Scorie

di / 15 dicembre 2012

Giulio Frasca aveva scelto di fare lo psicoterapeuta per aiutare la gente. Gli piacevano le persone – diceva da sempre – perché quella cloaca che è chiamata massa, presa nell’individuo che la compone, non conserva in sé nulla di tutto quanto possa identificarsi con il male. Il marcio – pensava Giulio Frasca – sta nella produzione di energia causata dall’installazione di un corpo accanto all’altro. Il sonno della ragione genera mostri, aveva imparato, e quello stato di assopimento è la società. Giulio Frasca pensava alle manifestazioni di piazza, che partono con i migliori propositi costituzionali per poi degenerare in violenza. Giulio Frasca pensava al concerto del Primo Maggio, dove la profonda ignoranza si mescola all’ebbrezza dei vini scadenti. Giulio Frasca pensava alle membra installate sugli autobus di linea nelle ore di punta e alle file interminabili al supermercato. La società – pensava Giulio Frasca – è un assemblaggio di membra ricucite a caso, come il mostro di Frankenstein. Bruttezza che coincide per forza con frustrazione, con la cattiveria. Di chi sono queste membra che calpestiamo a brandelli?
Con questi e altri pensieri per la testa Giulio Frasca, che credeva assai nell’uomo comune e nel piccolo contributo che ciascuno può dare per rendere migliore questo mondo, si era iscritto a medicina, specializzato in psichiatria e infine aveva scelto di lavorare con la psicoterapia.

Mario P. faceva il dirigente d’azienda. Aveva appuntamento alle sei ogni martedì. Giulio Frasca si sedeva sulla sua poltrona di pelle rossa, mentre il paziente gli dava le spalle. Finivano spesso a parlare di sesso. Partivano sempre dai sogni. Mario sognava spesso una donna che si infilava le calze, altre volte la stessa donna si limava le unghie, altre ancora la vedeva nell’atto di struccarsi davanti allo specchio.
«Chi è questa donna?», gli chiedeva Mario P.
«Nessuno in particolare», rispondeva il dottore. «Deve sapere che nei sogni, le persone che vediamo rappresentano nient’altro che la parte di noi stessi che più si avvicina a loro. In questo caso le capita di sognare in continuazione la sua parte femminile, che le sta chiedendo attenzione, una sorta di manutenzione, presa di coscienza…»
«Cosa vuol dire dottore? Mi sta dicendo che sono omosessuale?»
«Non ho detto questo, Mario. E poi siamo qui perché lei impari a conoscere ciò che cela anche a se stesso. Non deve aver paura di essere giudicato».
Mario P. si sentì come sollevato nel profondo. Da quel giorno i loro incontri furono del tutto diversi. La resistenza del paziente fu come lubrificata dalle parole del medico.
«Dottore, questa mattina al supermercato una ragazza mi è passata davanti con un fare altezzoso dopo avermi squadrato da capo a piedi e ho percepito in lei una smorfia di ribrezzo. Dottore ho provato un forte impulso a tirarle i capelli, trascinarla nel reparto surgelati, piegarla da dietro e scoparmela con tutte le mie forze, fino a farla piangere. Poi ho pensato che non era affatto vero… Dottore, non era vero che avevo notato in lei una smorfia, mi aveva osservato e io ho voluto pensare che lo avesse fatto con disprezzo. Volevo sbatterla in un angolo e farla piangere. Non mi piaceva il modo in cui portava legati i capelli».

Erano un po’ di mesi che arrivato a casa, alla sera, Giulio Frasca non riusciva a prendere sonno facilmente. Per cui aveva iniziato a leggere i russi, ma la verità è che neanche la lettura riusciva a distrarlo dai pensieri che andavano a infestargli la testa. Le facce dei suoi pazienti, le loro parole. Osservava il suo diploma di laurea incorniciato alle spalle della scrivania e continuava a compiangere questa povera, debole umanità.

Giulio Frasca pensava a Mariacarmela V., docente di storia dell’arte presso un liceo classico.
«…e delle volte», diceva la donna «delle volte amo metterle in difficoltà, quelle stronzette delle mie allieve, e cerco di farle cadere, di mostrargli in faccia la loro ignoranza profonda, quell’arroganza così giovanile, le loro belle speranze. Mi verrebbe da dire loro che sono nient’altro che povere illuse, che finiranno a insegnare pure loro e a riscaldarsi al microonde i cibi surgelati, la sera, da sole, per quanto possano amare oggi libertà e bellezza. Sono delle luride, sporche, puttane, dottore. Vorrei dirglielo ogni giorno».

