Gabriel García Márquez. Lo scrittore nel labirinto…

di / 28 marzo 2011

Lui è quello a cui piace far domande alla gente.
Quello che quando scrive apre le finestre perché entrino i rumori e le grida, e infila tutto nella sua scrittura.
Quello che assicura che l’unico luogo dove sei in salvo da un terremoto è un aereo.
Ma, ovviamente, questo non ti toglie la paura dell’aereo.
Lui è quello che sa, come nessun altro, che la realtà non è in realtà la realtà.
Quello che ha passato ben più della metà della sua vita pensando che muoiano soltanto gli altri.
Finché si è accorto che lui pure un giorno è destinato a morire e che il brutto della morte è che è per sempre e che per questo prova rabbia, rabbia.
Lui è quello che tessendo i suoi cent’anni di solitudine ha attraversato un’epoca in cui tutti erano giovani e tutti erano poveri.
Lui è Gabriel García Márquez.

– Per che cosa soffre di più: per la pagina bianca o per l’eccesso di storie ancora da raccontare?

– In una famosa intervista, Hemingway fornisce la formula per risolvere, per sempre, il problema della pagina bianca… È stato lo scrittore che ha rivelato più cose sul mestiere, sull’officina della scrittura. Ci fu un periodo in cui mi alzavo la mattina e quando entravo nello studio a scrivere vomitavo la colazione, vomitavo per la nausea che mi veniva. Scrivevo quando potevo e come potevo, ma a partire da Cent’anni di solitudine mi si crearono le condizioni per fare lo scrittore di professione. Momento di gravissima responsabilità. Uno sa che ormai è come se fosse un impiegato di banca, e inoltre è il direttore più feroce ed esigente di se stesso… E poi, io ero sempre stato un giornalista, scrivevo di notte e dormivo di giorno. Così la cosa non aveva più senso: se ero un impiegato, dovevo lavorare in orario di ufficio. Ho dovuto imparare a scrivere di giorno. Più avanti ho dovuto imparare a scrivere senza fumare, perché mi resi conto che le sigarette mi stavano uccidendo.

– Come fece per imparare a scrivere di giorno?

– Mi imposi l’orario di scuola dei miei figli. Li portavo a scuola alle otto del mattino, ritornavo, mi mettevo a scrivere e alle due e mezza li andavo a prendere. Quest’orario mi è rimasto per sempre. Mi è costato molto, perché a me l’ispirazione veniva al calare della notte. Dopo, con le sigarette, fu lo stesso: non avevo mai scritto neppure una lettera senza fumare. Ma poi mi imposi anche questo. Non lo dico per eroismo. Ho l’impressione che fu la sigaretta ad abbandonare me.
Non la sopportavo più. Feci così, e la spensi. In quel momento ero alle prese nientemeno che con L’autunno del patriarca, che è la cosa più difficile che ho scritto.

– Quindi vomitava quando ha cominciato a scrivere di mattina?

– Mi terrorizzava ogni mattinata, sì, fino al giorno in cui lessi l’intervista di Hemingway. Lui dice che bisogna iniziare, continuare, fino a che arriva un momento che è davvero sublime: quando uno si accorge che le cose vengono da sé, come se te le stessero sussurrando all’orecchio, come se le stesse scrivendo un altro… Bene, quando ti senti così, diceva Hemingway, e giunge l’ora di terminare, continua una paginetta in più, quella del giorno dopo. Così, quando arrivi al giorno dopo, ti trovi già la giornata iniziata, la ricopi e continui. Sembra incredibile ma proprio in questo modo superai il panico da pagina bianca. Ah, e poi non ti impelagare mai in un libro che non ti piace.

– È come con una donna.

– Né tu muori di entusiasmo con lei né lei con te! Attenzione, comunque, guarda che nello scrivere serve davvero una disciplina.

– Suona insolito: García Márquez direttore.

