“La conta delle lentiggini” di Flavia Ganzenua

di / 5 giugno 2013

Premessa: rispetto all’inevitabile trionfo del digitale, l’amatissimo libro cartaceo ha probabilmente una sola possibilità di futuro: consistere come oggetto a suo modo “artistico”. Naturalmente non pensiamo a un modo truffaldino per sopperire alla trascurabilità del testo scritto con una grafica accattivante (non sarebbe una novità), ma a qualcosa di più significativo della mera gradevolezza: un progetto estetico pensato nei dettagli che faccia a gara con il testo per aspirare a una qualche memorabilità. Come prova a fare CaratteriMobili con la collana di letteratura italiana contemporanea “Gli incendiati”, la cui seconda uscita è La conta delle lentiggini di Flavia Ganzenua.

Se c’è un orizzonte privilegiato entro il quale guardare il suo materiale narrativo direi che è quello biologico: dell’indistinto remoto (ma qui in una prospettiva rovesciata) di cui prese a vagheggiare a un certo punto della sua vita il contino di Recanati. Che intuì – genio italico senza paragoni della modernità – che solo nella mera vita biologica poteva accamparsi un residuo non proprio di felicità ma almeno di sottrazione del dolore. I personaggi di Ganzenua non aspirano a tanto; anzi, paiono persino cercarseli certi acuti supplizi (fisici e non). Eppure.

Lo scacco di Leopardi indizia – va da sé – una tregua dal carattere agonistico che presto o tardi lo (ci) farà soccombere; qui invece la spinta verso l’indistinto preculturale non è acquisizione razionale – e nemmeno supponiamo deliberata scelta poetica dell’autrice – ma un più o meno inconsapevole quanto cercato, e persino accanito, destino di corpi che confliggono (e a volte si confondono) con la pelle altrui: la desiderano e la combattono insieme ma – ed è questo che conta – ciò accade senza filtri o convenzioni. Sono corpi vivi, segnati spesso da ferite e cicatrici, tutt’altro che pronti al sonno profondo che la fisiologia leopardiana richiama come esito agognato. Qui casomai interferisce ancora la spuma del sogno: non nettamente separabile dalla “realtà” e, come ognun sa, ancora desiderio. E però si tratta di un desiderio senza steccati e nemmeno separa deciso lo spazio del piacere da quello del dolore. L’indifferenziazione ancestrale appare come una pulsione, l’istinto di far saltare qualsiasi confine alla vita del corpo. Esso si lega a quello altrui in una pasta di odori e secrezioni che sembra cercare nella “realtà” quello che Siti chiamerebbe l’impossibile. E che trova un omologo letterario in queste storie dove i pronomi personali e le voci narranti si confondono, non a caso, in un’osmosi sensoriale nervosa, drammatica, così come si aggroviglia la linea del tempo, lo spazio immaginato e quello dei “fatti”. Rispetto a tutto ciò, uno scarto tagliente getta una luce obliqua sui personaggi del libro (perlopiù femminili): la percezione di uno scollamento che in certi casi smembra corpo e psiche, li costringe a una nostalgia mai sdilinquita e nemmeno esibita ma sotterraneamente irriducibile. Verso cosa? Verso un’unità che non può pascersi nelle ragioni del bene e del male, perché orchi cattivi e fate turchine convivono nello stesso impasto originario.

(Flavia Ganzenua, La conta delle lentiggini, CaratteriMobili, 2013, pp. 72, euro 10) 

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