Idi di marzo

di / 19 settembre 2011

Provate a prendere in disparte un professore universitario di storia antica, e a discutere con lui del fascino che Roma esercita sul nostro immaginario: è probabile che vi metta in guardia. Vi dirà che l'interesse di oggi per Cesare nasce da fantasie di fuga dalla realtà, da suggestioni che non c’entrano nulla con un'autentica comprensione del mondo antico. In breve, senza farlo apertamente, vi comunicherà tutta la sua diffidenza verso la Roma raccontata dal cinema, dalla televisione e, sì, anche dal romanzo storico.

Se le cose stanno così, non sorprende l'apparente paradosso di questo libro della collana “La Memoria” dell’editore Sellerio. Abbiamo qui un romanzo del 1948, Idi di Marzo di Thornton Wilder, nella traduzione di Fernanda Pivano e seguito da una postfazione firmata dall'eminente classicista Luciano Canfora. Questa postfazione inquadra il libro di Wilder, allargando il discorso al romanzo storico e toccando “mostri sacri” come il Robert Graves di Io Claudio e il Brecht degli Affari del signor Giulio Cesare. A volte si ha la sensazione che il professor Canfora dia giudizi con una certa ingenerosità, laddove Le memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar sono definite sbrigativamente «lacrimose e pretenziose». Si direbbe che si contesti al romanzo storico del Novecento un’unica grande colpa, quando la manipolazione creativa dell’autore investe i grandi personaggi storici, che diventano a loro volta vivaci attori del romanzo. Come a dire che, dal misto di vero e invenzione dei Promessi Sposi, siamo passati al falso totale e consapevole, che espone più facilmente l’autore a rischi e cadute: non è poi così facile far parlare Cesare e Cicerone.

Ed ecco qui il paradosso. Filtrato dalle parole di Canfora, il romanzo di Wilder che, nelle parole stesse dell’autore, non vuole essere una ricostruzione storica, bensì una semplice fantasia su «certi avvenimenti e certe persone degli ultimi giorni della Repubblica di Roma» finisce con il sembrare un’opera divertente, ma tutto sommato sciocchina e imbarazzante. Usando la forma del romanzo epistolare, Wilder mette in scena l’ultimo anno della vita di Giulio Cesare, presentato negli insoliti panni di un uomo giunto al tramonto della vita e incline a una malinconica pensosità da filosofo. Attorno al dittatore, non senza anacronismi e licenze creative, una folta schiera di comprimari: Cicerone, Bruto e Cleopatra solo per citarne alcuni e naturalmente, sullo sfondo, Catullo e la tormentata storia con la sua Lesbia, la famigerata Clodia, forse una delle figure più enigmatiche della storia romana. Bisogna dire che il libro è tutto sommato una piacevole lettura d’evasione, di cui è ancora possibile apprezzare l’estro compositivo di Wilder nel cucire insieme invenzione e passi originali dei classici. Il principale difetto del romanzo, semmai, è nella scelta discutibile di raccontare facendo continui balzi nel tempo in avanti e indietro, spezzando così la narrazione degli eventi testimoniati dai personaggi. A ogni modo, di fronte a tanto estro il lettore esperto di cose romane e di mente aperta può anche chiudere un occhio sulle falsificazioni più evidenti, come la profanazione dei Misteri della Buona Dea che qui avviene nel 45 a.C. anziché nel 62, e la liason tra Cesare e Clodia, pura finzione letteraria.

È con questa consapevolezza che il tono della postfazione può essere compreso e, in parte, giustificato. Snobismo intellettuale a parte, Canfora mette il dito su una piaga vera: al giorno d’oggi, sono in pochi a conoscere la storia del mondo antico, e anche di quello contemporaneo a dire il vero. Alle carenze della scuola si uniscono le scelte dell’industria culturale, spesso più attenta a stuzzicare ed eccitare che a dare una rappresentazione plausibile del passato, e incline ad attingere indiscriminatamente al pozzo degli stereotipi. Di conseguenza, per molti il racconto di Wilder rischia di identificarsi con la storia, e non di essere visto per quello che è: una semplice fantasia. Il paradosso di un fantasioso romanzo unito a una postfazione in gran parte demolitrice diventa allora uno spunto di riflessione: anziché pretendere dalla letteratura un’aderenza pedestre e grigia al vero storico, non sarebbe meglio insegnare quest’ultimo a chi legge, per permettergli di apprezzare meglio estrosi giochi compositivi? E chi è oggi davvero disposto ad accogliere una sfida come questa? In ciò consiste il vero dilemma, e aspettiamo fiduciosi – ma non troppo – chi voglia provare a scioglierlo.

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