Chi ha scritto il “Don Chisciotte”?

di / 22 dicembre 2012

Per rispondere alla domanda del titolo, le notizie che abbiamo non lasciano spazio a dubbi. Si tratta di una normale informazione storica, relativa a un passato neanche troppo lontano, della quale non vi è motivo di dubitare. Miguel de Cervantes Saavedra, poeta spagnolo vissuto a cavallo tra il XVI e il XVII secolo, fa stampare nel 1605 presso la casa di Juan de la Cuesta, noto editore del tempo residente a Madrid, la prima parte del suo romanzo Don Quijote de la Mancha, con il nome El ingenioso hidalgo don Quixote de la Mancha. Dicevamo, dunque, che motivi reali e legittimi per dubitare di tale informazione non esistono, ma se vogliamo, possiamo prendere in considerazione una teoria, per quanto fantasiosa, riguardo a un altro scrittore del tempo, non certo meno famoso di Cervantes: William Shakespeare. Egli è considerato il padre della letteratura inglese quanto Cervantes lo è di quella spagnola, e circostanza vuole che pare siano morti lo stesso giorno, il 23 aprile del 1616, sebbene il primo a Stratford-upon-Avon, in Inghilterra, e il secondo a Madrid, in Spagna. Come non si devono avere dubbi sulla certezza dell’autore del Don Chisciotte, così non se ne dovrebbero avere riguardo alla certezza che sia stato proprio Shakespeare a scrivere tutte le opere a lui attribuite. Tuttavia esiste chi sostiene che dietro l’autore dei testi teatrali e dei sonetti si nasconda un’altra persona, dando così vita alle cosiddette “teorie complottiste”. Senza addentrarci in queste teorie, è bene notare come, in linea assolutamente teorica, ma anche non legittima per quanto ne sappiamo, la stessa cosa potrebbe capitare in futuro a Miguel de Cervantes. Curioso anche come prima dell’uscita della seconda parte “ufficiale” del romanzo (nel 1615 con il nome di El ingenioso caballero don Quixote de la Mancha) fosse stata pubblicata un anno prima a Tarragona la continuazione apocrifa delle gesta di Don Chisciotte. Il nome di questa seconda parte era Segundo tomo del Ingenioso Hidalgo don Quijote de la Mancha, e la vera identità del suo autore, ossia Alonso Fernández de Avellaneda, non è mai stata conosciuta.Nulla più di un gioco e di una suggestione per iniziare a prendere in considerazione un aspetto interessante, ossia l’identità dell’autore, del narratore, del curatore o del traduttore delle peripezie di Don Chisciotte.

Se si trattasse di un normale romanzo il tema non si porrebbe neanche, ma Cervantes vuole donare alla sua opera un aspetto reale, vuole farci credere che le gesta del suo eroe e del suo scudiero Sancho Panza siano accadute realmente e che abbiano fondamenta storiche, nel suo proposito di scimmiottare i libri della tradizione cavalleresca. Secondo le notizie che abbiamo possiamo affermare che la prima parte è stata pubblicata, come si diceva, nel 1605, e inoltre Cervantes, nel capitolo VI di questa prima parte, ci lascia forse un indizio. Ci troviamo nella biblioteca del fantasioso nobiluomo e il curato e il barbiere la vogliono esaminare per “pulirla” da quei libri che tanto male hanno fatto al loro compagno, temporaneamente addormentato. Due sono le cose interessanti in questo capitolo. La prima è il presunto indizio: nessuno tra i libri citati è posteriore al 1591, il che ci suggerisce questo come l’anno possibile dell’inizio della composizione da parte di Cervantes; dunque un altro dato storico, che un filologo può confrontare con i dati biografici dello scrittore. La seconda è che tra i libri presi in esame e giudicati dai due, in un fantastico e modernissimo esercizio di critica letteraria all’interno di un’opera di fantasia, si trova La Galatea, il cui autore è proprio Miguel de Cervantes!

Il vero punto cruciale per analizzare questo gioco che si sviluppa a metà strada tra realtà e finzione è il capitolo IX. Il capitolo VIII, infatti, si chiude con il dubbio che il resto dei testi nei quali si continuavano a narrare le imprese del nostro eroe siano andati persi. Il narratore non vuole credere che nessuno si sia preso la briga di mettere per iscritto avventure tanto appassionanti e non ne fa mistero al lettore, in un continuo gioco delle parti. È nel capitolo IX però che ci viene raccontata la sorte del narratore, che incappa al mercato di Toledo in dei fogli scritti a mano in carattere arabo, venduti da un ragazzo. Subito si scopre che su quei fogli è raccontata la storia di Don Chisciotte dallo storico arabo Cide Hamete Benengeli. Il narratore si affretta dunque a comprare il manoscritto e ne affida la traduzione verso la lingua castigliana a un moro battezzato, affinché sia il più fedele possibile. L’operazione dura circa un mese e mezzo e avviene, secondo quanto ci è detto, a casa del narratore, per il prezzo di venticinque libbre d’uva passa e due staia di grano.

