Aspettando aprile

di / 9 aprile 2015

Chi non lo ricorda, l’aprile di quell’anno? I «giorni dei garofani», come è diventato ormai quasi d’obbligo chiamarli, in cui quello sparuto gruppo di ufficiali, inviati all’ultimo dei Territori Coloniali – una guerriglia sanguinosa, atroce, da diciotto anni già lo stava devastando –, aveva rifiutato di obbedire, e prendere il mare: poche ore prima che venissero arrestati per alto tradimento, entrarono armi in pugno nella biblioteca privata del decrepito dittatore e lo dichiararono in arresto, «in nome del popolo».
Il vecchio (una veneranda canizie diradava sul capo maculato e lustro, affossati gli occhi da tartaruga nelle orbite, sopra la flaccidità delle guance, e il collo tendinoso) provò a mettere in scena per la duecentesima volta una delle piazzate patetiche di cui era stato maestro per gli ultimi trentacinque anni: stavolta, però, la decina stentata di capitani e i due o tre generali rimasero duri, fermi, ripetendo a voce scandita, con la sola enfasi della irreversibilità, che «era in arresto. In-nome-del-Popolo. In arresto».
E così era esplosa la gioia. Furono ore di delirio, per giorni: gente che correva ovunque, balli nelle strade, cori di canzoni e inni nel vento, ragazze che abbracciavano chiunque incontrassero, militari portati in trionfo dalle pescivendole, al porto, da dove erano sempre partite le navi militari, coi ragazzi di leva mandati a saltare sulle mine interrate dal Flp, il Fronte di Liberazione Popolare di spietato fanatismo, a cui le stesse industrie belliche nazionali vendevano al mercato nero armi al triplo del prezzo.
Come non rallegrarsene, dunque?

Ecco: potrei dirvelo io, come. E non perché io sia stato un sostenitore del passato regime: di cui, in assoluta franchezza, non mi sono mai dato più pensiero che di qualsiasi diverso modo escogitato per pianificare i rapporti tra il genere umano altro che secondo la belluinità naturale. No, non c’era alcuna scelta politica, dietro l’amarezza rabbiosa con cui avevo ascoltato la radio proclamare, fino al parossismo più gracchiante del suo volume, che eravamo liberi, adesso, e che il popolo aveva ora nelle mani il proprio destino.
No, non era questo. Era lei. Era Leonòr; i rapaci, grandi occhi notturni di lei; il profilo volitivo insieme e indifeso nel suo offrirsi alla dolcezza; il peso caldo dei suoi seni appena cadenti, entro la mia mano, e la lieve velatura d’adipe sul ventre marmoreo, la linea gloriosa dei glutei, il loro inarcarsi florido e gemello.
Lo avrete capito: l’ho vista nuda, certo. Nudi siamo stati insieme. Nudi ci ha trovato il mattino – gelido, alle volte, con solo, sull’illividirsi di onde, qualche striatura sanguigna – quando mi toccava svegliarla, insistendo, chino all’orecchio di lei, che era tardi, che non ce l’avrebbe fatta, se no, a ripartire.
Perché non sarebbe potuto esserci un motivo al mondo, per Leonòr – una donna come lei, con sempre un libro da leggere fra le mani, ponderoso di pagine, o certi più smilzi, il dottorato in economia politica, il diploma di conservatorio in violoncello, e chissà che cos’altro –, a venire, in questo immucidito paese di pescatori, aggrumato qui all’estremo confine dell’oceano a farsi frustare dai venti che scatenano ondate di sei-sette metri, sventagliando spuma, fin sopra la spiaggia; dove, appunto, guarda l’alberguccio con cucina e ristorante annessi in cui sono finito a lavorare io, come cameriere, e tuttofare ai due piani superiori, capite, no?
E questo motivo era la prigione: su, in cima allo scoscendersi del borgo medievale (la «Terra», come ancora si chiama da ottocento anni, tutto strade sghembe in salita, scalinate e vicoli di case senza sole, e la Santa Vergine d’Altomare avanti a quel po’ di piazzetta a triangolo), il Forte dagli innumerevoli anditi stillanti umido e fetore, in cui erano state ricavate le celle per gli oppositori politici; primo fra tutti, il marito di lei: leggendario comandante della disubbidienza non violenta, la «Resistenza Gandhiana», ingrigito ormai e piegato dalla prigionia fin quasi ad aver perduto vista, udito, uso delle gambe; solo una larva, insomma, dell’intellettuale fascinoso di cui lei era stata allieva, prima, e subito amante e, alla morte della prima moglie divorata da un cancro alla gola, effettiva moglie.
Invece, ecco, con la libertà, niente più, di questo: più nessun bisogno di permessi di colloquio con i famigliari, al parlatorio del Forte, una volta ogni tre mesi, e non oltre la mezz’ora, e soltanto in premio di buona condotta, ad arbitrio insindacabile dell’autorità carceraria. Più niente; finito, tutto.
Ma io non mi rassegno: vedrete, qualcosa riesco a inventare. Questa primavera già, magari. Per l’anniversario, e lo scoprimento, sull’archivolto del Forte, della lapide con tutti i nomi degli oppositori del regime internati qui, e mai più usciti vivi, dal Forte. Non volete che venga, Leonòr, con quel suo marito, o ciò che ne resta? E dove altro volete che la passino, la nottata? Qui, alberghi non ce ne sono altri, a parte il nostro. Vedrete. Vedrete se ho ragione.
(Altrimenti, come farei ad andare avanti, in questo buco di mondo, eh?)

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