“Hymns” dei Bloc Party

Alla ricerca del groove perduto

di / 14 marzo 2016

Hymns Bloc Party Recensione Flanerí

Prima di parlare di Hymns, partiamo con una premessa. Inizio degli Anni ’00: nel giro di poche stagioni sarebbero sbocciati gli esordi di alcune band capaci di segnare profondamente la nascita di una nuova scena, la mia vita e l’annesso background musicale: Interpol, Editors, Arcade Fire, The National su tutte. Sì, ovviamente c’erano anche i Bloc Party. C’era l’ascolto ininterrotto di “Banquet” e la completa venerazione di Silent Alarm, un colosso clamoroso della storia musicale alternativa. A Weekend in The City fu un graditissimo seguito e la poco parziale generosità caratteristica del fan mi ha permesso di salvare qualcosa dello spiazzante, isterico ed elettronico Intimacy, come ad esempio il giro eccellente di chitarre in “Halo” (uno dei loro capolavori assoluti). Riguardo Four ne ho parlato proprio qui, andate a ridare una letta, per non farvi mancare nulla.

Dall’ultimo disco ad oggi, vanno segnalati – oltre al secondo lavoro solista del leader Kele Okereke, Trick – anche gli importanti cambi di line-up: Moake al basso e Tong alla batteria lasciano il posto a Alex Thoms (batterista di Bradly Drawn Boy, Air, Adem) e al bassista dei Menomena, Justin Harris. In Hymns si manifesta un dato inconfutabile: i Bloc Party hanno smesso di essere una band da album  per diventare una band da singoli.

Considerati nella loro interezza e complessività gli ultimi dischi risultano insufficienti e viste le dovute aspettative, deludenti. Su quanto calcare la mano nel giudicare l’insufficienza sta poi al buon cuore del critico valutare e devo dire che a livello internazionale e italiano gli addetti ai lavori mi sembrano eccessivamente spietati nel massacrare a prescindere con fustigate al vetriolo ogni lavoro del gruppo inglese. Il punto è questo: dopo gli ascolti necessari per “digerire” Hymn io stesso molto probabilmente non lo risentirò mai più dall’inizio alla fine. Eppure ho già salvato sul mio riproduttore musicale e sulla mia playlist di Spotify alcuni brani che continuano a piacermi e divertirmi moltissimo. Tra questi, per quanto sia inizialmente straniante, c’è il brano d’apertura di Hymns e primo singolo scelto: “The Love Within”. Lo ammetto, per quanto smaccatamente danzereccio, lo trovo irresistibile. Cosa altro salvare? “In To The Heart” e “Virtue”, in cui la nuova produzione riesce a comporre qualcosa capace di lasciare un segno oltre la media. L’intero mood del disco è molto pop, avvolto da una elettronica soft. Spesso si sbadiglia nell’attesa di qualcosa di bello e accattivante, che – purtroppo – non arriva mai.

Nella speranza – oramai vana? – di un futuro ascolto completo e compiuto come ai bei vecchi tempo, ci consoliamo salvando gli sprazzi del talento orami estremamente diluito di Kele e gli altri.

 

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LA CRITICA

Qualche momento meritevole in un disco con pochi sprazzi entusiasmanti: troppo poco visto il nome in questione. Rimandati ancora una volta. L’ennesima.

VOTO

5/10

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