“Dio odia il Giappone” di Douglas Coupland

di / 2 marzo 2013

Dio odia il Giappone è un piccolo capolavoro. La storia del libro è ormai nota: Coupland lo scrisse tra il 2000 e il 2001, in giapponese e pensandolo esclusivamente per il mercato editoriale nipponico (l’autore canadese ha lavorato e studiato scultura all’Hokkaido College of Art and Design di Sopporo), e per oltre dieci anni non ne autorizzò altre edizioni, ritenendo che il solo fatto di tradurlo potesse minare alla base le ambizioni di un oggetto-libro pensato per un contesto culturale specifico e scritto servendosi di un assetto grafico e formale (la scrittura dall’alto verso il basso e da destra verso sinistra, tanto per dirne una) che a suo modo di vedere ne determinava anche la sostanza. Scorrendo l’edizione giapponese è facile dargli ragione, almeno in parte, riconoscendone l’originalità e l’unicità formale; ma non fino in fondo, perché leggendo l’edizione italiana (unica traduzione esistente) si capisce fin da subito di avere tra le mani, appunto, un piccolo capolavoro, rimasto per troppo tempo precluso dietro un’indecifrabilità fatta di ideogrammi e assenza di spazi.

Romanzo di formazione, ritratto di un Paese e di un’epoca (il Giappone della seconda metà degli anni Novanta) attraverso gli occhi di un diciottenne inquieto e spassoso, esplorazione narrativa di una Weltanschauung tanto malinconica quanto ossessionata dai propri fantasmi passati e presenti: sono soltanto alcuni dei lati che racchiudono la scrittura trapezoidale di Coupland, che si muove con agilità tra le maglie di un mondo e di una cultura da lui conosciuti fin troppo bene. Il protagonista della storia è Hiro Tanaka, un Holden Caulfield dagli occhi a mandorla che si barcamena tra aspirazioni, delusioni, sballi e amicizie. Con l’amico Tetsu condivide un appartamento alla periferia di Tokyo («lo soprannominammo Bubble Palace. Inutile dire che per colpa nostra quel posto diventò un porcaio; non per cattiveria, piuttosto perché sia io che Tetsu eravamo allergici ai lavori domestici»), vive un rapporto di amore-odio con la sorella Moriko, assiste triste e desolato alla fuga d’amore della compagna di classe Kimiko con il mormone Scott, combatte contro l’assenza-presenza dei genitori… ma, soprattutto, cerca qualcosa che si elevi al di là del presente desolato offerto dagli anni Novanta alla sua non-generazione: «E quelli come me, nati dopo il 1975? Lasciateci perdere. Ci riproduciamo, mangiamo e sempre più spesso uccidiamo. Tutti i legami tra noi e chi ci ha preceduto sono stati troncati». Sotto il velo psichedelico e allettante di rave party, ubriacature con gli amici e sessioni di consumismo sfrenato, aleggia infatti un vuoto fatto di lavoretti part-time, anaffettività e profonda solitudine: come l’antieroe salingeriano, Hiro è paranoico, turbato e insicuro, e proprio per questo, leggendone le disavventure, si entra fin da subito in empatia con lui, trovandolo divertente e avvertendo la parte più profonda di noi vibrare all’unisono insieme alla sua.

La chiave del romanzo – e di questo indimenticabile protagonista che lo attraversa come una mina vagante, lasciando il proprio inconfondibile segno in ogni cosa che pensa, dice e fa – è racchiusa nella frase d’apertura, dove Hiro dichiara: «Durante l’ultimo anno delle superiori, le tre ragazze più belle della mia classe hanno trovato la fede». Sebbene apparentemente venata di sarcasmo, nel corso della storia questa frase si libera via via delle scorie di cinismo che l’ammantano, rivelandosi infine carica di significato anche per lo stesso Hiro: se Kimiko, Kaoru e Rieko hanno “trovato la fede”, infatti, Hiro si agita e si muove nel mondo – come un pesciolino d’oro tra le correnti e i marosi di un mare infettato – alla “ricerca di un senso” da dare alla propria vita, al costante inseguimento di una via di fuga in grado di allontanarlo da quell’inconcludenza, mista a insoddisfazione e inquietudine, che riversa nelle lettere scritte a un immaginario Clone di se stesso (una delle trovate più originali del romanzo).

Al termine di un viaggio che lo conduce oltreoceano (a Vancouver, in Canada) alla ricerca di Kimiko, e poi di nuovo in Giappone – per scoprire e affrontare una verità tremenda e inquietante intorno alla vita dei propri genitori –, Hiro quel senso riesce finalmente a trovarlo, o perlomeno ne intravede le tracce oltre il fanatismo religioso, gli attentati e il collasso economico che inquinano un Paese (e forse il mondo) intero.

Ricco di invenzioni narrative, disseminato di una serie ininterrotta di sorprese e spiazzanti colpi di scena, abitato da personaggi di cui è difficile dimenticarsi, e narrato dalla voce di un protagonista al quale ci si affeziona fin da subito come a un fratello minore, Dio odia il Giappone – accompagnato dalle illustrazioni pop di Michael Howatson e tradotto da Anna Mioni – è sicuramente uno dei romanzi più interessanti degli ultimi anni, divertente e al tempo stesso profondo. Come Hiro scrive in una lettera indirizzata al suo Clone immaginario, una volta finito il libro di Coupland anche il lettore non può fare a meno di chiedersi: «Cosa spinge le persone a fare quello che fanno? Ci svegliamo la mattina, ci ricordiamo chi siamo e dove siamo e a volte dimentichiamo il giorno della settimana, oppure la stagione, e dobbiamo fare uno sforzo di memoria, ma prima o poi ci tornano in mente. A volte mi piace immaginare come potrebbe essere svegliarmi e non ricordarmi proprio nulla: chi o cosa sono, dove mi trovo e in che momento. Svegliarsi così mi costringerebbe a diventare nuovo. Mi costringerebbe a reinventare me stesso, che lo voglia o no».


(Douglas Coupland, Dio odia il Giappone, trad. di Anna Mioni, Isbn Edizioni, 2012, pp. 224, euro 9)

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