“Hey Saturday Sun” di Hey Saturday Sun

di / 7 ottobre 2013

Se siete alla ricerca di qualcosa che, tra le ultime uscite per le etichette indipendenti, si stagli decisamente rispetto al resto, non posso esimermi dal consigliarvi Hey Saturday Sun, lo sfaccettato album d’esordio del musicista umbro Giulio Ronconi, in arte Hey Saturday Sun. Un discoche incuriosisce e sorprende per diverse ragioni, a cominciare dalla seducente copertina verosimilmente evocativa di quel senso di lontananza, fragile quiete, ambigua (poiché a volte distesa e incoraggiante e altre tristemente presaga) vastità che sembra pervadere buona parte del disco – con i verdi acidi a dominare la scena e a contrapporsi al “realismo” della rappresentazione, così come sul piano musicale strumenti classici e qualche effetto dal sapore “naturalistico” vengono accostati a sonorità più marcatamente artificiali ed elettroniche.

La sua musica, disvelatrice appunto di ampi spazi aperti, si nutre di suggestioni volutamente incompiute che sfumano spesso delicatamente ma allo stesso tempo radicalmente l’una nell’altra, per un approccio che sembra più interessato ad alludere che a precisare, a suggerire piuttosto che a dire.

Prendendo in prestito un termine dal linguaggio cinematografico, credo si possa infatti affermare che l’uso insistito della dissolvenza incrociata sia uno dei tratti distintivi di Giulio Ronconi, che nel servirsene riesce a connettere con creatività passaggi che sembrano a volte appartenere a brani totalmente distinti – quasi fosse l’operatore d’un furtivo occhio di bue focalizzato giusto per un istante su un certo scenario, appena il tempo di adombrarne i caratteri, e poi virato rapidamente verso nuovi e ancora una volta soltanto accennati orizzonti.

Ciò è rintracciabile già in “Pulsewidth.noise”, il cui attacco è affidato a un efficace giro di basso al quale fa presto eco una sorta di tagliente ventata marina, col tessuto sonoro che rapidamente si infittisce per l’introduzione di un arpeggio di chitarra, un “micro-solo” di un’altra e sparute e tenui note di tastiera. L’atmosfera ariosa e incantata si intensifica quindi ulteriormente poiché incoraggiata, tra le altre cose, da armonie d’archi e un dolce e semplice motivo ancora una volta eseguito alla tastiera; si giunge così al breve, soave e un po’ nenioso cantato a due voci (una maschile e l’altra femminile) che in qualche modo segna una netta cesura nel pezzo e a cui fa seguito quella già nominata dissolvenza incrociata che, in questo caso, apre il campo a un piano indugiante, sottilmente drammatico e vagamente misterioso, i cui accordi sembrano risuonare come da lontano.

L’incedere temporeggiante e sentimentale della prima parte di “Silent Kids” è invece tutto giocato sul dialogo tra il piano ed evanescenti sonorità di sottofondo, prima dell’improvviso e imponente ingresso di un’elettronica caotica, ascendente, lirica e quasi trionfale, condita di insistenti fruscii e combinata a una voce pressoché impalpabile, smarrita in un amalgama sonoro nel quale sembra dimenarsi per arrivare infine a essere percepibile, il tutto sotto i suggestivi colpi di percussioni scarne, schioccanti e cariche di delay.

“The Other City” è poi un brano dalle tinte soffuse e discrete, il cui motivo cantilenante fa da accompagnamento all’acuta, aggraziata e rapita voce femminile, variamente modulata e trasformata a un certo punto, a suon di massicci effetti, in una sorta di fiabesco ululato. Qua e là si rispondono cauti rumori, remoti bisbigli di tastiere, scintillii ai limiti del pudico, inserti elettronici dal timbro rotto e dalla melodia un po’ stonata e infine sobrie e iper-riverberate chitarre, per una composizione intima il cui senso di quiete quasi ultraterrena è solo lievemente scalfito da una vaga malinconia soggiacente, puntellata forse dal piano a cui spetta, ruolo non inusuale in questo lavoro, il compito di chiudere il pezzo ribadendo a suo modo il motivo che lo percorre tutto.

“Liric” è una breve creazione che, almeno nelle sue prime battute, potremmo forse definire alla Nyman, in cui un piano inquieto e non privo di trasporto viene accompagnato da una chitarra appena avvertibile, finché uno stridulo e squillante ronzio di synth non rende più straniante e concitato l’intero clima, sfumando infine in una specie di ondata che col suo infrangersi decreta la conclusione del brano stesso.

