[RomaFF8] Giorno 8: “Tir”, “Volantin Cortao” e “Another Me”

di / 16 novembre 2013

Ultimo film italiano in Concorso ufficiale, Tir, primo lungometraggio di finzione di Alberto Fasulo, già autore del pluripremiato documentario Rumore bianco, è interessante più per l’idea e le modalità di produzione che per la sua realizzazione.

Girato tutto intorno al tir del titolo, il film di Fasulo è stato realizzato interamente sulla strada con il regista (anche direttore della fotografia e operatore di macchina) che ha vissuto in cabina con i protagonisti e due fonici. Branko Zavr šan, già visto in No man’s land, ha guidato personalmente il camion dopo aver preso la patente ed essersi fatto assumere da una ditta di trasporti. La particolarità sta proprio in questo: il lavoro che svolge è un lavoro vero, la vera attività e la vera vita di un camionista che viaggia per tutta Europa.

A parte questo, però, c’è poco altro. L’istanza di realismo di cui il film si fa portatore non riesce a conciliarsi con il formato ibrido tra il documentario e il film vero e proprio adottato da Fasulo. Per novanta minuti si seguono Branko e il suo copilota Maki (camionista vero che recita il ruolo del camionista) lungo le autostrade e i centri di consegna e carico merci. Nel frattempo ci sono le loro telefonate a casa, i loro pasti a bordo camion, le loro considerazioni sul mestiere. Branko ha lasciato la Croazia e il suo lavoro di insegnante per guadagnare di più e mandare più soldi a casa. È convinto della sua scelta, il modo migliore per assistere la sua famiglia. Maki odia il lavoro, invece, e non aspetta altro che un pretesto per mollarlo.

Girato negli spazi ristrettissimi della cabina, giocando con i riflessi dei retrovisori e la ridottissima profondità di campo, Tir vorrebbe essere un ritratto di un lavoro duro e alienante, che spinge sempre più lontani da casa e dagli affetti. Riesce a essere, invece, solo un film lento e ripetitivo, sempre a rischio di cadere nella retorica del duro lavoro e della sua scarsa considerazione.

 

 

Un delizioso lungometraggio, Volantin Cortao, dei poco più che ventenni registi cileni Annibal Jofré e Diego Ayala, è stato presentato in Concorso all’ottava edizione del Festival Internazionale del Film di Roma, 2013. Un ritratto giovane e fresco del Cile e del suo tessuto sociale, tra ipocrisie, povertà e modernità sempre più fagocitante. Il film racconta la storia di Paulina (l’incantevole attrice Loreto Velasquez) tra paure e ambizioni, ma soprattutto insoddisfazioni per un qualche cosa che ancora non riesce bene a comprendere e definire, che rendono la sua quotidianità monotona e insensata. Lavora presso una struttura statale dedita al reinserimento giovanile, nel quartiere di La Cisterna, a Santiago del Cile. Un centro che si erge su una linea immaginaria di confine tra il mondo borghese e benestante a cui Paulina appartiene e quelle favelas della periferia da cui tanto è attratta. Proprio qui, Paulina incontra Manuel (René Miranda), delinquente costretto a frequentare il centro giovanile per una ipotetica, ma molto incerta, riabilitazione. Manuel, di fatto, viene a rompere la monotonia e la routine di Paulina. Dapprima la scoperta di un’amicizia, un po’ fredda, che lentamente riesce ad annullare le distanze. Rapidamente i sentimenti sbocciano nitidi e intensi, dando la possibilità ai due giovani amanti di farsi forza per affrontare il mondo circostante.

Un film giovane, fatto e recitato da giovani, Volantin Cortao, capace di conquistare una platea ampia. Il lungometraggio di Jofré e Ayala offre delicati spunti di riflessione, definendo un ottimo spaccato della società cilena, poi non così distante dalla realtà di casa nostra. Telecamera in mano, alle volte esitante, ma sempre delicata e mai invasiva, i due registi hanno saputo magnificamente riprendere gli sguardi appassionati e timidi di due giovani alle prese con i veri dubbi e gli ostacoli che la vita interpone con la felicità stessa.

 

 

L’ultimo film a partecipare in Concorso ufficiale è, senza dubbio, il più insignificante tra tutti i titoli selezionati per questa ottava edizione. Per ridurre il giudizio a una sola parola non si potrebbe andare molto distanti da imbarazzante. Perché Another Me di Isabel Coixet non riesce a essere nulla. Nasce come thriller paranormale declinato in chiave scolastico/adolescenziale, si sviluppa come riflessione sul tema del doppio per morire infine come il più banale dei film dell’orrore.

La protagonista, Fay, è una ragazzina che ha visto la sua normalità quotidiana devastata dalla malattia del padre, una sclerosi multipla diagnosticata mentre erano tutti insieme in vacanza. Da quel momento sono cambiate molte cose. La madre ha iniziato a passare sempre meno tempo in casa, probabilmente dietro a un altro uomo, Fay ha iniziato a sentirsi osservata, seguita, mentre incubi in cui vedeva se stessa fuori dal suo corpo hanno iniziato a rovinarle le notti. Sembra che qualcuno si spacci per lei, forse è Monica, una compagna del corso di teatro gelosa del ruolo di Lady Macbeth.

Il modo in cui si sviluppa la trama è di una banalità sconfortante. Prova un po’ a fare Il cigno nero, Isabel Coixet, che si scrive anche la sceneggiatura, ma non ci si avvicina neanche, annaspando tra idee confuse, ripetitive e totalmente sprovviste di originalità. Nei momenti in cui vorrebbe creare tensione prevale il ridicolo, il superficiale, l’incongruo. Eppure Coixet era stata autrice di titoli apprezzati, come La vita segreta dele parole o Lezioni d’amore. Con Another Me si rassegna a un teen movie da brividino pomeridiano in multisala, niente di più.

Un repertorio di ovvietà e frasi fatte nella sceneggiatura penalizza un cast in teoria di buon livello (Rhys Ifans, Jonathan Rhys Meyers, Geraldine Chaplin, Claire Forlani e Sophie Turner, tra i protagonisti di Game of Thrones). La domanda che bisogna farsi è come mai un film del genere sia stato preso in considerazione per una rassegna cinematografica.

 

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