“L’arcano”
di Juan José Saer

Una commistione di generi a creare uno dei più importanti romanzi argentini del secondo Novecento

di / 28 ottobre 2015

Juan José Saer, nato nel 1937 e scomparso nel 2005, è stato, come spesso si dice, uno degli uomini di lettere più importanti del secondo Novecento argentino, un autore in grado di dare prosecuzione ai fasti di una letteratura nazionale che dopo aver conosciuto la generazione di Jorge Luis Borges, Julio Cortázar, Adolfo Bioy Casares e Roberto Arlt, per citarne soltanto alcuni, difficilmente poteva aspettarsi di proseguire sulla stessa strada superiore dei “maestri”. Saer, a quanto si afferma da più parti, sarebbe riuscito nell’ostico intento, proponendo un’idea totale, riconoscibile e piuttosto caratteristica di letteratura, come d’altronde in modi diversi hanno fatto i suoi predecessori. Dalle nostre parti, disgraziatamente, l’opera di Saer non ha finora occupato lo spazio che avrebbe meritato; tuttavia, negli ultimi tempi, la casa editrice romana La nuova frontiera sta cercato di porre gradualmente rimedio a tale sconveniente disinteresse, ed è così che ha pubblicato, in sequenza, i romanzi Cicatrici (nel 2012), L’indagine (nel 2014, libro tradotto anche da Einaudi una decina di anni or sono) e, infine, L’arcano (nel 2015, nella stessa traduzione di Luisa Pranzetti che nel 1994 era comparsa per Giunti salvo poi precipitare nell’ampio novero dei libri dimenticati).

Quest’ultimo romanzo, di levatura senza dubbio non comune, edito originariamente nel 1983, racconta in prima persona la vicenda di un giovane mozzo senza famiglia né affetti che si lascia coinvolgere in una traversata transoceanica a bordo di una nave spagnola; siamo all’inizio del Cinquecento, quando per gli europei le terre sconosciute che si frapposero tra loro e le Indie rappresentavano ancora un accidente, un’inspiegabile anomalia nel disegno tolemaico del mondo che di lì a poco sarebbe invece diventata un’incommensurabile occasione da sfruttare. Raggiunte le coste del continente all’altezza del Río de la Plata, in quell’immenso Mar Dulce che è l’estuario dei fiumi oggi rispondenti ai nomi di Uruguay e Paraná, e impiegate quelle acque per raggiungere l’entroterra alla scoperta di regioni sconosciute, il nostro mozzo si troverà in balìa di una tribù antropofaga di indigeni che, lasciandolo vivo come unico e ultimo testimone di quel primo sconcertante incontro tra culture, all’ombra umida della foresta farà banchetto di tutto il suo equipaggio durante uno sgomentevole rito panorgiastico. Il mozzo sarà adottato dai silvicoli carnefici, e con loro vivrà per anni fin quando troverà un passaggio per il Vecchio Mondo, dove riporterà un racconto che servirà dapprima come descrizione protoetnografica dell’“altro” e poi come trama di una rappresentazione teatrale ai limiti del grottesco che andrà girando entro i confini del regno di Spagna. Questa, in una breve e brutale sinossi che nulla toglierà al lettore, la trama de L’arcano, un libro che, secondo il costume di Saer, sembra giocare e divertirsi sovrapponendo e rovesciando i modelli e così destreggiandosi in un eclettico plot narrativo che propone, seppure nei termini di una straordinaria coerenza interna che si dipana con la fluidità di una prosa sorprendente dalla prima all’ultima pagina, dei salti improvvisi eppure morbidi grazie ai quali il lettore si trova immerso, nelle diverse fasi della narrazione, in un classico romanzo storico, d’avventura, in una narrativa di viaggio, in un resoconto da cosmografo cronista, in una spirale picaresca e infine in una sorta di confessione.

Nucleo del romanzo, suo tema portante e costitutivo, è naturalmente la fondamentale questione dell’identità, coniugata da Saer in cerchi concentrici che fanno dell’estensione crescente una procedura speculativa oltreché narrativa: al centro c’è l’individuo singolare, poi l’europeo e l’indio nel loro vicendevole e silenzioso rapporto (nell’incontro dei loro incommensurabili sistemi di pensiero), l’uomo in generale e infine il mondo, che nel sistema di connessioni messo a reggerlo sembra avere vita propria e assai pulsante. In quest’ottica, L’arcano può essere letto come una continua interrogazione che il mozzo, incanutendosi ramingo nel corso delle vicende e delle pagine, pone a se stesso circa il senso del proprio consistere tramite il racconto di una vorticosa parabola biografica, vicenda minima cifra della storia grande, che ha nell’incontro con l’altro, nel primo contatto, il suo motivo principale, la solidificazione dell’evento particolare nell’assoluto di una durata che non conosce misura: «Io ero argilla mobile quando toccai quelle coste di delirio», confessa il narratore «e pietra immutabile quando le lasciai, anche se la mia permanenza in esse è stata, tenendo conto dell’età alla quale mi avvicino, relativamente corta, e anche se, negli anni che seguirono, ho vissuto, in apparenza, tante cose che altri chiamerebbero importanti e varie».

(Juan José Sar, L’arcano, trad. di Laura Pranzetti, La Nuova Frontiera, 2015, pp. 160, euro 15,50)

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LA CRITICA

Scritto in una prosa senza dubbio superiore, L’arcano di  Juan José Saer è un libro fondamentale per chiunque voglia conoscere la letteratura argentina del secondo Novecento. È romanzo denso, essenzialmente letterario, che nella sua strabiliante fluidità non richiede al lettore eccessi di impegno. Posto comunque che più impegno ci si mette, più la lettura del libro risulta appagante.

VOTO

8/10

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