Maria

di / 8 dicembre 2012

Io pedalo, ma pedalo forte per davvero, specialmente quando c’ho paura o sono spaventato. Quella sera mi ricordo, ero sceso in paese con la mia bicicletta, senza fari, che a tagliare nel bosco era sempre un brutto affare, perché non ci vedevo niente, e prendevo delle tranvate della madonna sulla fronte e sulle orecchie. Ma c’era il coprifuoco e non si poteva uscire, figurati accendere il faro. Ma io dovevo andare in piazza, c’avevo l’appuntamento con la Maria, madonna quanto mi piaceva la Maria, però io a suo padre per niente. Mi diceva sempre: «Sei un contadino, magari comunista, e non sei nemmeno studiato!»
«Vero gli dicevo, però c’ho un gran bel pezzo di terra che arriva sino giù all’argine, dieci vacche, la Bianchi e anche una Gilera rossa, ferma, perché non trovo il pistone di ricambio, però ce l’ho, te cosa c’hai?»
Quando gli dicevo così, diventava una bestia, tutto rosso, sembrava un torello da monta, solo che io non volevo essere la vacca, così giravo i tacchi e lasciavo correre, anche perché quello li c’aveva due paia di manone che sembravano vanghe arrugginite.
Comunque quella sera, avevo detto alla Maria che ci saremmo visti alle nove dietro la canonica, e così mi sono messo a pedalare di bestia, anche se faceva un po’ freddo, ma per un suo bacio, non mi fregava niente. Si perché la Maria, non è una donna come le altre, lei mi ascolta quando parlo, e non mi dice sempre: «Sei un semo», come fanno quelle vecchie rugose e puzzolenti di naftalina che girano in paese, che nemmeno i loro uomini le vogliono più, sono come il letame, puzzano e attirano le mosche. La Maria invece è un fiore, piccola e con la faccia rosa, e ogni volta che la vedo, sin dai tempi della scuola, anche se ho fatto solo la prima, mi si alsa la pressione, non capisco più niente e a volte balbetto, ma è solo un po’ d’emosione, poi mi passa e sento solo quella roba nella pancia che borbotta, come la mia Gilera al minimo.
Appena arrivato verso il paese, ho visto che c’era ancora il bar aperto sul retro, così sono entrato e gli ho detto al Lucio: «Dai, fammi un bianchino che c’ho fretta e mi devo scaldare un po’».
«Ma lo sai che non posso, che se arrivano quelli della Milisia poi mi tartassano e magari mi rompono anche tutto il locale… dai Settimo… fai il bravo… vai a casa che è tardi!»
«Ma va là dai, è solo un bicchierino, porca miseria, c’ho qui la pancia che trema come una fodera senza cuscino dentro, e se non bevo poi balbetto… dai Lucio… falla mo corta va… e dammi quello schifo di vino che c’hai sotto al banco».
Tira e molla, mi versa ‘sto bianco, lo bevo velocemente e scappo fuori. Il Lucio mi smoccola dietro, come sempre non ho pagato, beh pazienza, metterà sul conto del papà di Maria, tanto quello è più bestia di me, e non se ne accorge nemmeno, con tutti i soldi che c’ha.
Finalmente arrivo dietro alla canonica, mancano ancora dieci minuti alle nove, la Maria non c’è, allora mi siedo per terra e mi faccio una cartina. Sono lì tutto impegnato con il mio tabacco, umido di sudore perché lo tengo sempre nei calsini, e chi ti arriva? Il padre della Maria! Porca miseria, e adesso? Faccio finta di niente, metto via tutto e spero che al buio non mi veda. Lo seguo mentre entra in canonica, ma cosa farà a quest’ora dal prete, sarà mica stato male qualcuno, vuoi vedere che ci ha scoperto e quel bischero mi ha chiuso in casa la Maria… lo ammasso se mi fa una cosa così… comincio a preoccuparmi.
Ascoltare non è bello lo so, però non stavo nella pelle, così ho appoggiato l’orecchio alla persiana, (che mi è anche entrata una bestia nell’orecchio, e mi fischia tutto) e mi sono messo ad ascoltare.
«Don Fausto, sono arrivati i tedeschi, si dice vogliano portarci via tutti perché siamo ebrei, cosa faccio io con la Maria e gli altri miei figli?»
