Oklahoma S.P.

di / 9 marzo 2013

C’è una luce diversa nello sguardo di Jack stamattina. Si vede da com’è entrato in ufficio, da come ha sorriso quando ha centrato l’attaccapanni con la giacca e da come mi ha salutato, unendo pollice e indice e alzandoli alla bocca per invitarmi a bere un caffè. Qualcuno una volta ha detto che l’essere umano si abitua a tutto, eppure io dopo dieci anni non mi sono ancora abituato a questo caffè che sa di piscio. Non mi sono abituato all’odore del disinfettante. Non mi sono abituato alla morte.
Mentre lavoriamo, Jack ogni tanto butta un occhio al comunicato che qualcuno gli ha lasciato sulla sua scrivania, poi si accarezza l’ingessatura e sorride. Sono lì già da qualche giorno quelle lettere scritte con il pennarello verde sulla piega del suo gesso, vicino al gomito. Qui a McAlester la vita è sempre difficile, e ultimamente per Jack lo è ancora di più, e non solo per l’incidente in cui si è fratturato il radio. Per questo vederlo sorridere è strano.
Sul braccio ingessato di Jack c’è scritto «Richie», e la erre è calcata più delle altre lettere. Richie era poco più di un bambino quando ha ammazzato il suo patrigno; quindici anni e mezzo, troppo pochi persino per bere alcolici qui in Oklahoma, ma sufficienti per condannarti a morte. Una morte ingiusta che metterà fine a una vita ancora più ingiusta, perché più della metà di quei quindici anni e mezzo Richie li ha trascorsi pregando un dio che non l’ha mai ascoltato. Li ha trascorsi pregando una madre alcolizzata che s’infilava quel bastardo nel letto senza chiedersi perché quello di Richie, di letto, fosse così spesso macchiato di sangue. E un giorno, stanco di pregare, Richie ha imbracciato il fucile e gli ha sparato un colpo dritto in mezzo al petto, a quel bastardo che lo violentava tutte le notti.
Qui a McAlester la morte è di casa, perché non sono solo le iniezioni a uccidere; anche su di noi pende una condanna. Siamo condannati a morire lentamente, ogni giorno che passa, portando negli occhi i loro ultimi passi, i loro ultimi sguardi, occhi talmente stanchi che non hanno nemmeno più la forza di chiedere giustizia.
Siamo condannati a sperare fino all’ultimo di vederli tornare indietro, ripercorrendo gli stessi passi, con sguardi diversi, con occhi diversi.
Siamo condannati a renderci conto che nessuno torna mai indietro. Nemmeno gli innocenti. Nemmeno quelli che sono colpevoli solo di non essersi rassegnati a una vita di merda. Quelli che hanno provato a cambiarla, quella vita di merda. Quelli come Richie.
E allora ti metti alla tua scrivania, davanti al tuo computer, e compili il tuo file con l’ennesimo nome di quell’ennesimo nessuno. È così che capisci quanto vale una vita: pochi passi, un’iniezione, un nome su un registro elettronico. E dieci minuti dopo nessuno si ricorda più di te, di chi sei stato, di chi saresti potuto essere se ci fosse stata un’altra giustizia.
E Jack non lotta più. Ormai è abituato a sedersi accanto alla morte, eppure con Richie è diverso. Loro hanno sempre avuto un legame speciale, forse perché sono entrati a McAlester insieme, diciassette anni fa. Forse perché Richie con quegli occhi grandi e quei capelli rossi gli ricorda suo figlio David. O magari perché Jack, nonostante si sia sempre dichiarato un fedele servitore del suo paese, si vergogna di rappresentare uno Stato che non vede che Richie è solo un ragazzino a cui è stata tolta la possibilità di diventare un uomo.
Ma oggi Jack sorride, e ormai ho imparato che se Jack sorride c’è un motivo valido. Forse dopo anni di appelli è finalmente arrivata la commutazione della pena per quel povero ragazzo, la cui unica colpa è di essere nato da una madre degenere.
E sul comunicato che giace sotto il gomito buono di Jack c’è scritto che la condanna a morte di Richard Evans, fissata per il 4 febbraio prossimo, è stata annullata. Jack sorride. Non dovrà mai fare quegli ultimi passi a fianco di Richie, non dovrà guardare la rassegnazione nei suoi occhi, non dovrà mai sperare di vederlo tornare indietro, non dovrà mai aprire quel maledetto file e compilare quel maledetto registro di morte con il suo nome. Perché Richie è morto, stanotte. Un infarto se l’è portato via, a trentatré anni.
La legge della natura è più giusta di quella dello stato di Oklahoma. E Jack lo sa, per questo sorride.

  • condividi:

Comments

News

effe

“effe – Periodico di altre narratività” numero dieci

“effe – Periodico di altre narratività” numero dieci

Archivio