Fratture

di / 5 maggio 2011

«Da quel momento Fania smette di andare alla stazione e di credere in Dio» così decreta Fania, la giovane protagonista del primo racconto di Fratture, splendido libretto della poetessa e scrittrice Irit Amiel, dopo aver perso ogni speranza di rivedere i genitori uccisi in un campo di sterminio.
Come si poteva ancora credere in Dio in seguito ad una sciagura di tale portata? Come sarebbe stata la vita di coloro che erano scampati a tale orrore?
Fania più avanti dichiara alla sua preside: «Signora preside, la mia mamma e il mio papà sono stati assassinati a Treblinka perché erano ebrei. La loro morte mi obbliga a rimanere ebrea per il resto della mia vita».
Fratture è un libro sui sopravvissuti, sopravvissuti come Amiel che si salva riuscendo a scappare dal ghetto di Cestocova in Polonia, grazie a documenti ariani, e, allo stesso tempo, è un insieme di racconti di vite spezzate che con coraggio tentano di ricomporsi, di trovare un nuovo inizio per se stessi ma anche per chi non era riuscito a sopravvivere.
La frattura è una violenta rottura, dolorosa, traumatica che, anche se curata, lascia sempre un segno della sua presenza passata; essa è l'immagine che meglio esplica ciò che succede e lega tutti i protagonisti di questo libro.
I personaggi che, in prima persona, raccontano del loro trauma legato all'olocausto sono metaforicamente delle fratture: si sono staccati dalla loro patria, la Polonia, per unirsi ai movimenti sionisti e spostarsi in Palestina; sono stati strappati dal loro passato stroncato a causa dello sterminio delle proprie famiglie ricostituendone delle nuove, nella “terra promessa”, che colmassero il vuoto lasciato da quelle perse.
Le rotture in queste vite però non sono nette poiché hanno il comune denominatore di lasciare sempre tracce indelebili: passato e presente, vivi e morti dialogano continuamente in ogni racconto come se forze più grandi e incontrollabili impedissero di dimenticare.
La vita degli “scottati” è contrassegnata da un desiderio radicato di risarcire i morti, di fare un voto alla vita per coloro che violentemente l'avevano persa: «Non mi sarei mai aspettata di dare alla luce sei figli. Akiva diceva infatti che per ogni milione di scomparsi, dovevamo portare al mondo almeno una vita ebrea».
Un libro delicato, intenso, capace di dire ancora tanto su un tema così tanto dibattuto come quello della Shoah.
Tra prosa e poesia Irit Amiel racconta del dolore ma anche della speranza, della morte e della vita.
La scrittrice non cerca un senso al male più assoluto, non si chiede mai il perché della morte di così tanti innocenti, il suo unico dilemma è sul come vivere dopo essere scampati all'orrore.
E sono proprio i suoi personaggi a fornire la risposta al quesito, raccontando il proprio passato, ricordando e trasmettendo la propria esperienza.
La forma del racconto in prima persona è pienamente funzionale allo scopo che ogni ebreo, dopo l'Olocausto, si è prefisso: preservare per i posteri la memoria di ciò che era accaduto.
Quella che è una denuncia dello sterminio di un popolo diventa, nel continuo dialogo tra passato e presente, un attacco alla guerra in generale, guerra che i figli dei sopravvissuti ritroveranno in Israele.
Questo libro, inserito tra i favoriti al premio NIKE 2009, il più prestigioso premio letterario polacco, va dunque letto, perché, attraverso la sua scrittura intensa e poetica, parla dell'uomo in tutte le sue sfaccettature, è una lezione dunque sull'umanità, su come essa possa precipitare e perdersi tra i dedali più oscuri e allo stesso tempo riuscire a rialzarsi e ritrovarsi.
Un'opera che può essere letta tutta d’un fiato e che allo stesso tempo è in grado di lasciare dentro di noi un segno indelebile.
Una scrittura funzionale soprattutto a quello che è per la scrittrice l'“undicesimo comandamento”, un messaggio che permea persistentemente su ogni racconto :
«Racconta sempre di noi! Ai tuoi figli nipoti e pronipoti! Sempre! Fino alla fine dei tempi! Ricorda!»

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