– Sì, nei miei confronti sono un direttore rigoroso. Serve ordine o ti ingoia la vita.

– Ha molte storie ancora da raccontare?

– No. Sono al passo. Non mi vengono più altre storie che mi sento capace di scrivere… Ma, sai una cosa? Dopo tre mesi che non scrivo ci ho preso gusto a non scrivere. E mi sono chiesto: perché mi lascio schiavizzare così tanto? Perciò, una cosa è il mestiere, il resto è a carico della divina provvidenza.

– A proposito, che le suggerisce la parola Dio?

– Non domandarmi una cosa del genere, perché qualsiasi mia risposta avrebbe numerosi sostenitori ed altrettanti detrattori. E in verità non è una cosa che mi dia così tanta inquietudine, però so che rende inquieta molta gente.

– In questi giorni in Colombia ascolto una canzone il cui ritornello fa: «Dove andranno i morti / chissà dove andranno…». Come risponderebbe alla domanda della canzone?

– Io credo che sia come quando si spegne la luce. Io sono stato sotto anestesia durante la mia operazione ma non ne sono stato cosciente fino a quando mi sono risvegliato. Se non mi fossi svegliato non mi sarei accorto di niente. Ciò che è davvero inquietante è l’idea del transito, il passaggio…

– L’idea del tunnel che va dall’aeroporto all’aereo.

– Proprio così. Sai, io avevo il terrore dell’aereo. Ma ora ho più che altro terrore degli aeroporti. Sono orribili: come ci si soffre, come ci si dispera lì dentro. E non ho dove nascondermi… ma se uno si mette a pensare agli aerei si accorge che in volo è in salvo da un’enorme quantità di pericoli della terraferma… Dovunque può venirti un infarto, una macchina ti può investire, un tipo ti vede e ti può sparare un colpo, perfino un tetto ti può cadere addosso. Sulla terraferma può esserci anche un terremoto. L’unico posto in cui sei al sicuro da un terremoto è su un aereo. Questo, comunque, naturalmente non ti toglie la paura dell’aereo.

– Qual è la sua paura più grande?

– La più grande di tutte le mie paure, in genere l’unica che mi preoccupa, è la paura del ridicolo… Uff! Sono terribilmente timido. Sono terrorizzato all’idea di presentarmi in pubblico, parlare, entrare in una sala piena di gente. È che essenzialmente sono un timido. O meglio, mi sono successe cose alle quali non ero preparato.
Mi sono preparato per scrivere, per fare lo scrittore, ma non sono mai stato preparato alla fama. E non sono un ipocrita in questo: la fama è molto piacevole. Ma al di là di tale sensazione, c’è un limite oltre cui uno non sa che farci. Io almeno mi sono sempre proposto di essere gentile con tutti, e ciò è ancora più snervante. Insomma, io mi ero preparato per fare lo scrittore, ma non avevo tenuto conto della fama. Sintetizzo con una boutade: sarei stato felice se i miei libri fossero stati postumi… cioè, felice di averli scritti senza doverli soffrire.

– Tanta pressione, tanta fama, tanta gente che la insegue per fare dei reportage non le fa perdere la verginità, non la distrae al momento di scrivere?

– Ho dovuto sopportare molte cose. Quando mi occupai di giornalismo mi dissero: «Ah, ti sei fregato! Il giornalismo stronca lo scrittore».

– Stroncherà gli scrittori che si possono stroncare.

– Sì, ma a me non mi ha stroncato. Poi mi buttai nella pubblicità: «Ti sei fregato». Mi buttai nel cinema: «Ti sei fregato». In seguito, quando mi diedero il Premio Nobel, ancora una volta: «Sei fregato, non c’è scrittore che sia sopravvissuto al Premio Nobel». Per prima cosa, perché muore prima che siano passati cinque anni, e in secondo luogo perché nessuno ha più scritto dopo il Premio Nobel. Io invece credo di avere scritto più dopo il Premio Nobel che prima. Prima del Nobel ho una media di un libro ogni sette anni, e dopo il Nobel di uno ogni tre. Ma non è per il Nobel. È per il computer. Il computer fa lo sforzo che prima facevo io, malato di perfezionismo, quando correggevo ogni foglio riscrivendolo ogni volta. Ora scrivo all’impazzata e poi correggo.

