“Triste America”
di Michel Floquet

Gli Stati Uniti visti da vicino, per chi osserva da lontano

di / 27 marzo 2017

Un indizio, prima di parlare di Triste America di Michel Floquet. Qualche settimana fa, su Internazionale veniva replicato un articolo di El País in cui Martín Caparrós sosteneva una tesi folgorante, nella sua semplicità: «Lo specchio rotto del signor Trump spinge politici, giornalisti, attrici di Hollywood e altri opinionisti stizziti a esprimere la loro nostalgia per quell’esempio per il mondo (lo hanno scritto in diversi) che erano gli Stati Uniti d’America. Sono tanti: parlano della democrazia modello, della società più giusta, del paradigma di libertà e di tutte le altre cose che l’apoteosi del signor Trump sta per rovinare o ha già rovinato. È strano. In realtà parlano di un paese in cui le disuguaglianze sociali ed economiche sono estreme».

L’uscita di quell’articolo era stata preceduta dalla traduzione di un reportage americano del giornalista Michel Floquet, a lungo corrispondente da Washington per TF1. Le conclusioni a cui giungono Caparrós e Floquet sono funestamente le stesse. Due indizi sono solo una coincidenza, mi dico. Triste America (Neri Pozza, 2016), il titolo prescelto. Di chiara ispirazione levistraussiana: tentativo di una antropologia degli Stati Uniti? Probabilmente no, ma quel paese che siamo abituati a considerare alla stregua di un nostro prossimo cugino (quanta letteratura, cinema, musica attraversa quotidianamente l’Atlantico?); per il quale abbiamo semanticamente arricchito la parola occidente, dando così un ombrello linguistico alla distanza: quel paese è in realtà infinitamente lontano. Ecco dunque che Floquet deve ricorrere all’antropologia, a Lévi-Strauss, ai tropici tristi, alla ricerca sul campo, per spiegarlo.

Non sono solo i numeri a segnare le differenze, sebbene valga la pena citarne alcuni, poiché drammatici: quasi 50 milioni di statunitensi «mangiano ogni giorno grazie ai food stamps, e uno su due è un bambino. La situazione è talmente degradata che tutte le scuole pubbliche del paese cominciano la giornata con una colazione gratuita. Spesso, per molti alunni, è il solo vero pasto che avranno».

I numeri, lo sappiamo, vanno sempre relativizzati; e allora, 50 milioni stanno alla popolazione totale degli Stati Uniti come 9,4 milioni stanno a quella italiana. In pratica è come se tutti gli abitanti di Roma, Milano, Napoli, Torino, Palermo, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Catania, Venezia e Verona dovessero andare alla Caritas. Ogni giorno.

Povertà e colore della pelle vanno a braccetto, sembra di dire un’ovvietà. Eppure i campioni del football sono per lo più ragazzi di colore: «Lo sport costituisce spesso il solo modo di cavarsela, o anche di intraprendere gli studi». Solo che la maggior parte dei praticanti, di questo sport che divide il nome e l’architettura degli stadi con il nostro giuoco del calcio, incorrono in «concussion, la commozione cerebrale. [Ma] a nessuno passa per l’anticamera del cervello di rendere questo sport meno pericoloso e modificarne le regole. Basta garantisti sul piano finanziario e legale».

Anche in Italia, si dirà, il calcio è l’ultimo ascensore sociale. E allora torniamo alle differenze, a quelle insite nei paradigmi del vivere civile. La maggiore difficoltà incontrata nell’introduzione della riforma sanitaria ideata da Obama (che rappresenta un passo verso un sistema di welfare all’europea, in cui un lavoratore potrebbe essere persino contento di sapere che – almeno in linea teorica – le sue tasse contribuiscono alla guarigione della vecchietta del quinto piano) è stata appunto una difficoltà culturale: «Parecchi americani non ci capiscono nulla e insorgono. Le coppie che non vogliono più avere figli, o non averli del tutto, ad esempio, non vedono perché dovrebbero pagare una quota per i rischi legati alla gravidanza o al parto. Nel paradiso dell’individualismo, il principio stesso del mutualismo appare qualcosa di assurdo».

È anche il paese in cui il proprietario di una catena di negozi di bricolage, il signor David Green, può decidere che essendo egli un antiabortista, non firmerà contratti di lavoro in linea con la riforma sanitaria, la quale prevede – tra l’altro – il sostegno ai programmi di contraccezione e facilita l’accesso alla pillola del giorno dopo: «Green esplode. “Le credenze religiose della famiglia Green” scrive “gli impediscono di partecipare e di facilitare l’accesso a pratiche abortive”. […] La Corte suprema degli Stati Uniti gli darà ragione, aprendo così la via a una serie di eccezioni fondate sulle convinzioni dei datori di lavoro».

Sono alcuni dei numerosi episodi raccontati da Floquet di questa Triste America . E allora no, esempio per il mondo, forse l’America non lo è davvero mai stata. Ma un indizio è un indizio, e due indizi sono solo una coincidenza: attendo il terzo, per avere una prova.

 

(Michel Floquet, Triste America. Il vero volto degli Stati Uniti, trad. di A. Folin, Neri Pozza, 2016, pp. 208, euro 16,50)

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LA CRITICA

Tra reportage giornalistico e studio antropologico sul campo, il quadro sconfortante di una nazione a noi sempre più estranea.

VOTO

7,5/10

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effe

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