapere senza bisogno di leggere alcun libro, ma soltanto sedendosi o appoggiandosi sopra di essi. Per l’educazione sul «come stare al mondo» il mentore è il Dottor Libero, esperto del mondo politico romano. Dopo appena un mese Camaleo è pronto a mettere in pratica tanta teoria e a fare il suo ingresso nella società che conta. La Roma che appare ai suoi occhi è la vetrina dei difetti della casta governativa, uno squarcio volutamente esasperato sui vizi e sulle ipocrisie che essa produce. I protagonisti di questo spettacolo, messo in scena da un provocatorio Malaparte, vengono tutti dalla classe politica e da una città che, dominata dai liberali e dai codini (i fascisti conservatori e reazionari), si nasconde dietro a continue ed invisibili maschere.

È un animale non bello a guardarsi, gli occhi grandissimi e mai immobili, ma a suo modo ingegnoso, intelligente e soprattutto astuto. Cambia le idee come il colore della pelle, specchio riflesso o «maschera eterna della vita italiana».

Con questa invettiva Malaparte mette insomma alla berlina il sistema di comportamenti della classe di potere e rappresenta, a modo suo, la commedia della politica: il personaggio Camaleo è l’attore insostituibile nella parte di colui «che rispunta sempre come le code delle lucertole che appena tagliate già ricrescono». Ora è un uomo di destra, ora è un uomo di sinistra, ora è un uomo di centro: pensa una cosa in privato e afferma il contrario in pubblico. Da un lato è giacobino, dall’altro conservatore, è sia liberale sia codino, sostiene di essere un rivoluzionario ma nell’animo porta gli elementi caratterizzanti della borghesia. È il rappresentante simbolico di un popolo, di un paese.

La fortuna del politico-rettile cresce vertiginosamente: gli “osservatori” arrivano a ritenere che la rivoluzione messa in atto da Mussolini non potesse più prescindere da questo ambizioso animaletto. Da una parte i liberali, capeggiati da Sofereto, cioè Giolitti (espressione del tipico politico ottocentesco, democratico e costituzionalista), incapaci di bloccare o rallentare il processo rivoluzionario, dall’altra Don Camaleo, divenuto la voce più considerevole di chi appoggiava la rivoluzione, osannato dal popolo (vastissimo l’appoggio offertogli) e seguito da «i giovani, gli scalmanati, i riottosi, tutti gli spiriti liberi e spregiudicati, insomma d’ogni provincia».

Il potere raggiunto dal camaleonte è lo stesso raggiunto in Italia da Mussolini. In Malaparte s’intravedono i dubbi su una certa politica del regime: la certezza e il bisogno della “rivoluzione” si scontravano con la paura che Mussolini non compisse realmente il rinnovamento promesso, non modificasse la struttura politica secondo i programmi del fascismo intransigente. Il fascismo rivoluzionario diventava così uno strumento, l’ariete utile a scardinare le fondamenta parlamentari italiane.

Poi si arriva al millenovecentoventiquattro, l’anno che ha rappresentato il punto di passaggio reale al fascismo. L’anno delle elezioni di aprile, precedute da palesi e violente illegalità: intimidazioni, aggressioni, devastazioni che colpirono i candidati e le sedi dei gruppi d’opposizione socialisti e popolari. L’impostazione che Mussolini volle dare alla consultazione fu una sorta di appello all’unità, un rifiuto delle fazioni politiche tradizionali con la “dissoluzione” dei gruppi parlamentari in un unico “listone” aperto a tutti coloro fossero interessati ad una «disinteressata collaborazione».

La vittoria mussoliniana, anche se nelle zone settentrionali del paese colsero significative affermazioni popolari, socialisti unitari, massimalisti e comunisti, era avvenuta sostanzialmente all’insegna di una grande operazione trasformistica che aveva rastrellato voti dal centro e dalla destra  e da una serie di violenze e di brogli che continuarono anche dopo le elezioni. A giugno il delitto Matteotti, culmine di un crescendo di violenza e teppismo che aveva già colpito uomini in vista dell’opposizione come Amendola e Nitti.

Malaparte capisce che quell’anno rappresenta il crocevia di una nuova stagione politica, diversa da quella che probabilmente aveva immaginato. La satira di Don Camaleo ha la svolta in questo preciso momento storico: il lucertolone viene eletto in parlamento con il bene placido di Mussolini, pronto ad affrontare le battaglie dell’intransigenza.

Don Camaleo da una parte espone le teorie del fascismo intransigente, atte a ricercare la riforma dello Stato e in contrapposizione a quelle di Mussolini che prospettavano la sanzione definitiva del proprio potere personale (la riforma ricercata e voluta dall’animaletto rappresentava nella sua essenza il passaggio obbligato «per immettere la rivoluzione nello Stato, per toglierla dalle piazze, dove oggi sosta accampata ed in armi, e farne il fondamento giuridico della libertà italiana» impedendone l’altrimenti inevitabile assorbimento da parte della Monarchia e delle opposizioni costituzionali).

