Soluzione omeopatica

di / 16 settembre 2011

Il romanzo, dal titolo fortemente programmatico, Soluzione omeopatica, ed elegantemente postfato da Nello Vecchio, è preceduto da un interessante prologo articolato contemporaneamente con dolcezza, ferocia e, soprattutto, arguzia.

Quest'ultimo pone le basi dell'intera trama e dell'impianto narrativo. L'ingegno della storia è tutto concentrato in un imperativo: “Attacca Zara, uccidi!” che Lucia, una musicista cieca, rivolge al suo cane guida; lo svilupparsi del plot è consequenziale a questa premessa aggressiva e lancinante.

Il racconto si snoda attraverso le avvincenti (dis)avventure di  due “compagni di viaggio”, Ettore e Domenico, tra tafferugli e inseguimenti mozzafiato per le strade di una Napoli affascinante ma irrimediabilmente mutata dagli anni e dalla storia, in cui “piazza Garibaldi diventa un porto allucinato dove si incrociano i relitti di un naufragio, nessun sopravvissuto, ma brandelli di carne bianca e nera che galleggiano”. Una profonda analisi dei personaggi pervade e circoscrive con ritmo incalzante il susseguirsi degli eventi, partendo dal protagonista e dal deuteragonista sino a inglobare quelli secondari. Nel romanzo spiccano diverse allegorie: i due quarantenni, annoiati e sfigati, ancora in cerca di obiettivi, Samanda un simpatico travestito alla guida spericolata di un'auto e Carmine un tossicodipendente rasta, snodato al ritmo di musica dub, a cui piace dipingere e fingersi giamaicano. E ancora,  Filomena una cameriera sensuale e triste che fa bene l'amore, “un po’ con tutti e un po’ dove capita”, Flaminia la donna del “paese natio”, ormai persa e irraggiungibile nel primo amore che non si scorda mai, e la caratteristica vedova Nicolina Capece Cannavacciuolo, un'“indovina”, che si esibisce in una seduta spiritica tra brivido e ironia. Infine, un ispettore concitato e schiavo del sistema, e Sara una formosa donna che stimola i sensi dei due avventurieri a caccia di esperienze sessuali, fugaci e inaspettate ma comunque intriganti e appaganti.

In questo secondo romanzo l'Autore si profonde totalmente nel genere “giallo”, discostandosi dal suo primo lavoro, più intimistico e psicologico, dove si assiste a un vero e proprio “inno alla giovinezza”: da una parte uno stravolgente e audace “diario dei sensi”, dall'altra uno straripante e incontenibile “treno di sensazioni”, come quelle che vive il protagonista di Forse la giovinezza nell'indagare sulle relazioni, sulle problematiche, sui conflitti e sulle rielaborazioni proprie e dei coetanei del suo tempo.

I due protagonisti si ritrovano coinvolti, per una serie di coincidenze e circostanze, sulle tracce di una ragazza cieca, che dal prologo intuiamo essere la mandante di un omicidio plurimo, mamma e marito di lei, perpetratosi ai danni di questi ultimi per il tramite del suo affezionato cane guida, Zara. Un'idea sconvolgente e originale, languida e struggente, come la frase che “la ragazza cieca eseguì ben otto volte per tutta la notte al pianoforte”, durante e dopo l'efferata lotta consumatasi tra il cane e le due vittime: “fu il terzo passaggio dell'Opera 61 in la bemolle maggiore di Chopin che a lei non riusciva mai”. Quasi una nenia di morte, il lamento solitario e aguzzo di un tradimento. Perché la musicista cieca “non aveva né talento né tecnica, ma tanta, tanta sensibilità”. E anche il suo ideatore, Claudio Pàstena, nella stesura di questo testo lascia trapelare tutta la sua emotività, l'occhio acuto per i particolari, l'introspezione assorta dei personaggi, l'attenzione suggestiva per gli scorci, i vicoli e le piazze di una città che ancora e sempre affascina per le sue forti contraddizioni.

I romanzi di Pàstena si leggono tutti d'un fiato, con interesse e ammirazione. Il motivo di ciò sicuramente risiede nel fatto che l'Autore ha una spiccata capacità nel raccontare storie, è bravo nella narrazione e nella invenzione. La timeline degli accadimenti risulta tecnicamente osservata e la struttura salda e ben ancorata all'intreccio e alla descrizione. Lo spessore della scrittura è intenso e accattivante, lo stile fluido e scorrevole. Il plot è ben articolato e sempre molto originale. L'Autore non ha esitazioni né indecisioni nel costruire le sue trame e ciò lo si percepisce sfogliando i suoi libri: gli eventi sembrano saltare fuori dalle pagine. Nelle sue storie si respira un'aria di semplice autenticità e, al tempo stesso, si avverte la perizia scrittoria, la complessità narrativa, il carattere stilistico. Le avventure da lui create, come un elastico, tendono l'occhio del lettore fino a portarlo alla scoperta dell'agnitio, lungo una sapiente e ben riuscita costruzione della climax.

Indubbiamente la capacità più grande dell'Autore è quella di far “vivere” i suoi personaggi accanto al lettore, fuori dal foglio, e di farli interagire su una scena sospesa tra ciò che viene letto e ciò che viene vissuto. La “sospensione volontaria dell'incredulità” viene da lui pienamente evocata e mantenuta in entrambi i romanzi: al lettore sembra letteralmente di essere stato a cena o a passeggio con i personaggi di Pàstena, di averli conosciuti veramente attraverso le loro vicende appassionate, drammatiche, avvincenti, ironiche, difficili, avventurose. Egli, infatti, riesce a delineare contorni e dettagli di situazioni e personaggi con un'abilità sintetica ma esaustiva. “I colori hanno qualcosa di clownesco, malato, sono disposti a spessi strati come fossero ciottoli o pezzi di marmo a mosaico”, queste le sue “tele” narrative. Sono colpi di pennello in un continuo ed appassionato soffermarsi ad indagare l'animo umano. 

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