“Diario dall’Afghanistan” di Ettore Mo

di / 29 maggio 2012

Pagine scritte sul terreno impervio della steppa afghana. Pensieri e racconti sferzanti che aprono voragini in mezzo alle cronache.
Trovi l’odore dei luoghi e il respiro dei personaggi in questo Diario dall’Afghanistan di Ettore Mo (Transeuropa Edizioni, 2012). Sensazioni dominate spesso dal dolore, dal dubbio che la vita non valga molto da quelle parti, con la possibilità intatta di scorgere la genuinità e l’immediatezza di incontri semplici, a volte destinati a diventare amicizia. È lampante come Mo abbia ormai un rapporto imprescindibile con l’Afghanistan. E non solo perché è lui stesso ad ammetterlo («ha un posto speciale nel mio cuore»), ma perché traspare dalla nitidezza quasi rivelatrice delle descrizioni.

Un rapporto che inizia nel 1979, in coincidenza con l’attività di corrispondente per il Corriere della Sera. La necessità di tenere un diario delle esperienze acquisite è una naturale conseguenza che ci porta oggi a leggere un libro caratterizzato da testimonianze vivide, anzitutto della guerra di liberazione contro i comunisti afghano-russi (1979-1989).

In realtà la cronologia è solo una traccia, utile a presentare il contesto. Ciò che lascia il segno sono i legami che il reporter ha stretto nella sua lunga esperienza in un paese che appare quasi antropologicamente segnato dal conflitto. Forse sono proprio le relazioni instaurate a farlo tornare più di una volta sul posto, non solo l’esigenza di “completare” l’informazione. E allora una figura tanto significativa per il destino del popolo come quella del Leone del Panshir, Massud, diviene al contempo rilevante per l’esperienza umana dello scrittore. Una penna che non cede alla tentazione della memoria fine a se stessa e che, attraverso gli strumenti del cronista, conferisce una credibilità decisiva al libro.

La forma diaristica permette tale equilibrio fra il sapere giornalistico e la passione del vissuto, con uno scarto semmai a favore del dato personale, quasi intimo delle storie. Sono fotogrammi immediati, crudi, intervallati da quelli reali degli scatti fotografici di Luigi Baldelli, veri squarci, capaci di aggiungere più che introdurre o svelare le parole di Mo.

Afganistan, terra segnata dalla guerra quasi ne fosse elemento costituivo. Non è così. Sono gli uomini a fare la Storia e a compiere il proprio destino, fino ai giorni nostri; lo testimoniano le pagine del Diario dove non è difficile cogliere il germe dell’avvento talebano, la sua sconfitta, la rinnovata ricerca di un nuovo inizio… In questa tensione lo specifico afghano si ritrova nella varietà dei personaggi. Anche l’unicità di una storia può dare il senso della perenne battaglia di un intero popolo; come quella di Mawlì Bismillah, guerriero dalla mira infallibile, non abbastanza però da evitargli una tragica morte. Per un mujahiddin la lotta è corollario di un’indole indomita. Ma la guerra lascia il posto infine a un’irriducibile tristezza: «Fathiabad era il villaggio di Bismillah. Lo hanno portato al cimitero sul letto di paglia, sotto una coperta verde. In silenzio, la madre e il fratello gli danno l’ultimo addio. Nessuno dei due piange. Le sole lacrime – apprendo – sono quelle di un ragazzo cui Mawlì aveva insegnato a sparare»


(Ettore Mo, Diario dall’Afghanistan, Transeuropa Edizioni, 2012, pp. 112, euro 10)

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