Il sogno di una cosa

di / 15 maggio 2011

Quando si parla di Pasolini romanziere, solitamente  si pensa ai romanzi romani che lo hanno reso famoso. Difficilmente o, eccezionalmente, si cita Il sogno di una cosa. Questo libro è, infatti, conosciuto soprattutto dagli estimatori dei narratori neorealisti, dai pasolinani più attenti o da tutti quei lettori che “soffrono” di novecentismo. Eppure Il sogno era l’officina in cui si affilavano gli strumenti, lo schizzo che preannunciava i grandi affreschi delle borgate romane o, più semplicemente, il fratello maggiore che ha stretto i denti aspettando che crescessero i più piccoli ed ha atteso in silenzio di ritagliarsi un proprio spazio. Il sogno di una cosa era stato scritto fra il 1948 e il 1949, prima di Ragazzi di vita e prima di Una Vita violenta ed è stato pubblicato nel 1962, quasi dieci anni dopo i bellissimi romanzi romani. Il primo titolo scelto dall’autore era stato I giorni del lodo De Gasperi. La legge, varata sul finire degli anni quaranta, cercava di riequilibrare il rapporto lavorativo fra proprietari terrieri e contadini. Questi, appellandosi all’emendamento, avevano tentato di rivendicare i propri diritti cercando di farli rispettare ai latifondisti.

La vicenda del libro si svolge in Friuli, fra il 1948 e il 1949 fra Ligugnana, Rosa e San Giovanni, sulla riva destra del Tagliamento. I protagonisti sono Nini, Milo ed Eligio. I tre giovani si conoscono in occasione di una sagra a Casale, il lunedì di Pasqua. Fra loro nasce subito una bella amicizia destinata a divenire importante. A fare da sfondo alle loro serate sono la musica, la passione per la fisarmonica, il ballo, le ragazze e il vino. Questo rapporto vis à vis, l’intensità dei dialoghi e l’inserimento di alcune, benché poche, battute dialettali ci annunciano già il Pasolini dei romanzi successivi. Inoltre, altra tematica che ritroveremo più avanti, Il sogno di una cosa è un romanzo corale – senza la centralità di un protagonista – e lo sfondo è caratterizzato da uno scenario di povertà estrema. Per fare fronte all’indigenza, i tre ragazzi, così come molti loro compaesani, sceglieranno di emigrare all’estero. Milo partirà per la Svizzera, mentre Nini ed Eligio, dopo un viaggio romanzesco, arriveranno in Jugoslavia. Ognuno dovrà far fronte a dei problemi, ognuno si metterà duramente alla prova. Sul fronte svizzero, Milo farà lamenterà soprattutto la diffidenza nei confronti dei nostri connazionali e, nonostante riesca ad integrarsi, non riuscirà mai a sopportare quella rigidità umana che contraddistingue la società elvetica per uno come lui che, provenendo da un paese rurale, era abituato a un rapporto interpersonale  più caldo, stretto e sincero. Nini ed Eligio, di contro, spinti dagli ideali comunisti, sbarcano nella Jugoslavia di Tito dopo una serie di peripezie. A indirizzarli nella terra balcanica è l’utopia egalitaria del marxismo, la voglia di riscatto sociale in un paese in cui i contadini non vengono discriminati e sfruttati. Tuttavia, il sogno di un mondo migliore si scontra ben presto con la realtà di un Paese che – appena uscito dalla guerra – ha ancora le ossa rotte e le tutte ferite aperte. La ricerca di un lavoro e di una vita più dignitosa si rivelano immediatamente un’impresa titanica e, per lo più, disperata. Per lavorare c’è bisogno della tessera del partito, il partito è lo stato, tutti hanno la tessera ma nessuno sa dove rimediarla. In breve, la funzione non soddisfa il “teorema” e i ragazzi sono costretti a rimpatriare là dove, nonostante tutto, “una fetta di polenta e un bicchiere di latte c’è sempre.” Anche Milo, segnato da una  solitudine logorante, sceglie la via del ritorno. Finalmente riuniti, i tre amici tornano a incontrarsi sulla riva destra del Tagliamento,  di nuovo uno di fronte all’altro. Il romanzo si conclude con la morte di Eligio, dopo una lunga e provante malattia.

