“Storie di ordinaria follia” di Charles Bukowski

di / 22 giugno 2012

«Tutti abbiamo udito la donnetta che dice: “Oh è terribile quel che fanno questi giovani a se stessi, secondo me la droga è una cosa tremenda”. Poi la guardi, la donna che parla in questo modo: è senza occhi, senza denti, senza cervello, senz’anima, senza culo, né bocca, né calore umano, né spirito, niente, solo un bastone, e ti chiedi come avranno fatto a ridurla in quello stato i tè con i pasticcini e la chiesa»

Sono quarantadue i racconti compongono Storie di ordinaria follia. Alcuni inventati. Alcuni autobiografici. Altri fortemente autobiografici. Impossibile elencare elementi ricorrenti: Henry Chinaski è uno scrittore di vita come pochi altri. Charles Bukowski parla di sesso, di amore, di alcool, di lavoro, di vizi, di persone, di cavalli, di morte, di vittorie, di sconfitte, di scommesse. E l’americano nato in Germania sa di essere uno scrittore. Sa di saper scrivere. Ecco allora giudizi sulla poesia contemporanea («è una poesia fiacca, così monotona, così noiosa, che la noia e l’opacità sono scambiate per significati reconditi: il senso è nascosto così bene, così bene che non c’è. non c’è nessun significato. ma se tu non ce lo trovi, manchi di sensibilità»). Pareri su giganti del passato come Hemingway («Il vecchio Ernie ha scritto alcune cose piuttosto brutte negli ultimi tempi – qualche rotella gli s’andava allentando – ma, anche allora, faceva far agli altri la figura di scolaretti che alzano la mano per chiedere il permesso di fare una lisciatina letteraria»). E su Charles Bukowski, scrittore e poeta in compagnia di altri centocinquanta ubriachi in una cella comune («Ero Charles Bukowski, io, uno che aveva un posto negli Archivi Letterari dell’Università di California. C’era chi mi reputava un genio. M’allunga su un tavolaccio»). Quella cantata è l’America distante dal sogno americano. L’America degli ultimi, di quelli che non saranno mai dei self made man. Gli altri, quelli che hanno scelto, o sono stati costretti a scegliere, la parte sbagliata quando hanno diviso il mondo a metà. E quando non è così la scure di Charles Bukowski picchia. Facendo male. Come nel racconto “Occhi come il cielo” quando colpisce il protagonista di «un fumetto serio» del Los Angeles Times. Il giovane barbuto e ribelle. La sua sexy ragazza. In mezzo il padre di lei: un imprenditore retrogrado che offre un lavoro al ragazzo. Altrimenti addio storia d’amore. L’hippie fugge e ritorna, giusto il tempo di capire che i suoi ideali non valgono una bella donna. «Ah, l’amore, l’amore! ah, la fica, la fica!». Poche parole per abbattere sia lo sterile pensiero pseudo-ribelle sia la banalità dell’ arte e della vita normale.

Charles Bukowski col suo stile tanto sgraziato quanto gradevole finisce per prendere le sembianze di un cercatore d’oro in un fiume melmoso. Instancabile tra fango, delusioni e lordura. Tanto instancabile che alla fine qualche grammo di prezioso metallo riesce sempre a trovarlo.

Come in “Una serena scopareccia”. Adesso è la storia di due tra i soggetti che Chinasky, quando non parla in prima persona, predilige. Bill e Tony, anonimi e alcolisti che, ubriachi marci, rubano dall’obitorio il cadavere di una donna. Hanno con lei rapporti sessuali necrofili. E alla fine decidono di disfarsi del corpo, affidandolo alle onde del Pacifico. Ed ecco l’oro, la poesia, nel più perverso e fangoso fiume della vita: «Poi la vedeva galleggiare con quei lunghi, lunghissimi capelli… Pareva proprio una sirena. Forse era una sirena. Alla fine Tony la trascinò oltre i flutti schiumosi. Regnava la calma. Fra il tramonto della luna e il levare del sole. Restò qualche momento a fare il morto accanto a lei. Una quiete assoluta. Come fuori dal tempo…».
Parole di un maestro del ’900.


(Charles Bukowski, Storie di ordinaria follia, trad. di Pier Francesco Paolini, Feltrinelli) 

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