Segue quindi l’elettronica gioviale e persino ballabile di “Lullaby 1”, la cui sezione ritmica, estremamente fluida, è affidata a un basso marcatamente “synth pop” e una drum machine vagamente “glitch-oriented”; dominano una spensieratezza e una “positività” che, in una forma così intatta, sembrano assenti nel resto dell’album e la mente (almeno quella del sottoscritto) si popola ben presto d’immagini di concilianti vedute panoramiche in soleggiatissime giornate primaverili; voci femminili si rincorrono e rispondono all’interno di un tessuto sonoro che, come spesso accade, è denso e caratterizzato dalla presenza di tastiere limpide e trasognate.

Hey Saturday Sun fa quindi mostra di spiccata ironia con l’intro di “1.9.8.9”, in cui la voce di Pippo Baudo ci regala una forse inaspettata (da parte sua) affermazione sulle imprescindibili virtù della tecnologia musicale («Come potremmo vivere senza sequencers?»). Tale ironia viene però bruscamente interrotta dalle sofferte note del piano e da una voce maschile fortemente effettata, prima che il tutto acquisti energia e dinamicità – assumendo una veste marcatamente dance – grazie ai colpi d’una cassa dritta e di un basso ludico e punzecchiante in pieno stile Pet Shop Boys, gruppo che del resto la canzone nella sua interezza pare proprio voler omaggiare; l’atmosfera è eterea e sognante e un indecifrabile ottimistico anelito sembra fondersi magicamente a un’ispirata seppur non rassegnata malinconia.

Si arriva così al Nu gaze un po’ onirico di “Museum of Revolution 1”, uno sfavillio di chitarre riverberate, dolcissime tastiere e frastagliati brusii sintetici, in un inquieto ma al tempo stesso trattenuto crescendo che sfocia infine, sottolineato dai battiti d’una batteria incentrata sul regolare impiego di cassa, piatti e rullante, in un cantato speranzoso che sembra echeggiare senza posa tra nebbiose vallate.

Al paesaggio vagamente “sotterraneo” tratteggiato all’inizio di “Museum of Revolution 2” fa poi seguito, grazie al solito dosato gioco di dissolvenze, un arpeggio di chitarra che costituirà di lì a breve l’accompagnamento alla melodia di un’altra (acustica), melodia che nella sua elementarità è forse, con quel sapore lontanamente orientaleggiante, una delle più accattivanti dell’intero album – benché a ogni modo l’estrema disinvoltura e prolificità nel concepire linee melodiche che fanno fatica ad andarsene dalla testa sia a mio avviso un’altra delle spiccate peculiarità di Hey Saturday Sun. Sullo sfondo, suoni a metà tra il subacqueo e il cosmico arricchiscono le maglie di una composizione che sfuma quindi in un tripudio di schitarrate post-rock, sul cui tappetone noise si stagliano il pianoforte e una batteria tuonante; il finale è ancora una volta affidato a un piano riverberato che ribadisce a mo’ di congedo la melodia precedentemente eseguita dalla suddetta chitarra.

Il sound ipnotico della prima parte di “Swine Flu Shot” è costituito da gravi accordi di synth su cui si innestano confuse registrazioni vocali, delicate tastiere e infine un arioso e sgargiante motivo la cui pasta timbrica ricorda quella di sirene spiegate; la seconda e decisamente pittoresca parte, è invece la riproposizione di uno spot statunitense di metà anni ’70 sull’influenza suina (da cui appunto il titolo del pezzo), spot che, a detta dello stesso Ronconi, affronta tale tematica con quel tono amorale, malato e al contempo scanzonato così tipico della cultura americana.

Arriviamo infine, senza quasi accorgercene, a “Lullaby 2”, stringata e insolita fatica che inizia con quello che potrebbe essere il rumore di una palla da biliardo che cadendo a terra si mette a ruzzolare; seguono scarni accordi di piano accompagnati da sonorità celestiali e un po’ cantilenanti, fino all’esasperarsi di interferenze che finiscono come per mandare in tilt il pezzo stesso, il quale si dissolve allora in brulicante pulviscolo digitale, a ulteriore e conclusiva testimonianza di un certo eclettismo del musicista ternano, che suggella appunto, con una cifra marcatamente elettronica, un prodotto che sembrava in principio aver preso le mosse, lo abbiamo visto, da un intento quasi “veristico”.


(Hey Saturday Sun, Hey Saturday Sun, Stupid Alien Records/Somnolabel, 2013)
 

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