“Shotgun Lovesongs”
di Nickolas Butler

di / 2 aprile 2015

Shotgun Lovesongs è il titolo che Lee ha scelto per il suo album autoprodotto di canzoni folk. Inciderlo gli è costato seicento dollari, ma è stato qualcosa che va ben oltre lo sghiribizzo a fargli prendere questa decisione: così come i matrimoni riparatori negli Stati Uniti vengono chiamati shotgun marriages perché «il padre della sposa punta un fucile da caccia sulla schiena dello sposo», allo stesso modo Lee è stato spinto da un’urgenza irreprimibile: «Ecco come mi sentivo rispetto a Shotgun Lovesongs. Come se quel disco mi avesse puntato un fucile alle spalle. Sentivo l’incredibile pressione di doverlo fare, di finirlo, di dimostrare […] che non ero un fallito».

Da dove viene il desiderio di riscatto e perché Lee sceglie di cantare canzoni d’amore?

Sebbene romanzo e album portino lo stesso titolo, Shotgun Lovesongs (di Nickolas Butler, Marsilio, 2014) non è la storia di Lee. Lee è piuttosto il centro narrativo propulsore attorno al quale ruotano le vite (e le storie) di altri quattro personaggi: Henry, Kip, Ronny e Beth. Amici di infanzia, si alternano nel raccontare ciò che è rimasto della loro gioventù condivisa, ciò che è accaduto dall’uscita (un clamoroso successo) dell’album di Lee in poi, ormai star della scena folk internazionale. Se Henry è la quintessenza dell’America rurale, l’agricoltore che è rimasto nel proprio paese natio a occuparsi della fattoria di famiglia, ha sposato la sua prima ragazza (Beth), e ha sempre saputo che non avrebbe mai potuto o voluto fare altro, Kip è il non plus ultra del self made man americano, il broker che ha fatto fortuna in giro per gli States ma che torna a casa con in testa il progetto di ristrutturare un vecchio mulino, l’edificio più grande del paese per farne un’attività commerciale. Ronny è invece un ex campione del rodeo, eroe caduto in disgrazia a causa di un brutto incidente, e Beth l’inquieta moglie di Henry, l’unica a sapere del perché (e del per chi) Lee ha scritto Shotgun Lovesongs.

Pretesto narrativo del loro (r)incontro è il matrimonio di Kip a Little Wing (così si chiama il paese del Wisconsin dove i cinque amici sono cresciuti) che, come da copione, diventa il catalizzatore che attrae e lascia scontrare i desideri, le aspettative, le paure di ognuno dei narratori.

Se quando il giovane Lee ha inciso il suo album non poteva affatto immaginare che le sue canzoni avrebbero riscosso un così immediato successo in patria, dubito che il suo creatore, Nickolas Butler, godesse della stessa innocente sventatezza mentre scriveva e decideva di pubblicare Shotgun Lovesongs. C’è tutta la peggiore – e per fortuna anche una parte della migliore – America dei creative writing workshops nel romanzo di Butler: la scrittura piana e avvolgente, la polifonia dei punti di vista – abbastanza diversi da risultare credibili ma non così tanto da essere destabilizzanti–, la (troppa) sapienza nel costruire l’intreccio del plot e nel mantenere la suspense, i dialoghi cinematografici efficaci e utili, se non essenziali, a mantenere godibile il ritmo («Hai una sigaretta?» «Cazzo, sì»; oppure: «Dovresti andartene. Vai, prima di perdere altro tempo. Mi dispiace»), gli scivoloni nel sentimentalismo a stelle e strisce («Quando non ho nessun posto dove andare torno qui […] torno qui e ritrovo la mia voce come qualcosa che mi è scivolato dalle tasche, come un souvenir sepolto a lungo. E ogni volta che ritorno sono circondato da persone che mi amano, che si occupano di me, che mi accolgono sotto una tenda di calore»).

Resta da capire perché, tra i vari meriti del romanzo, che però non fanno altro che proporre variazioni su una tradizione narrativa statunitense più che consolidata, lo strillo del New York Times reciti «Un esordio straordinariamente originale». La misteriosa imperscrutabilità degli strilli decontestualizzati, forse.

(Nickolas Butler, Shotgun Lovesongs, trad. di Claudia Durastanti, Marsilio, 2014, pp. 320, euro 18)

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LA CRITICA

C’è un modo di dire piuttosto comune nella mia famiglia per cui, se si vuol far capire a chi si sta lamentando che l’entità del problema è piuttosto blanda e non val la pena scervellarcisi troppo, si è soliti rispondere: ja, non leva e non mette. Di fronte alle mie perplessità su Shortgun Lovesongs è stato il libro stesso a spiegarmi che non c’era da dispiacersi troppo, che è un romanzo che non toglie e non aggiunge nulla di rilevante né alla vostra giornata né alla letteratura contemporanea.

VOTO

6/10

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