Il Grande Vajont

di / 30 luglio 2011

Con il senno di poi, e con l’ultima tornata referendaria alle nostre spalle, sorprende un po’ – ma solo in parte – che nessuno ne abbia parlato, che nessuno abbia ricordato in uno dei tanti dibattiti che la Tv ci ha propinato. E sorprende pure – ma solo fino a un certo punto – che nel dibattito sull’energia nucleare non si sia mai parlato di un aspetto tutt’altro che secondario: di come etica e morale siano impossibili laddove uomini e profitto sono coinvolti, e di come questa considerazione non possa essere ignorata in questioni come la politica delle fonti energetiche. E sì che noi italiani dovremmo saperlo visto che – nemmeno mezzo secolo fa – c’è stato chi tra noi l’ha provato sulla pelle viva nella notte del 9 Ottobre 1963, la notte della strage del Vajont.

È una storia molto italiana, nei suoi protagonisti e nello svolgersi dei fatti, quella del Vajont. È la storia di una società elettrica, la sade, e del progetto di una diga enorme. Di un colosso di oltre 261 metri d’altezza, con un bacino capace di 150 milioni di metri cubi d’acqua. Di una montagna violata, il monte Toc, che lancia ripetuti segnali di non volerne sapere di quel mostro di cemento. Segni premonitori, studi che evidenziano il pericolo incombente. Ma si va avanti lo stesso, perché il profitto è l’unica bussola morale nell’intera vicenda, fino all’amara conclusione del 9 Ottobre. Una frana di 266 milioni di metri cubi che precipita nell’invaso della diga, lo colma, scaccia l’acqua che si solleva in un’onda gigantesca. L’onda scavalca la diga, colpisce i paesi nella valle spazzando via tutto quello che incontra sulla sua strada. Il prezzo: 1910 morti accertati, divisi tra Erto Casso, Longarone, Castellavazzo e altri luoghi di quell’angolo della provincia di Belluno.

E poi, il Vajont dopo il Vajont. L’indecoroso cancan della stampa nazionale, in cui le vittime diventano moneta da spendere nello scontro politico tra governo e opposizioni. L’inchiesta parlamentare e il processo, trasferito per legittimo sospetto da Belluno all’Aquila. Una prima sentenza, quasi un colpo di spugna, fino a quella definitiva con modeste condanne per “disastro colposo” e ”omicidio colposo plurimo”. Quasi quarant’anni per risolvere le cause civili, anni durante i quali è avviata la ricostruzione, con l’intervento dello Stato, con incentivi, agevolazioni e finanziamenti. I paesi rinascono, si creano prospere industrie locali ma qualcosa è andato perso per sempre: la memoria storica e l’identità di intere comunità private delle loro radici. Solo molti anni dopo, si comincerà a rielaborare faticosamente quello che è rimasto dei ricordi di quella lontana notte.

È la storia raccontata in questo libro del 1983 dallo storico Maurizio Reberschak, la prima ricerca storica sulla catastrofe del Vajont, riproposta qui in un’edizione aggiornata e con contributi di altri storici tra cui quello di Mario Isnenghi, uno dei nostri maggiori studiosi di storia contemporanea. Nel poderoso volume di 487 pagine trovano spazio diversi punti di vista. Il libro si articola così lungo un percorso che va dal progetto della diga alla sua costruzione, dalla catastrofe alla ricostruzione, dalla storia spezzata di Longarone all’eco del disastro sui giornali di allora e la traumatica ricostruzione della “memoria”, dai rapporti tra magistratura e parlamento fino ai processi penali. Alla ricostruzione storica si accompagna un’antologia di documenti, interessante grazie al riscontro che si è potuto fare recentemente – per la prima volta – sull’archivio processuale del Vajont e su quello della commissione parlamentare d’inchiesta. In leggero sottotono, forse, l’apparato di illustrazioni che però riesce ad assolvere tutto sommato bene al compito di integrare il testo: un percorso storico per immagini che procede dalle condizioni originarie della valle del Vajont fino alla costruzione della diga e al disastro, con un’interessante selezione di cartine e profili schematici degli impianti idroelettrici della sade nel complesso del Piave.

Una cosa sola, forse, potrebbe scoraggiare il lettore occasionale. A tutti gli effetti, questa è una ricostruzione approfondita, non poi così fuori della portata dei più, ma senz’altro non una semplice opera di divulgazione, che faccia leva su sentimenti ed emozioni. Quello è un passo che il lettore stesso è chiamato a fare davanti ai dati nudi e crudi, come l’inquietante elenco delle vittime lungo ben 33 pagine, o la foto di Longarone prima del disastro accanto a quella subito dopo la strage. C’è emozione in questo libro, ma non dello stesso tipo che può scaturire dall’eccellente e inarrivabile Orazione civile che Marco Paolini ha dedicato al Vajont. Nasce dall’esposizione e dall’organizzazione razionale che unisce in un tutt’uno organico cause, tempi e modi di una storia del “genio italiano”, e del conto salato che quest’ultimo ha presentato.

In una terra come la nostra, così priva di senso della storia e della memoria, abbiamo bisogno di libri come questo. Oggi più che mai.

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