La scrittura di Fabrizia Ramondino: trasformazione e alchimia

Una rapida panoramica sull'opera della scrittrice napoletana scomparsa nel 2008

di / 19 maggio 2016

Fabrizia Ramondino Flanerí

Spesso ai grandi scrittori toccano in sorte alcuni anni di oblio. Sembra quasi che un periodo di dimenticanza sia necessario per sancire in maniera definitiva la grandezza di un’opera letteraria. Nel caso di Fabrizia Ramondino (nata a Napoli nel 1936 e morta a Gaeta nel 2008) una sorda indifferenza ha accompagnato tutta quanta la sua parabola artistica, cambiando di segno solo recentemente, con un apprezzamento postumo da parte della critica.

A parte alcune recensioni uscite sui principali quotidiani italiani (tra queste ricordiamo il breve e folgorante articolo di Giovanni Giudici, dedicato al romanzo Un giorno e mezzo, uscito su l’Unità nel 1988), soprattutto negli ultimi anni è stato riscoperto il grande valore della scrittura complessa, sperimentale e tradizionale insieme, di Fabrizia Ramondino. Grazie agli studi sulla sua produzione, condotti con particolare assiduità da Beatrice Alfonzetti, il «caso Ramondino» è salito alla ribalta e a esso è stato ora interamente dedicato l’ultimo numero di L’Illuminista (anno XV, dicembre 2015, a cura di B. Alfonzetti e S. Sgavicchia), che si è fatto triplo (un unico volume raccoglie tre numeri) per accogliere la «dismisura» dei discorsi già fatti e possibili sull’opera e sulla scrittrice.

L’opera che Ramondino ci ha lasciato è smisurata non solo per il numero dei titoli pubblicati (tra saggi socio-politici, romanzi, raccolte di racconti e di poesie, ne contiamo una ventina) ma anche per la sua inesauribilità, per la complessità dei reticoli linguistici e tematici, che irretiscono personaggi e lettori. Fabrizia Ramondino in un’intervista aveva definito il corpo «contenitore fragile della dismisura» ed è come se tutta la sua produzione fosse un tentativo di lavorare la pasta della scrittura-corpo, di modularla in modo da contenere, seppure in maniera instabile, la «dismisura» – metafisica laica, che nulla ha a che fare con le teologie e che si affaccia, invece, sulle radure sterminate della psicanalisi. Non a caso Pedullà, nell’introduzione al volume, parla di «varietà eretica di temi e coerenza multipla di stile» (p. 11).

Il rapporto genitori-figli, in particolare quello madre-figlia, è tra i temi più sviscerati dalla scrittura di Fabrizia Ramondino, che si muove come una sonda psicanalitica: pensiamo al dramma Terremoto con madre e figlia (1994) ma anche al già citato Un giorno e mezzo (1988), legati proprio dalla valenza simbolica delle due figure, come ha notato Alfonzetti: «Il legame fra il romanzo e il “dramma” è profondo, attingendo a una dimensione simbolica di valenza archetipica, alla relazione madre-figlia che la scrittura teatrale sembra aver filtrato dalla più articolata trama narrativa» (p. 331). Pensiamo anche alla «Madre» e alla «Figlia» che compaiono, indicate con la lettera iniziale maiuscola, in Althénopis (1981), romanzo d’esordio della Ramondino. Questa tensione simbolica tocca l’acme nel Requiem conclusivo del libro, dove compaiono Figlia e Madre che, morendo, torna bambina, figlia a sua volta, e si abbandona a un gesto masturbatorio meccanico: «Quel gesto, che per tanti anni era rimasto sepolto, venne ad adagiarsi su quel grembo, a reclamare i suoi diritti e a dichiararli, a separarsi dal vecchio corpo morente per entrare nell’anima di chi lo intese, a togliere il divieto e fecondarla, affinché vedessero la luce altri nati di donna» (Althenopis, p. 264). Non a caso Madre e Figlia diventano le protagoniste proprio della terza parte di Althénopis, l’unica scritta in terza persona, quasi a voler oggettivare queste due forze della propria psiche: «La trama di Althénopis si è generata, in una lunga e difficile gestazione, dalla necessità di dare forma letteraria ai vissuti psichici molteplici, complessi, comunque contraddittori, che chiedevano di essere dipanati, narrati e dunque compresi» ha scritto Bellucci (p. 130).

Con la sonda psicanalitica Ramondino aveva, in effetti, un rapporto confidenziale: si era sottoposta per anni alla terapia junghiana, appuntando su un taccuino (pubblicato nel 2002 come Libro dei sogni) i sogni che faceva con relativa esegesi; al termine del periodo di analisi, grazie a una visione onirica, aveva capito di essere pronta a varcare la soglia che separa la scrittura privata da quella pubblica. In un appunto di quel periodo commentava così il suo sogno: «Il mio desiderio è quindi che quel ventre cavo possa anche diventare convesso». In un’intervista Ramondino aveva parlato dell’opera d’arte come di una creatura partorita dal «ventre alchemico»: «Si accolgono in sé gli stimoli esterni, li si elabora nel ventre alchemico, poi viene alla luce il bambino divino, l’opera d’arte». Dunque diventando scrittrice, il «ventre cavo» era diventato, finalmente, «convesso».

 

 

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