“La villa sul lago” di Boris Pahor

di / 22 novembre 2012

«Che senso ha fare il costruttore in mezzo a un vuoto così disperante? Sono tre anni che è finita la guerra, ma questa gente, di contenuti nuovi, non ha ancora riempito né le menti né le case».

La casa editrice Zandonai, a dieci anni dalla prima pubblicazione, ripropone il romanzo La villa sul lago di Boris Pahor, scrittore triestino di lingua slovena, rendendo in tal modo omaggio a questo patriarca della letteratura slovena, conosciuto soprattutto per le sue testimonianze sulle sofferenze della minoranza slovena a Trieste durante il periodo del dominio fascista.
La critica riporta spesso un episodio traumatico dell’infanzia dello scrittore che segnò fortemente la sua ideologia poetica: fu testimone dell’incendio che inghiottì il simbolo della cultura slovena a Trieste, il Narodni dom. Sarà infatti uno dei motivi che apparirà in maniera molto trasparente anche nelle prime pagine di La villa sul lago. Da quell’episidio fino a oggi – quando lo scrittore, superstite dai campi di concentramento,  si avvicina ormai ai cent’anni e rimane un attento e critico osservatore e degli avvenimenti politici in Slovenia e nei paesi limitrofi –, la questione dell’identità nazionale rimane una costante indiscussa del suo pensiero poetico e critico. Un tema molto intimo e traumatico, l’esperienza di annullamento della propria identità, imposta alla minoranza slovena dal fascismo, ma anche «un senso di abbandono che accompagna chiunque sia stato prigioniero nei campi di sterminio» trova posto nelle prime pagine del romanzo.
Autore di Necropoli, romanzo autobiografico, nel quale, come fece anche Primo Levi, esorcizza nella scrittura la sua disumana esperienza nel campi di concentramento, Boris Pahor anche ne La villa sul lago pone al posto del protagonista un reduce che cercherà di dimenticare gli orrori della guerra tra le braccia di una donna.  
Mirko Godina, architetto trentenne, triestino sloveno come l’autore stesso, a tre anni dalla fine della seconda guerra mondiale, spinto dall’inquietudine, dal bisogno di «sperimentare un nuovo ritrovarsi», torna nella piccola cittadina sul lago di Garda dove qualche anno prima ha svolto il servizio militare. L’incontro con la città avvieve in una cupa mattinata pregna di umidità nella quale al protagonista tutto appare nuovo, ma allo stesso tempo suggerito dal ricordo, e dolorosamente immutato. Torna a visitare i luoghi familiari, che però si rivelano più ostili e chiusi, non meno delle persone che poi reincontrerà, protette da un velo di idolatria, di voluta ignoranza e torpore, ostinate a non guardare in faccia la realtà e accettare la fine di un’epoca crudele, di oppressione e di spargimento di sangue. Sono proprio queste persone, assopite in uno strano stato in spaesamento, ad amareggiare ulteriormente il protagonista. Sarà tuttavia un incontro a dare una piega particolare al suo pellegrinaggio e a dimostrargli che l’amore, nella sua semplicità, ha il potere di ridare forza vitale all’uomo. Mirko conosce Luciana, una ragazza semplice, «dai grandi occhi che non nascondono nulla e si spalancano a scrutare vigili ogni cosa». Operaia tessile nella filanda locale, la ragazza riesce momentaneamente a colmare in lui il vuoto del dopoguerra che lo opprimeva, e desta in lui curiosità e speranza.
Ai dialoghi scherzosi e ammiccanti tra due giovani si alternano lunghe descrizioni di paesaggio, di dettagli architettonici, di casolari, uliveti e piantagioni di limoni del piccolo villaggio i cui lineamenti e l’atmosfera si addolciscono con il crescere dell’intesa tra Mirko e Luciana.
Giunti, durante la loro passeggiata, alla villa del Duce, Luciana mostra però una buona dose di ingenuità e ignoranza sentendosi in dovere di difendere il dittatore. Mirko si chiede quindi se il fascino della snella operaia non si esaurisca nella semplice esteriorità, e diventa quasi ostile nei suoi confronti, mentre il paesaggio, continuando a riflettere lo stato d'animo del protagonista, si fa di nuovo opprimente e cupo.
Nonostante l’evidente crepa che si è aperta tra di loro, nei tre giorni seguenti Mirko si sentirà quasi obbligato a giustificare l’ignoranza di Luciana e a illuminarla con il proprio affetto condividendo con lei instabili momenti di complicità e attrazione, spinto dal bisogno di un amore, pur fugace e senza futuro.

Oltre a Mirko e Luciana, il fascismo e il Duce si fanno anch’essi protagonisti del romanzo, aggirandosi come fantasmi tra le righe, gravando sui dialoghi, i paesaggi, le rovine e le atmosfere cupe, e anche sulla storia d’amore tra i protagonisti.
Con una scrittura lenta, densa e sinestetica, impregnata di odori, di aria grigia di pioviggine e greve di umidità, di tensioni in uno precario stato di quiete, l’autore, con molti impliciti riferimenti al proprio travagliato destino, tratta il tema dell’identità, del ritrovamento, dell’amore fugace che tenta di trionfare sul ricordo del male, ma anche le stragi compiute dalle camicie nere, il male, l’ottusità e l’ (in)capacità umana di interpretare la storia.   

(Boris Pahor, La villa sul lago, trad. di Marija Kacin, Zandonai, 2012, pp. 187, euro 13,50)

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