“The Following” di Kevin Williamson

di / 8 maggio 2013

Cupo, violento, appassionante. Un serial con le qualità di un’opera cinematografica. Stiamo parlando di The Following, la nuova creatura di Kevin Williamson, già autore di thriller come So cosa hai fatto e Scream, ma anche di celebri serie tv, The Vampire Diaries e Dawson’s Creek su tutte. Non certo un novellino quindi. Ma andiamo con ordine.

L’idea originaria è quella di un thriller basato da un lato su un diabolico serial killer che sfrutta la moderna tecnologia, in particolare i social network (da qui ovviamente il titolo The following), per reclutare adepti pronti a uccidere e a sacrificarsi per la sua causa, dall’altro su un agente dell’Fbi che si trova sulla sua strada.

Perché il progetto prendesse concretamente forma ci sono voluti ben quindici anni. Il produttore ha infatti dichiarato di aver iniziato a lavorarci già ai tempi di Scream, riprendendo in seguito alcune delle idee non sfruttate per Scream 3, per dare forma al nuovo serial. Dopo l’interessamento di molteplici network, il progetto di Williamson è approdato infine su Fox Tv. Negli Usa il pilot è andato in onda nel gennaio di quest’anno con ottimi risultati d’ascolto riuscendo a raggiungere oltre dieci milioni di spettatori e un rating di 3.1 nell’importante fascia d’età compresa fra i 18 e 49 anni (il rating è la percentuale di ascolti calcolata su una determinata fascia d’età), mentre per quanto riguarda l’Italia è visibile da marzo sia su Sky che su Mediaset Premium.

Il lavoro, giunto ormai quasi alla fine della messa in onda della prima stagione (è stato reso noto che verrà rinnovato per una seconda), pare di indubbia qualità anche se non privo di alcuni difetti, comunque decisamente inferiori ai numerosi meriti. I fattori che sono alla base degli ottimi ascolti (sebbene negli Stati Uniti siano andati progressivamente calando) ma anche di un giudizio generalmente positivo da parte della critica d’oltreoceano sono molteplici. Su tutti va segnalata l’eccellente prova del cast, fra cui certamente spiccano le interpretazioni di James Purefoy, perfettamente calato nella parte del killer Joe Carrol, e di Kevin Bacon (per la prima volta coinvolto in un progetto televisivo e non cinematografico), in quella del tormentato agente dell’Fbi Ryan Hardy. Altro merito indiscutibile del serial è che la trama (alcune recensioni hanno fatto notare che la storyline altro non è che l’eterna lotta fra bene e male) riesce a non scadere nel cliché grazie ai continui colpi di scena (i serial killer seguaci di Carrol sono infatti dappertutto, magari insospettabili colleghi o vicini di casa premurosi) e alla complessità dei personaggi. Ogni puntata, sfruttando ben ponderati e mai eccessivi flashback, permette infatti di scoprire qualcosa in più sul passato delle persone coinvolte nella vicenda. I cattivi, inoltre, non vengono tratteggiati in maniera superficiale ma la loro psicologia, nella dinamica della storia, è fondamentale. È il loro passato, del resto, che li ha portati a seguire questo moderno Charles Manson che è il killer Joe Carrol. Un uomo capace di sfruttare le loro insicurezze e debolezze così come il loro desiderio di trovare una causa per vivere (o per morire), per creare una setta pronta a tutto per lui. Persino le dinamiche all’interno della setta sono tutt’altro che banali. Allo stesso tempo anche l’agente Ryan Hardy e la sua collega Debra Parker, esperta di culti religiosi, hanno un passato che li tormenta e dal quale non riescono a liberarsi. Insomma niente appare così scontato e già scritto.

La violenza, a differenza di quello che ritengono alcuni critici, non pare eccessiva, soprattutto se rapportata con quanto già si vede di solito in tv, in particolare nelle serie del genere crime. No, dunque. Il problema non sono né una trama banale né scene troppo cruente. Quello che piuttosto risulta essere affrontato in maniera abbastanza approssimativa (come fa notare giustamente la Repubblica che a sua volta riprende una dura analisi del Time) sono le sequenze in cui gli agenti sono impegnati nel dare la caccia alla setta. Non è tanto il fatto che le forze dell’ordine arrivino sempre un attimo dopo l’ennesimo rapimento o omicidio (in effetti il killer ha progettato le sue azioni da anni e ha in mente un piano ben definito da portare a termine), quello ci può stare. Quello che non va sono però tutti quei grossolani errori che le autorità compiono ripetutamente, come non proteggere a dovere alcuni testimoni o probabili vittime o recarsi in possibili rifugi della setta in coppia piuttosto che in gruppo. È come se gli autori, una volta concentratisi sulle fondamentali dinamiche psicologiche abbiano completamente tralasciato la qualità e la complessità delle scene d’azione che, seppur non centrali, avrebbero comunque potuto rendere eccellente un già di per sé ottimo lavoro.

Unico auspicio è che la serie non superi le due stagioni di messa in onda. Alla lunga molto pathos potrebbe andare perduto e l’attenzione del pubblico calare.

Certo è che per noi italiani, abituati a vedere improbabili carabinieri con il volto della Marcuzzi o della Arcuri, o ancora poliziotti interpretati da Max Giusti ed Enrico Silvestrin, la qualità di un’opera come The Following risulta essere ancora irraggiungibile.
 

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