– Come sarebbe stato Cent’anni di solitudine scritto col computer?

– Probabilmente sarebbe stato più lungo perché l’avrei scritto in meno tempo. Voglio dire che ho dovuto eliminare un’intera generazione perché non avevo soldi. Mi accorsi che con quel libro non riuscivamo a reggere oltre, perché la casa ci stava crollando addosso… Mia moglie Mercedes stava diventando matta: diciotto mesi incollato alla sedia. Ci impegnammo perfino la macchina, tutto. Mia moglie, di fatto, doveva soldi perfino al prete e si era già impegnata tutto quello che c’era in casa. Fu molto decisa, Mercedes. I miei amici ci aiutarono molto, ma erano poveri pure loro. All’epoca eravamo tutti giovani e tutti poveri.

– Ma poi è girata la ruota. La sua vita è cambiata radicalmente.

– Pensa, prima di Cent’anni di solitudine, gli unici lettori che avevo erano i miei amici. Ero già autore di cinque libri che non aveva letto nessuno l di fuori della mia famiglia.

– Dopo questo lungo cammino e tutto quello che ha ottenuto, mi dica, nel suo cuore resta un posticino per un nuovo amico?

– Molti. Sai, c’è stata un’epoca terribile in cui non mi fidavo se non dei miei amici precedenti a Cent’anni di solitudine. Perché dopo mi cadde addosso una valanga di amici… Ma mi fidavo solo dei precedenti, degli amici del tempo della povertà. Non riuscivo più a distinguere i veri amici, e la cosa mi faceva arrabbiare molto.

– Le chiedevo di amici nuovi oggi. Nel suo cuore c’è ancora spazio per un altro?

– Ogni giorno ne ho un altro. E mi occupo moltissimo di tutti. Non ho perso un solo amico. Viaggio per il mondo sai perché? Per vedere amici. E che faccio con loro? Mi chiudo da qualche parte a chiacchierare.

– La parola felicità che le dice?

– È una cosa che dura poco. E il vero guaio non è nemmeno questo, il guaio è che uno non sa che l’ha vissuta fino a quando ormai è passata.
È uno stato di grazia che dura un istante, ma è meraviglioso: un colpo di fortuna, una sensazione di benessere. Uno dice: «Che bello aver fatto questa cosa!», quando ormai è passata. Uno dice: «Che goduria stanotte!», quando ormai è passata.

– Prima ho notato che era felice quando parlava dei suoi anni da povero.

– Non bisogna credere molto in ciò che si dice, perché la nostalgia è meravigliosa: cancella i brutti momenti ed esalta quelli belli… Sono quasi le sette. Le due ore sono passate. Eravamo d’accordo.

– Abbiamo ancora quattro minuti, García Márquez.

– Quattro minuti e io ancora non ho fatto il reportage su di te, ah… Guarda, esiste una felicità che non si può comparare con nient’altro ed è difficile da spiegare. Io comincio a scrivere alle otto e mezza, ma a mezzogiorno o all’una sono all’apice del climax. Questo momento non si può comparare con nient’altro al mondo.

– Incomparabile.

– Incomparabile. E assolutamente indescrivibile… Mi sa che così deve essere la droga. Uno rimarrebbe così tutta la vita, ma è solo un istante. Poi finisci, e leggi, e già ti piace meno. Ma non conta niente.

– Quel che conta è il gusto di creare.

– Vero. Quello rimane per sempre. In questo senso io credo che scrivere finisca per essere un vizio…

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