“Hunger” di Steve McQueen

di / 31 maggio 2012

Una scena del film, poco dopo la metà, ti segna davvero. Quando le guardie penitenziarie, in completo da battaglia, sbattono sugli scudi con i manganelli e cominciano a urlare. Il regista Steve McQueen indugia sul volto di uno di loro, un giovane ragazzo dagli occhi sgranati. Poi la carica, la perquisizione. Una scena dura; violenti colpi e botte su magri corpi segnati e impotenti. Alla fine, mentre gli altri colleghi continuano a picchiare, nascosto e lontano, si vede il giovane – estraniatosi – che piange convulso.

Credo che lo spettatore, superando questa scena, possa fare la stessa cosa, ovviamente traslando il tutto nel contesto di fruitore di cinema; o uscire, scappare da quella violenza, o prendere parte alla vicenda di Bobby Sands, l’attivista nordirlandese detenuto nel carcere “Maze” di Long Kesh.

Sands, durante la prigionia, per ribellarsi contro il governo del Regno Unito che non riconosceva a lui e ai suoi compagni lo status di prigioniero politico, aveva condotto una serie di proteste: prima lo sciopero delle coperte (blanket protest, il rifiuto di indossare le uniformi del carcere), poi della pulizia (dirty protest, vivendo nella cella in condizioni igieniche indicibili), e infine lo sciopero della fame.
L’attivista del PIRA, e poi ufficiale comandante dei prigionieri dell’IRA, smise di mangiare e bere il 1° marzo del 1981 e continuò lo sciopero per sessantasei giorni, fino alla morte, avvenuta il 5 maggio 1981.

I motivi della scelta Bobby Sands li spiega nella scena madre del film, il lungo piano sequenza di venti minuti del dialogo con il sacerdote. Uno davanti all’altro, nella fredda luce della sala adibita per i colloqui, da soli, ai capi opposti di un tavolo e nel modo di vedere la situazione politica e storica del momento.

Hunger è classificabile con la parola capolavoro. Una dolorosa e sentita parabola sulla fame dell’anima oltre che del corpo. Quella fame capace per assurdo di farti morire di fame, e che conduce a sacrificare la vita per un ideale. Il talentuoso regista inglese prende una biografia storica e ne fa un atto e una riflessione universale. E riesce nell’intento soprattutto grazie all’interprete che ha incarnato nella mente e nel fisico Bobby Sands: Michael Fassbender.
L’attore tedesco naturalizzato irlandese – ormai arrivato a livelli recitativi paurosi – appare nel film dopo mezz’ora; prima è solo uno dei tanti carcerati nel braccio speciale di Long Kesh. Barba e capelli lunghi. Poi viene brutalmente rasato e la sua faccia sfigurata è ripresa da vicino – come in tanti altri momenti – mentre parla con gli adorati genitori, preoccupati, ma mai contrari alle scelte del figlio. A ogni cicatrice ed ecchimosi sul volto, scena dopo scena, ne corrisponde una nel nostro cuore. Fino al tragico e scontato finale, nel quale perfino la statica inquadratura di McQueen sembra vacillare.

Questo è un perfetto dualismo; le idee e le concezioni di un regista giovane ma dallo stile già nitido e chiaro (camera statica, piani sequenza frequenti, primi piani ravvicinati), incarnate dalla fisicità dell’attore ideale. La collaborazione ha dato vita a un film immenso, uscito con “soli”quattro anni di ritardo anche nelle nostre sale, e all’altra perla intitolata Shame, di inizio 2012. Il terzo atto è già stato annunciato, fortunatamente.

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