Provando a credere alle parole di Cervantes ci troviamo di fronte a tre diversi punti di vista che operano sulla storia: il narratore, ossia Cervantes stesso, apparentemente solo un tramite; lo storico arabo, al quale dobbiamo tutti i fatti che da qui in poi seguiranno fino alla fine; il traduttore del manoscritto, “assunto” dall’autore.

Prima di passare all’analisi dello stratagemma del manoscritto, vediamo un po’ chi è questo Cide Hamete Benengeli. Sappiamo che è musulmano e scrive in arabo. È subito tacciato dal narratore di essere un “cane” e, in quanto arabo, tendente alla menzogna. Tuttavia nella seconda parte l’autore acquisisce una presenza maggiore e un ruolo più strutturato, nonostante le continue imprecisioni: difatti quella che all’inizio era invettiva diventa ironia, di pari passo con l’acclararsi della superiorità della coppia narratore-lettore. Cervantes ci lascia intendere che Cide Hamete Benengeli è fin troppo esaustivo nella sua narrazione e se ne prende gioco, replicando, in chiave parodica, un atteggiamento tipico dei narratori dei cantari e dei romanzi cavallereschi, cioè la sistematica insistenza su dettagli concreti, forniti allo scopo di avvalorare una narrazione inverosimile. La distanza culturale tra narratore e primo autore, che è superiorità del primo sul secondo (perché infedele), è sfruttata per rafforzare il valore di una riflessione filosofica. Dietro la maschera del moro il lettore può intravedere il volto del vero autore: un pensiero intuitivamente giusto e saggio, come la tragica finitezza dell'uomo, diventa, proprio perché espresso da una fonte sospetta, universale.

All’inizio del capitolo XXVIII abbiamo il passaggio più lungo nel quale si nota come sia il narratore e non l’autore a parlare, acuendo la sensazione fittizia di una storia accaduta veramente e raccontata successivamente: è qui che il narratore parla della «storia veritiera di lui, ma anche dei racconti e degli episodi di essa» per riprendere il resoconto dello storico arabo poco dopo. Anche se non sempre esplicitata, questa dualità è costante lungo tutta la narrazione. L’iniziale triangolo di persone che intervengono sulla storia è in pratica ridotto a due persone, poiché viene data per scontata e mai messa in discussione l’affidabilità della traduzione. Poco affidabile invece, come si diceva, è lo storico nella seconda parte; a confronto con una prima parte in cui è colpevole solo di una imprecisione minore (nel capitolo XVII quando Don Chisciotte, dopo aver bevuto il balsamo di Ferabraccio, viene descritto prima «sollevato e guarito» e dopo «ammaccato e rotto»), nella seconda si possono contare almeno dieci occasioni in cui l’autore mente, si contraddice o giudica male i personaggi (ad esempio nel capitolo XLVII riguardo al presunto contadino di Miguelturra). Continui sono anche i passaggi in cui Cervantes sottolinea le mancanze del moro, riferendosi anche indirettamente all’autore con l’espressione «la storia racconta», prendendosene contestualmente gioco. Le mancanze e le imprecisioni dello storico coinvolgono non solo il corpo dei capitoli della seconda parte, ma anche i titoli stessi, a volte banalmente frivoli: un esempio è il capitolo VI, definito «uno dei più importanti capitoli di tutta la storia», ma che tuttavia, per quanto interessante, mai potrebbe essere annoverato tra i più importanti. In definitiva l’oggetto dell’ironia, che nella prima parte era rappresentato dall’eroe stesso e dalle sue avventure, nella seconda parte si sposta sull’autore del manoscritto. In questa maniera il tono comico mantiene un livello costante per tutto il romanzo.

Torniamo dunque al manoscritto da cui vengono i fatti narrati. Anche qui vi è una nuova parodia della tradizione della letteratura cavalleresca, secondo cui i poemi erano sempre tradotti da manoscritti latini, greci o di altre lingue difficili da identificare. Ancora una volta realtà e finzione si accavallano, parodia e narrazione vanno di pari passo: lo stratagemma del manoscritto non serve solo come piatta imitazione, ma contribuisce a moltiplicare i punti di vista sulla storia. Riassumendo, i fatti presenti nel libro pubblicato nel 1605 sono accaduti o no? Chi li ha raccolti, Cervantes o il misterioso storico arabo? A chi si può credere e a chi no?

Anche successivamente, in periodi differenti, lo stesso espediente del manoscritto è stato usato in letteratura. Per fare due esempi italiani, possiamo citare I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni e Il nome della rosa di Umberto Eco. Nel primo caso le somiglianze sono più di una, sia dal punto di vista della forma (Manzoni immagina di trovare uno scritto di un anonimo seicentesco), sia secondo la maniera di declinare questo topos (ad esempio ritroviamo l’inaffidabilità dell’autore). Per quanto riguarda il secondo esempio, anche qui abbiamo un manoscritto: è di Adso da Melk e racconta dell’avventura avuta da novizio in una abbazia dell’Italia settentrionale. L’incipit del romanzo, che si apre con il titolo piuttosto esplicito, «Naturalmente, un manoscritto», è quindi dedicato alla spiegazione di come Umberto Eco ne sia venuto in possesso. Il fortunato e suggestivo meccanismo del manoscritto possiede la capacità di ricordare al lettore di essere di fronte a una storia raccolta da altri in tempi antichi, conferendone autenticità e autorevolezza, lasciando al tempo stesso sospesa e ambigua la posizione della persona presente sul frontespizio del libro.