Come in altri libri di questo periodo, penso a La luna e falò su tutti,  il romanzo di Pier Paolo Pasolini è caratterizzato dai simboli della cultura contadina: i protagonisti, per esempio, che sono persone semplici, braccianti. Questo è il primo tratto che accomuna lo scrittore friulano a quello piemontese. Un secondo carattere è costituito dalla musica e dalle sagre, presenti in tante vicende narrate sia da Pavese che da Pasolini. Vorrei ricordare a tutti l’incipit de Il compagno: “Mi chiamavano Pablo perché suonavo la chitarra.”L’amicizia, l’amore  e il vitalismo è un altro elemento comune a molti romanzieri dell’epoca: penso a Cronache di poveri amanti di Pratolini, ma anche a Il diavolo sulle colline di Pavese, a La ragazza di Bube di Cassola o ai Racconti romani di Moravia. Il vino, infine (anche se triste, nelle poesie di Pavese), è un elemento di socializzazione, un’occasione montaliana, un vero e proprio collante dei rapporti interpersonali. Chi è stato in Friuli, infatti, sa bene che se un friulano  – che per sua natura è schivo e introverso – ti offre un bicchiere di vino, in realtà ti sta offrendo molto di più e cioè la sua amicizia, la possibilità di entrare a far parte della sua vita. Questa simbologia, d’altra parte, era ben conosciuta dal poeta di Casarsa che – friulano doc – ha scandito attraverso i brindisi dei tre personaggi principali i momenti della trama del romanzo. Tenendo conto dei luoghi e della poesia di cui è stata caricata molta parte delle descrizioni, potremmo asserire che Il sogno di una cosa costituisce, per intimismo e liricità, una sorta di continuum con La meglio gioventù, con la differenza che la lingua è l’italiano (e non il friulano) e il genere passa dalla poesia alla prosa. Lo stesso Pasolini, d’altra parte, parlano del proprio romanzo lo descrisse come una sorta di narrazione “quasi elegiaca” con “un tono malinconico e di patetica dolcezza”. L’ennesimo elemento che lo inserisce – pienamente – nel filone neorealistico è costituito dalla genuinità, dalla trasparenza e dal temperamento focoso e dalla purezza  dei personaggi. Pier Paolo Pasolini, in una famosa intervista televisiva, aveva dichiarato che “una persona che ha fatto la terza elementare e una persona estremamente colta condividono la stessa purezza”. Oltre all’ennesima e neppure tanto implicita frecciata alla classe borghese, questa dichiarazione sottende un impianto ideologico – anche in senso letterario – e programmatico che parte da lontano e che, nella fattispecie, si materializza nelle voci dei suoi personaggi più celebri: Tommaso, il Ricetto, Nini, Eligio e Milo in questo caso. Di questo tipo di personaggi, passionali, “romantici” e puri, possiamo trovare le tracce anche nell’opera di altri autori: in Bube e Baba di Cassola, per esempio, ma anche e soprattutto ne Il compagno di Cesare Pavese.  Per tutte queste ragioni, in conclusione, ci sentiamo di asserire che Il sogno di una cosa – benché pubblicato negli anni sessanta – costituisce una sorta di corpus iuris del neorealismo italiano.  

Confrontando Il sogno di una cosa  con i Ragazzi di Vita e Una vita violenta possiamo notare più d’una comunanza: innanzi tutto che in tutti e tre i casi si tratta di romanzi corali e che, ad esempio, in ognuna delle vicende uno degli attori principali (Eligio ne Il sogno di una cosa, Riccetto nei Ragazzi di vita e Tommaso in Una vita violenta) va incontro a un destino tragico o comunque drammatico. Il contado friulano e il sottoproletariato romano costituisco – insieme – la parabola della denuncia sociale, della povertà e della microstoria che nella pagina scritta trovano il proprio riscatto, fanno sentire la voce di chi non ne ha mai avuta in capitolo. Al desiderio di rivalsa, tuttavia, corrisponde sempre e incontrovertibilmente, lo scacco, un po’ come succedeva nei romanzi di Verga in cui imperava l’ideale dell’ostrica. L’utilizzo del dialetto, infine, rientra in quella particolare concezione antiborghese pasoliniana in cui l’ideale di popolo è, seppur idealmente, contrapposto a quello di nazione. Una delle ragioni che spinse Pasolini a pubblicare il suo primo libro in lingua friulana era costituita dal fatto che le lingue regionali e i dialetti costituivano lo spirito di un popolo eroico, schietto e puro mentre l’italiano era, a suo modo di vedere, lo strumento attraverso il quale veniva operato il controllo da parte del regime fascista. Ricordiamo, inoltre, che Paolini – secondo una recente testimonianza di Cerami – era sempre stato, anche da insegnante, estremamente attento e rispettoso del patrimonio linguistico e culturale che ognuno portava con sé. Da qui, l’utilizzo dei dialetti nei romanzi e nell’epopea cinematografica delle borgate romane.  Se è vero che Il sogno di una cosa è costituito da un tono “quasi” elegiaco, con i Ragazzi di Vita il “patetismo malinconico” viene abbandonato in favore del giusto equilibrio fra lirismo e realtà. Infine, in Una vita violenta, la realtà nuda e cruda  la fà da padrona e costituisce la materia bruciante e sconvolgente della narrazione. In conclusione, per tutto quanto abbiamo detto, ci sentiamo di affermare che i tre romanzi sopracitati costituisco i tre momenti della poetica di Pier Paolo Pasolini, la  parabola ascendente del neorealismo romanzato dell’autore friulano. 

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