«Stia tranquillo, vedrà che sarà la solita propaganda, ma non succede nulla, vada a casa ora e tranquillizzi la famiglia, io m’informo presso il Federale, e domani le farò sapere, buonanotte!», disse il parroco.
Sono lì che ascolto tutta ’sta discussione, quando a un certo punto arriva un casino di gente che grida dalla piazza, corro giù come un tanghero a manetta e del coprifuoco non mi interessa più niente.
Vedo la Maria e altra gente che viene strattonata sui camion, spinta e malmenata, mi monta il sangue alla testa e corro verso il camion, gridando a quel topo grigio in divisa: «Te mangia crauti cosa stai facendo alla mia donna?», ’sta bestia si mette a smoccolare una lingua che non si capisce un casso: «*Allmählich verschwinden, passiert nichts, raus, raus!»
«Ascolta animale, io non capisco un casso di cosa stai dicendo, ma te la Maria adesso la tiri giù dal camion, se no ti riempio di testate sui denti, e di sberloni sulle orecchie… e va che c’ho la mano pesante… hai capito, merda?»
Mentre urlavo, in tutto quel casino, una mano dietro la schiena mi strattona, mi giro e c’è il Don Fausto che mi grida: «Dai Settimo vieni via, lascia stare, li portano al comando di Reggio per un controllo e tra un’ora sono a casa».
«Lascia stare un casso, questi qui sono mica a posto, va che facce da scemi, sembrano vacche tarate!»
«Maria stai tranquilla, tra un’ora sei a casa, ci vediamo dopo», le grido dal marciapiede, mentre il Don mi porta via di peso, e le lacrime della Maria mi spaccano il cuore.
Mentre torniamo in canonica, guardo i camion che vanno giù, verso l’argine grande, poi solo polvere e buio. Porca miseria che rabbia che c’ho dentro, mi viene da piangere, ma resisto, mi metto le dita nel naso e me ne sto lì in canonica con un caffè alla cicoria ad aspettare.
«Ma Don Fausto», gli chiedo, «perché li hanno portati via?»
«Perché sono ebrei Settimo, e lo sai che i crucchi quelli non li vogliono».
«Ma cosa vuole dire ebreo? Ma porca miseria, è come se uno dei miei vitelli nascesse a Imola invece che a Reggio, cosa cambia, non è mica diverso, Padre me lo dica lei, cosa casso cambia?»
«Stai tranquillo Settimo, vedrai che torna la tua Maria».
A me il Don non me la conta giusta, corro sul retro della canonica e riprendo la mia bicicletta, e giù a pestare sui pedali verso l’argine grande, quanta polvere ho mangiato non ci vedevo niente, pedalavo e bestemmiavo, avevo paura!
Mentre arrivavo all’argine, ho sentito dei botti, come quando aprono la caccia d’autunno, ma saranno mica scemi da sparare al buio questi crucchi, non capisco. Arrivato all’argine mi guardo in giro, non c’è più nessuno, un silenzio che mi gela il sangue, allora comincio a gridare: «Maria? Maria dove sei?» Niente, solo un silenzio che non comprendo.
Sono rimasto lì tutta la notte e la mattina, e poi il giorno dopo, e il mese dopo, e così tutti i giorni negli ultimi vent’anni. Ogni giorno faccio tutta la strada dalla mia cascina, giù fino all’argine grande, e continuo a cercare Maria, a gridare il suo nome. Seguo il percorso dei fiori azzurri che mi guardano, e penso che siano i suoi occhi, e grido: «Maria, dai vieni fuori che ho aggiustato la Gilera, c’ha un pistone che con questo arriviamo al mare!» «Mariaaa, so che sei lì nascosta tra i fiori, non farmi arrabbiare, dai… esci!» «Mariaaaaa, casso, devo ancora darti il bacio della buonanotte!» «Mariaaaaaaaaaaaa…!!!!!»

La gente mi guarda strano quando passo con la mia vecchia Gilera, perché urlo sempre, ma a me non me ne frega niente, tanto io lo so che la Maria è lì, e un giorno o l’altro salterà fuori dai fiori a darmi quel bacio che aspetto da vent’anni, e se non viene lei, ci vado io al fiume con la mia Gilera; «Eccomi Maria, sono qui, sono arrivato, ora possiamo baciarci!»

 

Questo racconto si è classificato primo al concorso Memoracconti – Storie da ricordare, organizzato da Edizioni Memori, in collaborazione con Flanerí.

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