Abbiamo aperto parlando di suggestioni e concludiamo alla stessa maniera. Nel 1985 lo scrittore americano Paul Auster pubblica il romanzo City of Glass, che uscirà due anni dopo in una raccolta intitolata The New York Trilogy, della quale faranno parte anche Ghosts e The Locked Room. Al centro dell’analisi di questi romanzi c’è il tema del doppio, dell’identità e della realtà. In City of Glass il protagonista si chiama Daniel Quinn (non casualmente le iniziali sono DQ, come il Quijote della Mancia). Di mestiere fa lo scrittore, scrive i suoi romanzi sotto uno pseudonimo e si identifica totalmente con il protagonista dei suoi libri. Già ci troviamo di fronte a un singolare caso di sdoppiamento multiplo. Gli sdoppiamenti continuano quando, più avanti nella storia, DQ si trova a fare i conti con Paul Auster, un altro personaggio della storia, che egli crede essere un investigatore privato, ma che ha lo stesso nome dello scrittore del romanzo che stiamo leggendo. Anche nella storia Paul Auster si rivela essere uno scrittore (come il protagonista e lo scrittore stesso del romanzo) e DQ ha con lui una certa affinità. I due si trovano a casa di Auster e parlano di un saggio che il padrone di casa sta per pubblicare in una raccolta: un saggio su Don Chisciotte. Dopo aver concordato sul fatto che il Quijote fosse uno dei loro libri preferiti, Auster dice che si tratta più o meno di un gioco letterario riguardo alla paternità e alla modalità di scrittura del capolavoro. Continua dicendo che Cervantes, al fine di mettere in guardia i lettori dal pericolo di false letture, insiste sull’autenticità del manoscritto arabo del quale era venuto in possesso. Tuttavia Cide Hamete Benengeli, che dovrebbe esserne testimone, non compare mai sul luogo in cui si svolgono i fatti: la teoria del saggio di Auster è che Benengeli sia in realtà un misto di quattro persone. Una è Sancho Panza, sempre presente ma incapace di leggere o scrivere; le altre due sono il barbiere e il curato, amici di Don Chisciotte e autori della storia in castigliano, sotto dettatura dello scudiero; la quarta persona è lo studente di Salamanca, Sansone Carrasco, che provvede a tradurre il manoscritto dei tre, poi trovato da Cervantes, in arabo. Questi quattro avrebbero architettato tutto questo per curare il loro amico Don Chisciotte e farlo rinsavire, avendo precedentemente fallito con l’esame della sua biblioteca e col seguente rogo dei libri. L’Auster protagonista del romanzo dice che non è finita qui. Il saggio continua sostenendo che in realtà Don Chisciotte non era così pazzo; anzi, preoccupato di tramandare le sue gesta, avrebbe architettato tutto per far sì che proprio i suoi tre amici fossero i cronisti delle sue vicende, e addirittura si sarebbe abilmente mascherato in maniera tale da essere egli stesso, al mercato di Toledo, la persona che Cervantes assume per tradurre la sua stessa storia. Perché, domanda Daniel Quinn a Paul Auster, Don Chisciotte avrebbe dovuto rovinarsi la vita per un inganno simile? La risposta è che stava conducendo un esperimento, per vedere fino a che punto e perché qualcuno si spingerebbe verso avventure inventate, al fianco di un pazzo visionario che scambia i mulini a vento per giganti. Il risultato dice che il limite è il divertimento. Se la cosa ci diverte possiamo accettare quasi tutto, sebbene falso e inventato. È per questo che ancora leggiamo il capolavoro di Cervantes, conclude Auster, ed è questo quello che cerchiamo in un libro.

Chi è l’autore di questa teoria, Paul Auster scrittore del romanzo o Paul Auster protagonista della storia? Notevole, in ogni caso, la suggestione di un Don Chisciotte mascherato che si avvicina a Miguel de Cervantes nel mercato di Toledo. Dove avviene questo incontro, nella realtà dei secoli passati o sulle pagine di un libro? La differenza a pensarci bene non è molta. Torniamo a City of Glass: alla fine del romanzo scopriamo che il narratore della storia è un amico del Paul Auster personaggio che ha ricostruito tutta la storia grazie al taccuino di Daniel Quinn. Piuttosto suggestivo, anche volendo evitare paragoni diretti con il testo di Cervantes. La domanda apparentemente troppo banale rimane sempre lì: chi ha scritto il Don Chisciotte?

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