“Romanzo viennese” di David Vogel

di / 10 aprile 2014

Durante i primi anni del secolo scorso (un mondo che l’editoria italiana sta in questi mesi riscoprendo, probabilmente per via del centenario della Grande Guerra, con alcuni libri bellissimi – due fra tutti: 1910. L’emancipazione della dissonanza di Thomas Harrison e 1913. L’anno prima della tempesta, di Florian Illies) un tale di nome Rost, ebreo giovanissimo, decide di mollare il suo paese natio e approdare nella capitale dell’impero. Lì s’imbatte in una varia umanità; c’è andato per quello, per conoscere il mondo, fare esperienza: in una parola vivere. Non che abbia difatti in mente qualcosa come un percorso di formazione alla fine del quale trovare un ubi consistam; ma dove potrebbe andare un ragazzo che dalle periferie orientali vuol conoscere il mondo se non a Vienna? Non avendo molti mezzi, ovvio che incontri per lo più emarginati, prostitute, artistoidi, teatranti, apocalittici fumosi e scansafatiche assortiti. Che passano il tempo bevendo o chiacchierando. Mettendo insieme nelle loro fratte conversazioni il cielo e la terra, l’infimo e il sublime. Rost vive così, rimediando alloggi casuali e accumulando incontri e storie. Intorno, una città decadente e lussuosa.

Rost è un personaggio inventato ma è il protagonista di un romanzo che se non si può propriamente definire di formazione (né di intreccio, va da sé) è molto autobiografico. Il suo autore si chiama David Vogel, è noto per i lettori italiani sostanzialmente per il libro adelphiano Vita coniugale. Questo Romanzo viennese (Giuntina, 2014) invece è il risultato di una scoperta recente in quel di Tel Avivdovuta alla ricercatrice Lilach Netanel. Manoscritto – in ebraico – perduto e inconcluso, bisognoso di correzioni e revisioni, fatto soprattutto di parole e desiderio ma esemplare a suo modo di un mondo, quello di primo Novecento: dove tormento e disincanto insieme sono persino una malattia. L’oltranza vitalistica (se non intendi fare la guerra e non credi né a dio né a Marx) si annichilisce per consunzione ludica. Il piacere sconfina sempre con un senso di fine imminente; Klimt e Schiele ne sanno qualcosa.  Benché dal suo arrivo nella grande città che ha prodotto probabilmente la cultura europea più affascinante di quegli anni, Rost trovi il modo di farsi notare, di combinare qualcosa che non passa senza clamori (amare moglie e figlia sedicenne di un uomo, losco la sua parte, che ha avuto l’imprudenza di ospitarlo), alla fine non sembra cambiato granché. Ché sapere di dover fare i conti con ciò che si è, con ciò che (non) si è fatto, non assicura alcuna garanzia di successivo cambiamento.

Un erotismo crudo e fragile è la chiave dunque della storia ma pare anche della vita dell’autore, ebreo di Satanov (Podolia)  morto probabilmente ad Auschwitz. Una tetra e a volte gelida disperazione intona le sue pagine, non di rado desunte dai propri diari. L’apparente girare a vuoto dei personaggi non sembra però un limite dello scrittore ma (al netto di qualche tratto ripetitivo da emendare, ma lo scrittore non ne ebbe il tempo) al contrario, la fedele rappresentazione di un clima, di un’epoca inquietante ma di immutata fascinazione.

(David Vogel, Romanzo viennese, Giuntina, trad. di Alessandra Shomroni, 2014, pp. 272, euro 16,50)

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