“Il giornalista” di Miriam Mafai

di / 2 luglio 2013

Voi che vi siete iscritti a Filosofia, ma poi ci avete ripensato, decidendo di studiare fisica; voi che avete abbandonato Fisica, appassionandovi all’archeologia, e vi siete iscritti a Scienze Politiche perché il medico, intanto, vi ha diagnosticato un’allergia rinitica agli acari della polvere; voi che da Scienze Politiche siete passati a studiare il greco antico perché avete letto Filologia e libertà di Luciano Canfora, partecipando, per l’esame complementare di Linguistica, alle lezioni di Luca Serianni, che però vi hanno innamorato a tal punto da offuscare l’interesse per il greco; ecco, voi potete considerarvi fortunati: voi siete gli eletti, i pochi che hanno ricevuto la chiamata; siete i soli che potranno intraprendere una carriera, senza il timore di sbagliare strada: voi siete giornalisti nati.

Lo suggerisce Miriam Mafai nel suo breve saggio intitolato Il giornalista. Il libro, già pubblicato da Laterza nel 1986 e ripubblicato lo scorso aprile da edizioni Ensemble per ricordare l’autrice a un anno dalla sua scomparsa, raccoglie riflessioni attualissime sul mestiere del giornalista, aneddoti legati alla carriera di Miriam Mafai e consigli agli aspiranti.

Nello stilare l’elenco delle doti richieste a chi fa questo lavoro, Miriam Mafai registra «una naturale tendenza alla produttiva superficialità», vale a dire il «sapersi appassionare a un argomento per breve tempo, scriverne e dimenticarlo subito dopo». Parlando della questione palestinese, l’autrice afferma: «Non sono mai diventata uno “specialista” della questione (la mia incostante curiosità mi impedisce di diventare specialista di alcunché)». Non a caso pone la curiosità come dote essenziale, che si possiede per natura e non si può in nessun modo imparare: «Lo scrivere si impara. Ciò che non si impara, e che mi sembra soprattutto necessario, è una grande curiosità».

Nel pamphlet non manca il racconto appassionato della sua carriera; fu memorabile il giorno in cui, un po’ per caso, da funzionario di partito diventò corrispondente da Parigi per Vie Nuove, settimanale del Pci: «Il mio primo servizio per Vie Nuove fu una cronaca sulla visita a Parigi della regina Elisabetta. Fu un autentico disastro […]. Solo allora mi resi conto che stavo cambiando mestiere e che dovevo impararlo». La Mafai prosegue con il passaggio all’Unità come redattore parlamentare, poi a Noi donne come dirigente, fino al lavoro di inviato per Paese Sera: «Ho sempre amato molto i giornali in cui ho lavorato, ma me ne sono sempre allontanata senza sofferenza. La monogamia può essere una scelta della propria vita sentimentale, la capisco meno nella vita professionale. Viene il momento in cui si sente il bisogno di conoscere altra gente, di misurarsi con altri impegni».

Quando Scalfari la chiamò per far parte della redazione di un nuovo giornale, La Repubblica, il «vascello pirata», come lui stesso lo definiva, Miriam Mafai non se lo fece ripetere due volte; così si ritrovò l’1 gennaio 1976 alla prima assemblea di redazione: «Reduci dalla montagna, da Capri o da un cenone, passammo assieme il primo giorno dell’anno nuovo a preparare il numero zero della Repubblica. Eravamo a Roma, una cinquantina, tra cui alcuni ragazzi che non avevano mai lavorato in un quotidiano».

Tuttavia, Miriam Mafai non nasconde la sua preoccupazione per il futuro di questo mestiere: l’uso delle nuove tecnologie potrebbe trasformare il giornalista da avventuriero randagio, affamato di storie, in un compilatore di informazioni, entro il perimetro fumante dell’ufficio di redazione: «Un giornalista al videoterminale è ancora un giornalista in senso stretto, è ancora un professionista, o tende, inevitabilmente, ad assumere un altro ruolo e a trasformarsi in un tecnico, per quanto qualificato, della comunicazione?»; «E se l’arrivo del calcolatore preparasse lo scivolamento della nostra categoria dal mondo felice e disordinato dei “creativi” al mondo grigio e disciplinato degli “amministrativi”?».

La schiettezza e l’amore per il vero, la repulsione per la retorica che caratterizzano le sue prose giornalistiche, emergono con forza quando l’autrice dà consigli spassionati agli aspiranti giornalisti: «Le porte dei giornali si aprono solo dall’interno: è inutile bussare o dare spallate se non c’è qualcuno da dentro che socchiude almeno uno spiraglio. Per questo si dice tra di noi che il primo consiglio da dare a un giovane che voglia fare il giornalista è di nascere figlio di giornalista o figlio di un amico di un grande giornalista».


(Miriam Mafai, Il giornalista, Ensemble, 2013, pp. 62, euro 10)

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