Dall’altra parte però, avendo assimilato il pensiero del duce, il lucertolone si erge «simulacro di Mussolini, lo spettro della sua coscienza» fino a dichiarare: «Non capite che in Mussolini ed in me si confrontano e si affrontano due aspetti, due concezioni, due fatalità della storia d’Italia? Non capite dunque che nessuno in quest’aula, nessuno in Italia, neppur io, neppur Mussolini, saprebbe dire quale, di noi due, è veramente Mussolini?».

In questo gioco di specchi si intravede una ironia amara, anche se travestita: in essa vi è la delusione di Malaparte nel rendersi conto che camaleonti e «gente dabbene» sono pronti ad intendersi e a stipulare alleanze sotto qualsiasi governo e regime.

La risposta del duce non si fa attendere: «Egli è la Rivoluzione, io sono l’Ordine. Ora giudicate e scegliete».

E il 3 gennaio del 1925, nella realtà e nella finzione, fu scelta d’ordine: Mussolini assume, dopo aver pronunciato il famoso discorso, la responsabilità politica, morale e storica di quanto stava accadendo nel paese creando di fatto uno stato di forza che avrebbe dato inizio alla dittatura.

L’amarezza di Malaparte è tutta nel considerare Don Camaleo un «Mussolini molto migliore di quello vero». Il duce, è nella visione dello scrittore, un uomo dalle soluzioni ambigue, dal passo breve, da una scarsa visione della realtà, incapace di capire il proprio tempo e i profondi rivolgimenti della nuova civiltà umana auspicati (e sognati) dall’integralismo fascista.

Da ricordare infine che la pubblicazione integrale del libro risale però al 1946 quando Malaparte volle usare Don Camaleo contro chi lo accusava di “viltà” e “cortigianeria” nel piegarsi alle direttive del regime. Una sorta di giustificazione di sé e della letteratura italiana: una letteratura di scrittori che non erano scappati dall’Italia e che, contro chi pensava che erano privi di slanci non filo-governativi, erano riusciti a difendere la libertà e la dignità del pensiero e della cultura.

Se in Viva Caporetto! il moralismo era aggressivo e violento, in Don Camaleo è invece ironico, ma il sentimento alla base di tutto è il medesimo. Il problema a cui va incontro Malaparte rimane un altro: l’autore si trovava nella posizione ambigua, la stessa di molti altri scrittori impegnati politicamente prima e dopo di lui, di contestare la validità di una società di cui però ne è parte. La critica verso un determinato tipo di ambienti culturali e politici è la critica verso gli ambienti da lui stesso frequentati.

L’ironia di questo volume va considerata come una forma di distacco intellettuale, utile ed efficace per poter conservare una minima autonomia di giudizio.

In fin dei conti nell’estrema sintesi di un’opera come Don Camaleo troviamo uno scetticismo senza alternative, un forte senso di distacco, una ricerca severa di nuovi propositi.

Se, come già detto precedentemente, quest’opera va intesa come un attacco a Mussolini ma non al fascismo, è vero però che in essa troviamo anche altri aspetti interessanti: uno tra tutti, la questione “morale” sul trasformismo politico. Tema che verrà ripreso da Malaparte anche in un breve saggio del 1931, I custodi del disordine,dove viene analizzata la storia di questa “pratica” consistente nel formare maggioranze parlamentari assorbendo uomini e gruppi di tendenze diverse, con accordi di tipo particolaristico, estranei agli orientamenti ideali e politici. Partendo dall’ottocento, dagli anni della destra e della sinistra storica, giunge ad affermare che ogni governo fino a Mussolini si erano retti su compromessi, patteggiamenti e alleanze tanto innaturali quanto ibride.

Il metodo adoperato è scientifico: raccoglie documenti, sottolinea citazioni, arriva a richiamare persino Benedetto Croce. La tesi che vuole sviluppare è quella che dopo il 1876, anno della cosiddetta «rivoluzione parlamentare» in cui la maggioranza governativa passa dalla destra alla sinistra, quest’ultima, per mantenersi al potere, aveva stretto un patto con le consorterie dei «galantuomini» meridionali. Evento che, successivamente al gabinetto Depretis, segnerà di fatto l’inizio della politica del «trasformismo».

Dal passato al presente: la vicenda di Don Camaleo è preceduta da un sistema preesistente e rimane in vita senza interruzione di continuità anche dopo di lui. Non a caso, per autodifesa o per orgoglio, in quel 1946 lo scrittore pratese rivendicò con forza l’attualità del romanzo nella storia di un paese come l’Italia che, certamente non per colpa sua, «è sempre quella».

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