“Acqueforti di Buenos Aires”
di Roberto Arlt

di / 29 ottobre 2014

Di Roberto Arlt, ultimamente, si sta dicendo davvero tanto qui da noi. Tra i volumi ultimamente pubblicati in Italia che portano la sua firma, appare ora anche Acqueforti di Buenos Aires (Del Vecchio, 2014), un’ampia raccolta di articoli pubblicati da Arlt, nel 1933, sulle pagine del giornale «El Mundo» (con cui l’autore collaborò scrivendo Acqueforti dal 1928 fino al 1942, quando gli toccò passare a miglior vita). Grazie a questo libro, il lettore italiano potrà venire a conoscenza dell’estesa regione giornalistica che contraddistingue l’eclettica produzione del nostro portegno, della sua vena tagliente, graffiante e abrasiva, come si direbbe utilizzando un infausto linguaggio da rotocalco per sale d’aspetto per il quale chiediamo immediatamente indulgenza. Acqueforti, ovvero impressioni passeggere segnate col nero sul bianco, profili incisi di punta e al negativo sul metallo, piccoli ritratti messi a comporre intere ali di quella polifonia di voci umane, urbane e piuttosto disastrose, talvolta in scordatura, che già abbiamo visto appartenere all’universo letterario di Arlt.

Sappiamo infatti, dalla lettura di libri come I sette pazzi (SUR, 2013), Il giocattolo rabbioso (Cargo, 2012) e ancora Un viaggio terribile (Arcoiris, 2014) e Scrittore fallito (SUR, 2014), con quanta attenzione e quanto spasso Arlt abbia lavorato al tratteggio dei personaggi del suo mondo narrativo, esseri per lo più marginali, sconfitti, indolenti abitanti dei quartieri del primo Novecento (quando le città diventavano definitivamente città), dettagli corali di un quadro d’insieme che proprio nella marginalità spinge i limiti centrifughi del suo nucleo più intimo, trascinando la sua coerenza nella sottigliezza del bordo, laddove gli uomini e le cose, per non precipitare nella siderea assenza che il vuoto imporrebbe loro, devono inventarsi nuovi equilibri, rovinose evoluzioni ginniche grazie alle quali aggrapparsi agli appigli più disparati per non scivolare, strategie di sopravvivenza che si accomodano per esempio sull’invidia, sullo scrocco, sul dolo, sull’ignoranza, sull’inanità, sul soccorso offerto dal sotterfugio alle anime inermi che calpestano i marciapiedi o che si nascondono nell’atra atmosfera della suburra.

Sicché, con Acqueforti di Buenos Aires scopriamo una scrittura complementare a quella dei testi sopra citati (che forse le è pure necessaria), in cui Arlt, disilluso vagabondo per le strade della sua Buenos Aires, girovago munito di occhi attenti e di taccuino, rintraccia modelli da ritrarre in bozzetti passeggeri rifiutando in tutto e per tutto il bello stile che si richiede all’intellettuale, rifuggendo il ragionamento allungato a dismisura dalle parole imponenti di cui spesso s’arma chi scrive per mestiere. Piuttosto, in questi suoi articoli, Arlt indugia sull’acre e sarcastica invettiva. Come se per descrivere la strada e i suoi bizzarri abitanti ci sia bisogno di parlare una lingua abbastanza populista e alquanto condivisa, probabilmente figlia anche di un morbido sentimento un po’ confuso, che tra civiltà e barbarie propende evidentemente per la seconda, grazie al quale trovare la compiacenza degli altri, i lettori nella fattispecie. Una lingua, in sostanza, che non ponga distanza tra chi scrive, chi legge e colui di cui si scrive e si legge, giacché tutti e tre questi soggetti sono pur sempre attori della medesima farsa, del medesimo dramma.

(Roberto Arlt, Acqueforti di Buenos Aires, trad. di Marino Magliani e Alberto Prunetti, Del Vecchio Editore, 2014, pp. 291, euro 15)

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