“Il deserto” di Jorge Baron Biza
Parabola discendente di una famiglia di suicidi tratteggiata da uno dei membri
di Livio Santoro / 2 maggio 2016
Nel suo Il libro degli esseri immaginari, dando notizia del basilisco, piccola e multiforme bestia del mito, Jorge Luis Borges scrive: «Gli occhi delle Gorgoni pietrificano; Lucano riferisce che dal sangue di una di loro, Medusa, sono nati tutti i serpenti della Libia: l’aspide, l’anfisbena, l’ammodite, il basilisco. [Quest’ultimo] risiede nel deserto o, per meglio dire, crea il deserto. Ai suoi piedi cadono morti gli uccelli e marciscono i frutti; l’acqua dei fiumi a cui si abbevera rimane avvelenata per secoli. Che il suo sguardo rompa le pietre e bruci i pascoli è attestato da Plinio». Costretto a un’infinita condanna di profonda emarginazione secondo le sue mortifere caratteristiche, il basilisco così descritto è senza dubbio una tra le più sventurate bestie: tutto, attorno a lui, rifiuta la vita, tutto, attorno a lui, diventa deserto.
Simile sorte sembra essere toccata a un altro scrittore argentino del Novecento, Jorge Baron Biza, di cui da poco possiamo leggere qui in Italia El desietro y su semilla, portato dalle nostre parti con titolo monco (Il deserto, La Nuova Frontiera, 2016) e presentatoci in bandella tramite le parole di autopresentazione dell’autore stesso: «Un grande flusso di compassione mi investì quando si verificò il primo suicidio in famiglia. Quando accadde il secondo, quel flusso si trasformò in un oceano agitato e senza orizzonte. Al terzo, ogni volta che mettevo piede in una stanza posta al di sopra del terzo piano le persone si affettavano a chiudere le finestre. In scene come questa è rimasta imprigionata la mia solitudine». Ciò di cui la bandella non può darci comunicazione è che questa catena di suicidi familiari, cominciata nel 1964 con la scomparsa di Raúl Barón Biza, scrittore e padre di Jorge, si concluderà nel 2001 con un volo lungo dodici piani cui il nostro stesso autore diede il compito di concludere la propria esistenza mondana, ultimo atto di una tragedia già lunga. Tra questi due eventi, gli altri due suicidi di cui si parla nella bandella: quello dell’oppositrice di Eva Perón, la politica radicale Clotilde Sabattini, nel 1978, e quello della giovane María Cristina, nel 1988, rispettivamente madre e sorella di Jorge.
Sono proprio il suicidio di Barón Biza padre (Arón nel romanzo) e quello di Clotilde Sabattini (che nella finzione prende il nome di Eligia) a fare idealmente da apertura e chiusura de Il deserto, a testimonianza del fatto che ci troviamo di fronte a una narrazione autobiografica che prende la forma del romanzo in cui il protagonista Mario (lo stesso Jorge) segue le vicende ospedaliere della ricostruzione plastica del viso della madre, deturpata dal marito con un bicchiere di acido prima che questi decidesse di suicidarsi sparandosi alla tempia.
Costretto ad accompagnare la madre dall’Argentina in un viaggio verso l’Italia e la Svizzera, dove luminari della chirurgia ricostruttiva tenteranno di dare ristoro e nuova vita al volto terribilmente martoriato di Eligia, Mario (Jorge) darà seguito alle sue letali costumanze da ubriacone vagabondo e autolesionista in un susseguirsi di terribili sbronze, compagnie poco raccomandabili e gratuite violenze, tenendo sullo sfondo, come cifra costante e inevitabile contrappunto, la lenta ricostruzione delle fattezze della madre, devastate dall’acido e sostanzialmente irrecuperabili come il suo ambiente familiare e l’anima di chiunque l’abbia popolato.
Subordinando le fascinazioni autobiografiche all’imperativo letterario, Il deserto è un romanzo che merita di esser letto per la crudezza della sua trama e per l’eclettismo della sua scrittura (una nota di merito, a questo proposito, va alla traduttrice Gina Maneri, che ha saputo trasportare in italiano le peripezie linguistiche proposte dall’autore).
(Jorge Baron Biza, Il deserto, trad. di Gina Maneri, laNuovafrontiera, 2016, pp. 256, euro 17)
LA CRITICA
Parabola discendente di una famiglia di suicidi tratteggiata dal racconto autobiografico di uno dei protagonisti, Il deserto, romanzo davvero ben tradotto, è una storia piena di abbandono e nichilismo in cui intravedere in filigrana le vicende grandi dell’Italia e dell’Argentina degli anni Sessanta e Settanta del Novecento.
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