Risparmiami a Natale

di / 26 gennaio 2013

La cucina deve rimanere al buio. Mia madre ha apparecchiato il tavolino in mezzo alla stanza e ha recuperato persino un centrotavola. Dobbiamo stringerci un poco, ma alla fine riusciamo a sederci tutti e sei, raccolti a festeggiare il Santo Natale, a far piacere alle ossessioni di mia madre, a fingere che il mondo sia sempre lo stesso.
Passo tutto il pranzo a sezionare la mia carne in scatola, senza il minimo appetito, cercando invece di capire cosa è successo e quanto siamo cambiati da quando sono cominciati i terremoti, seguiti dalle inondazioni, le quarantene, gli animali mutati, in un prosciugamento silenzioso di quello che eravamo. O è stato un processo di eliminazione del superfluo, che ci ha portati ad essere ciò che prima di allora tenevamo nascosto?
Erano due giorni che non vedevo mio padre, per dirne una. Seduto a capotavola, col volto in ombra, potrebbe essere chiunque. Da tre sedie di distanza riesco a sentire il profumo che ha addosso, una roba da donna, qualcosa di stupido e infantile, quel tipo di odore che la vicina del quarto piano lascia sempre al suo passaggio e che aleggia per le scale come una scoreggia.
Mamma mangia, ovviamente, accanto al capofamiglia, e tra un boccone e l’altro sgrana uno dei rosari che le penzolano al collo. Si è ammattita con la storia dell’Apocalisse e recita atti di dolore anche al bagno: questa storia del pranzo di Natale è opera sua, che s’è convinta che si debba fingere che non ci sia nulla di sbagliato, e che alla piccola Jenny sarebbe tanto piaciuto… Jenny ha quattro anni ed è più sveglia di tutti noi messi assieme. Trotterella al fianco della mamma quando quella la costringe a fare il chilometro domenicale fra le macerie per andare in Chiesa, ma nei suoi piccoli occhi di bambina c’è già l’odio e la rassegnazione dell’agnello sacrificale. Anche adesso fa la bambolina terribile e silenziosa, alla destra di mia madre, appollaiata sul suo trespolo.
Il nonno, poi, lo abbiamo riportato a casa dopo l’ultima bomba sull’ospizio. Continua a fissare le finestre come fossero schermi di televisione. Qualche volta ha provato a cambiare canale, senza successo.
Nessuno parla a tavola se non Damien, strafatto di hascìsc, che ha deciso passare in botta tutti quelli che crede essere i suoi ultimi giorni da fuorilegge, e che perlomeno a Natale ha avuto il buon gusto di evitare la coca, dato che ieri notte mi sono sorbito le sue sberle e subito dopo i suoi pianti incontrollabili da paranoico. Si sfonda come un cane ma almeno poi si calma, parla, illumina la cucina con i suoi enormi occhi rossi.
Io ho quattordici anni, ho cominciato a fumare la pipa e, a parte fare lo sciacallo quasi a livello professionistico, ho deciso che se proprio siamo arrivati alla fine del mondo non morirò vergine. È fuori questione.
È Natale, faccio finta di masticare un boccone inesistente e cerco il coraggio per alzarmi da tavola e salire sul terrazzo. Sono un paio di giorni che vado lì con la pipa, di nascosto, e ieri mi ha raggiunto Teresa, credendo che non ci fosse nessuno, o forse sapendo che ero lì ad aspettarla. La liceale del secondo piano, con quelle gambe lunghe e dritte, con quell’enorme cappotto, con i capelli sciolti sulla faccia. Mi eccito e metto da parte la forchetta.
Mia madre sta imboccando Jenny che accetta passivamente il purè. Papà e nonno fissano i loro piatti e Damien si è perso in un suo soliloquio a mezza voce, ridacchiando a ogni frase. Mi alzo.
«Dove vai?»
«A prendere un po’ d’aria».
Mamma ha le lacrime agli occhi.
«Torni per il dolce?»
Sono già di spalle, in corridoio. Raccolgo il giaccone e lo indosso.
«Forse».
Mi allontano e sblocco le cinque serrature della porta. Mentre la chiudo, sento ancora la voce di mia madre, dalla cucina: «Stai attento».
