[RomaFF8] Giorno 4: “Sorrow and Joy”, “Quod erat demonstrandum” e “Stalingrad”

di / 12 novembre 2013

In Concorso ufficiale arriva il dramma della depressione e della perdita di una neonata nel danese Sorg og glæde/Sorrow and joy.

Quando Johannes torna a casa dopo una conferenza fuori città trova ad attenderlo i suoceri. Sua moglie Signe non è lì, neanche la figlia di sei mesi, Maria. Il fatto è che Signe ha ucciso Maria, l’ha sgozzata con un coltello da cucina. Era depressa, e Johannes lo sapeva, per questo aveva chiesto alla suocera di stare con lei. Dal dramma della figlia persa, Sorrow and Joy si trasferisce presto alla ricerca delle ragioni della depressione. Attraverso un lungo flashback, Johannes espone allo psichiatra forense la storia del suo rapporto con la moglie fino al giorno della morte di Maria. Emerge un marito che impone la propria personalità e visione del mondo a una donna innamorata che non ha strumenti per difendersi. Signe è una persona fragile con un passato e una storia familiare di disordini psichiatrici. Era affascinata da Johannes, famoso regista cinematografico, prima ancora di conoscerlo. La realtà della vita insieme le ha fatto scoprire quanto il lavoro occupi quasi la totalità del suo tempo, quanto la sua pretesa di controllo non coincida con la presenza. L’uccisione della figlia diventa un ultimo, disperato, tentativo di attirare l’attenzione, come una specie di disperata Medea.

Nel ricostruire la storia di un dramma, oltretutto che attinge ampiamente dalle sue vicende personali, il veterano del cinema danese Nils Malmros contamina registri, metacinema e ironia nelle parti dedicate al lavoro di Johannes sul set, un po’ Truffaut in Effetto notte, e al mondo dei festival (Berlino, Cannes). Quando si concentra sulla trama principale, il sentimentalismo prevale, ma è sterile: non riesce a creare tensione emotiva o drammatica e l’esposizione del dolore finisce per essere didascalica, mortificata da dialoghi deboli e ripetitivi.

 

 

Sempre in Concorso il regista Andrei Gruzsniczki conferma il buono stato di salute del cinema rumeno con Quod erat demonstrandum. Siamo nel 1984, la Romania è sotto il regime comunista di Ceausescu. Sorin è un matematico che vede frustrate dal partito le sue aspirazioni. Ha trentacinque anni e ancora non ha ottenuto il dottorato. Le sue ricerche, per quanto all’avanguardia, non vengono prese in considerazione per la pubblicazione. Allora decide di rivolgersi, illegalmente, all’estero. Un suo studio viene pubblicato da una rivista americana grazie a un suo amico rimasto clandestinamente in Francia dopo una conferenza. Su quell’articolo indaga la Securitate, i servizi segreti di stato, proprio mentre Sorin si rivolge a Elena, la moglie dell’esule, per portare fuori dalla Romania altre ricerche approfittando della legge per il ricongiungimento familiare.

Girato in un bianco e nero rigoroso con una predominanza netta di interni, Quod erat demonstrandum rende l’idea del controllo e del rigore che vigevano a Bucarest negli ultimi anni del comunismo. Guarda senza nascondersi a Le vite degli altrinel riprendere l’idea del lato umano dell’agente segreto che osserva gli altri, con la differenza che qui l’agente Voican ha una vita da difendere, un divorzio da affrontare, una carriera che non riesce a procedere.

Gruzsniczki, alla seconda prova, mostra una stile personale fatto di geometrie e campi lunghi che rivelano una certa consapevolezza degli spazi. La scelta del bianco e nero contribuisce a rendere l’idea dell’atmosfera mortificante dell’epoca ma certo appesantisce anche.

 

 

Presentato fuori concorso Stalingrad del regista Fedor Bondarchuk, primo kolossal russo prodotto in 3D in formato IMAX, forte di un budget di trenta milioni di dollari.

Siamo nel 1942 e l’inferno è a Stalingrado. Un manipolo di soldati russi rimane accerchiato in una casa in mezzo alla città ormai quasi totalmente rasa al suolo. Tra invasori e perseguitati, l’uomo ha perso tutta la propria dignità. I cinque soldati della gloriosa Armata Rossa incontrano una giovane donna che decidono di difendere da tutto, in un ultimo rantolo di umanità, come fosse l’incarnazione stessa di Stalingrado.

Un assunto interessante che non riesce in alcun modo a svilupparsi. Una confusione di generi che presto si vengono a sovrapporre, definendo più che un kolossal, un polpettone propagandistico che sa tanto di patchwork forzato, con tanto di primi piani alla spaghetti western, battaglie truculente che si rifanno ai più disparati generi d’azione e scontri frontali tra soldati girati al rallentatore quasi alla Matrix. Nonostante un cast di discreto livello, con Thomas Kretschmann come protagonista, la nota e attraente modella russa Yanina Studilina, e ancora Petr Fedorov e Maria Smolnikova, la recitazione è melensa, con personaggi che non troverebbero riscontro in nessuno dei grandi classici delle letteratura russa, e, ovviamente, in un’ottica manichea da guerra fredda, la rappresentazione del nemico tedesco è quasi infernale.

Il risultato è un bel polpettone di due ore e un quarto. È un paradosso, ma il film sembra proprio un filmaccio storico americano incapace di rendere il senso di tragedia del fatto raccontato. Una pellicola che non trasmette alcun pathos e nessuna possibile considerazione su fatti che sono stati reali e hanno inciso profondamente sul destino dell’umanità. Sul piano del puro spettacolo funziona. Gli effetti speciali sono strepitosi e potenti, gli applausi sono venuti unicamente da quella parte della platea che ama i film di guerra che non risparmiano particolari truculenti. Ma in questo modo, ancora di più, tutto viene a banalizzarsi in una mal riuscita operazione di marketing, che la Russia post-Muro tenta di perseguire con la voglia di americanizzarsi alla ricerca finora vana di una propria Hollywood.

 

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