Giulio Frasca pensava alla piccola Erika C., il suo visino pulito, il portamento elegante, raccolto sempre in abiti sobri.
«Lo amo. Davvero. Amo la sua devozione. Ma lo odio. Odio il fatto che mi ami così tanto, sento di dovergli qualcosa, e allora vorrei scrostarmelo via. Ecco. La nostra relazione è diventata la crosta di sugo rappresa su una padella sporca. E io devo scrostarlo via e presto. Non lo sopporto. Ieri ho incontrato in metropolitana l’istruttore di sala della palestra che frequentiamo insieme. Non ci siamo detti niente. L’ho seguito. Ho desiderato fargli un pompino per strada, un vicolo nascosto del centro. Poi sono tornata a casa e ho preparato il suo piatto preferito. Festeggiavamo due anni insieme».

Andavano tutti via così, un quarto d’ora prima della fine dell’ora. Le donne in genere tiravano fuori piccole borsette di trucco, si ripulivano il viso se avevano pianto, ripassavano il rossetto e poi attraversavano l’ingresso per saldare il conto. La tassa per sbarazzarsi dei propri rifiuti tossici. Le scorie. Entravano pieni, pesanti, i passi calcati sul pavimento di parquet. Uscivano leggeri e sollevati. Sorridenti, perfino. Tutto quel marciume loro non lo volevano in casa. Non lo volevano addosso.

Era venerdì sera. Mario P. era appena andato via dopo avergli raccontato del suo nascosto desiderio di fare a pezzi il cane di sua madre, solo per vederla soffrire. Da un po’ di settimane che avevano deciso di raddoppiare i loro incontri. Giulio Frasca si avvicinò alla finestra che dava sulla strada, una bella strada in ombra, rinfrescata dalla presenza dei platani e illuminata un poco dagli ultimi raggi del sole di primavera. Vide il suo ultimo cliente avvicinarsi alla macchina fischiettando, leggero, e più il dottore si concentrava su quella leggerezza, su quella pace che avvolgeva tutto il quartiere per bene, enclave di benessere incastrato nelle viscere putride della Capitale, più si sentiva soffocare. Quella liposuzione di violenza e malvagità gratuite che ogni volta, chirurgicamente, estraeva dai corpi dei suoi clienti, gli stava togliendo il respiro. Le mura del suo studio gli sembrarono rimpicciolirsi a velocità esponenziale. Un conato di vomito dalla base dello stomaco lo trascinò sul pavimento. La puzza dei suoi succhi gastrici gli pungeva l’olfatto. Giulio Frasca vomitò l’ambizione e l’invidia. Vomitò la violenza. Si accartocciava sul pavimento chiedendo pietà: «Basta, ve ne prego!», mentre cercava di aggrapparsi alla poltrona, strisciando nel suo vomito e nell’asfissia. Giuliano Frasca vomitò l’egoismo e la vanità. Vomitò l’arroganza. Si trattò di un lento consumarsi, ma alla fine qualcosa o qualcuno desiderò concedere al dottore almeno il privilegio di un’illuminazione, visitandolo così, nel freddo, nell’umido, nella puzza nauseante e mai più umana della vera interiorità dell’uomo. Il male non è riciclabile – pensò Giulio Frasca. Si può solo trasmettere, nascondere, ma non disintegrare. In questo mondo nulla si crea e nulla si distrugge.
Alle tre del mattino cominciò a respirare con più difficoltà. La pelle gli bruciava, lo stringeva come un insaccato compresso in una pellicola di piombo. Alle quattro meno un quarto prese a strapparsi le unghie e da quelle trarre i lembi giusti per sfilare via la sua stessa pelle. Pochi minuti di sollievo, per poi ricominciare a soffocare.
Fu ritrovato alle otto del mattino dalla segretaria in un bagno di sangue, sul pavimento di legno bruciato dai succhi gastrici. Il male non esiste, esiste l’uomo. La massa è solo un concetto di copertura che l’uomo usa per tutte le sue porcate. Si era messo a ridere, poco prima di morire, Giulio Frasca.
Almeno questo.

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