Mi ritrovo sul pianerottolo, in un silenzio ancora più profondo di quello di casa mia, ma disturbato da ronzii lontani, passi di topi e urla che arrivano dalla strada. Corro su per i sette piani di scale che ci separano dal tetto, spingo il portone di metallo e sono fuori. L’aria puzza e il cielo è grigio, non nevica neppure, altro che Bianco Natale. Una volta facevamo i pupazzi di neve in cortile. Mi avvicino alla balaustra e a ogni passo vedo sempre più città, o almeno ciò che ne resta. Fumo e cavi scoperti. Pozze d’acqua stagnante e finestre rotte. Sempre la stessa storia.
Devo sbrigarmi, Teresa potrebbe arrivare da un momento all’altro, sperando che non sia stata condannata a un pranzo natalizio più imperativo del mio; dietro la casetta della lavanderia ho nascosto tre cavi di lucine colorate, presi dall’ultimo supermercato che ho razziato il giorno della Vigilia. Ho sistemato le lampadine rotte e ho ricollegato i fili. Non sarà quel gran regalo, ma è qualcosa, e ogni qualcosa si suppone che valga molto, oggi.
Alzo la testa di scatto perché sento cigolare il portone e sì, è lei, che si guarda attorno come un gatto. Mi sta cercando? Mi vede e si avvicina. Cerco di nascondere i cavi, non li ho ancora collegati alla prolunga.
«Buon Natale».
«Cazzo dici», mi risponde, ma lo fa con un mezzo sorriso che ci potrei perdere la testa.
«Chiudi gli occhi».
«Eh?»
«Chiudi-gli-occhi».
Stavolta ride proprio, mi considera un cretino. Forse, ma fa niente. Io questo regalo glielo voglio fare, fosse anche solo perché non voglio morire senza averle toccato le tette.
Corro a inserire le spine. Torno di fronte a lei e la guardo: con gli occhi chiusi è ancora più bella. Verrebbe voglia di levarle i capelli dalla fronte e baciarla. No, e allora prendo i cavi e delicatamente glieli faccio passare oltre la testa e glieli appoggio sulle spalle. Le lucine brillano a intermittenza e sembra una piccola Madonna, in piedi sul terrazzone di cemento, in cima a una casa butterata e a venti famiglie sopravvissute.
«Ma che…»
«Apri».
Apre gli occhi poco a poco e all’inizio non capisce, perché vede solo me e il mio ghigno d’attesa. Poi si accorge delle luci che le danzano in faccia e abbassa lo sguardo. Socchiude la bocca, allunga le mani, tocca le lucine, si immagina ricoperta di giallo, rosso, blu, non ci crede, e chi se lo aspettava un regalo, questo Natale?
Ride. Ride e forse un po’ si commuove anche, stringe le spalle e le dita sui cavi, sposta lo sguardo su di me e si tende, quasi volesse abbracciarmi, ma richiude le mani e non lo fa.
«Grazie!»
Faccio il duro, metto le mani in tasca e stiro le labbra: «Figurati…»
Adesso non sappiamo cosa dire; non ci conosciamo neanche così bene, abbiamo in comune solo qualche ora sul terrazzo e, prima che succedesse tutto, degli incontri in ascensore. Siamo una casualità figlia della fine del mondo.
«Scusa, io non ho niente per te…»
È il mio momento di essere in imbarazzo. Rimedio prendendola di sorpresa, e stupisco anche me, perché mi faccio avanti e le bacio la bocca. Mentre lo faccio, solo una parte di me riesce a concentrarsi sulle sue labbra, che sono un po’ secche ma in fondo si fanno più morbide e umide, e sulla risposta del mio corpo; tutto il resto è teso a reprimere la pessima idea di saltarle addosso subito e qui. Mi beccherei una sberla e vedrei sfumare, forse per sempre, la mia speranza di farlo.
Mi prende alla sprovvista attirandomi a sé, e allora ci metto anche un po’ di lingua, credo si faccia così, forse siamo solo due disperati, solo due adolescenti che crescono nel momento storico sbagliato, ma lei mi sta baciando e le ho fatto un regalo idiota ma molto simbolico, e quindi cerco di non farle sentire che mi sto eccitando e la stringo a me, con le lucine tra le balle.
Un pranzo per salvare le apparenze e un limone sul tetto; per questo Natale mi accontento.

 

Questo racconto si è classificato primo al concorso Flan-Natale Story 2.

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