La dimensione empatica dell’antropologo

Intervista a Matteo Meschiari, autore del romanzo-saggio “Artico nero”

di / 18 aprile 2017

L’idea di intervistare Matteo Meschiari, antropologo e scrittore, mi era venuta già nel 2012, quando avevo letto Spazi Uniti d’America (Quodlibet), un «On the road antropologico attraverso spazi del fuori, del limite e del quotidiano» per ripercorrere «le molte Americhe che hanno fatto l’America». Ero rimasto colpito dal tono e dal linguaggio con cui Meschiari raccontava – in maniera anche provocatoria – lo spazio e i miti di conquista di un continente troppo ampio e selvaggio per essere pensato nella sua interezza.
Poi qualche mese fa, complice il suo ultimo libro Artico nero (Exòrma, 2016) – sette storie ambientate nell’Artico, dal Canada alla Norvegia settentrionale, che compongono un romanzo-saggio di interesse politico e sociale, oltre che letterario –, l’ho incontrato a Roma, alla libreria L’Angolo dell’Avventura, a Testaccio. E senza troppi giri di parole siamo entrati subito in medias res.

 

Come diceva Carlo Ginzburg: «È l’incertezza che crea credenza, non il suo contrario». E tu stesso, in Artico nero, riferendoti a un certo modo di fare ricerca da parte di studiosi al soldo dei governi neocolonialisti, sostieni che l’incertezza è «l’anticamera della credenza». Poi però, soprattutto all’inizio e alla fine del libro, racconti delle storie senza fornire dati certi – eccezion fatta per la bibliografia finale. Come si pone Artico nero rispetto all’incertezza?

La riflessione all’inizio del libro è una provocazione rivolta a certa antropologia ufficiale che, a mio parere, spaccia molto spesso la disciplina come una scienza esatta. Quando si parla di “scienze” demo-etno-antropologiche ritengo invece che sarebbe più opportuno parlare di “saperi” antropologici, perché da un punto di vista epistemologico le scienze sociali non hanno lo statuto delle scienze dure: producono modelli interpretativi senza però garantire sistemi di verificazione. Il tentativo di far passare l’antropologia come scienza ha lo scopo di rastrellare dei finanziamenti in più. Più sei scienza più hai chance. Questa tendenza però diventa abbastanza discriminatoria nei confronti di altri modi di fare antropologia. Oggi, per esempio, si insiste molto sulla necessità di fare ricerca sul campo, e questo per dire se sei antropologo oppure no, altrimenti sei “solo” sociologo, o geografo… l’antropologo invece è quello che “va a osservare”. In realtà esistono moltissimi casi, anche di autori che sono dei classici dell’antropologia, che hanno svolto fieldwork solo in parte. Come Claude Lévi-Strauss, che dopo essere stato sul campo solo per qualche mese, ha poi basato molte delle sue opere più importanti su dati etnografici raccolti da altri. Diciamo quindi che una frecciata iniziale c’è e, non a caso, per il libro ho scelto tutte storie per le quali non è più possibile fare ricerca sul campo. Non possiamo tornare negli anni ’50 del Novecento o nel Settecento per vedere come stavano effettivamente quei popoli, ma dobbiamo semplicemente basarci su dati documentari. Sono partito da lì: tutto ciò che si poteva sapere su una determinata etnia l’ho approfondito sulle fonti a disposizione, spesso letteratura di viaggio, a volte monografie etnografiche vecchie anche di cent’anni. Ma il mio scopo era quello di raccontare storie di persone. Tutte le storie che racconto riguardano persone realmente esistite e nell’apparato bibliografico in fondo al libro elenco e discuto i riferimenti, perché ognuno possa andare a verificare ciò che dico.
In ogni caso, sono d’accordo sul fatto che il mio intervento, come dici, può sembrare scaltro. Ma è in realtà solo un tentativo per accorciare la distanza empatica: faccio leva su certi elementi affinché il lettore riduca quella che è la tipica distanza che lo studioso professionista mette tra sé e il proprio oggetto di analisi. Aggiungo che per me non è importante la verità, ma l’intensità. Perché Artico nero è prima di tutto un libro politico, più che antropologico. Si tratta di prendere posizione: stai con la cultura egemonica o con quelle subalterne? Io ho scelto di stare con quelle subalterne.

 

Nel raccontare di Jimmy Nelson e del suo libro Before They Pass Away, usi una frase molto efficace: «Nelson produce fiction di supporto allo storytelling di sistema». Tu, puntando all’intensità, ottieni lo stesso risultato di Nelson, perché, come le sue foto, anche le tue storie creano sentimenti. Ma, se ho capito bene, l’idea è che Nelson lo faceva per il sistema, tu per il contro-sistema…

Sì, decisamente. Soprattutto non lo faccio in una prospettiva di tipo economico. Non mi vado a inserire in una logica di neoliberismo, come invece ha fatto Nelson. A differenza sua, porto avanti una presa di posizione politica che è tutto ciò che mi interessa.

 

Puntando comunque sull’emozione…

Io preferirei parlare di dimensione empatica. L’emozione è qualcosa che riguarda il soggetto, io come scrittore cerco di schierare degli elementi in modo tale che si possa produrre una relazione emozionale, più che emotiva, tra il lettore e la situazione di cui si parla. Però in realtà, stilisticamente, non voglio indulgere alle tinte forti, non vado a scavare per arrivare a una situazione strappalacrime, uso sempre un tono piuttosto cinico.

 

Come a pagina 49, dove tu inizi un dialogo con il lettore, e la voce che viene fuori alle volte è quasi rancorosa; altre fa da guida e cerca di avvicinare chi legge alle storie. Ecco, questa è la tua voce?

Un po’ è la mia voce, io non sono un tipo rancoroso, ma quella voce coincide con un periodo rancoroso della mia vita. A luglio del 2016 ho perso un amico, una delle persone più importanti nella mia esistenza e non ho ancora metabolizzato questa perdita. Dentro al libro ho messo una rabbia personale che ho prestato a queste storie. Quindi in questo senso è la mia voce, anche se poi non è nel mio stile mettermi ad abbaiare. Ho scritto Spazi Uniti d’America facendo una critica sociale molto pesante ma senza bisogno di usare questi toni. Se Artico nero l’avessi scritto tra due anni, probabilmente l’avrei scritto in modo molto diverso.

 

Veniamo al concetto di antropofiction, un termine che avete ricreato voi in casa editrice per definire il genere del tuo libro…

Già Marc Augé parlava di antropofiction, anche se lui lo aveva usato in un’accezione diversa, riferendosi a un tipo di simulazione antropologica con scopi comparativi. Per me è altro, antropofiction non significa inventarmi i dati, ma inventarmene il meno possibile. Sono intervenuto in due modi facendo fiction: uno, effettuando una scelta stilistica a livello letterario, ho scritto sette storie con sette stili diversi, da quello più giornalistico del primo capitolo a quello più narrativo dell’ultimo; due, tentando di lavorare sulla visibilità, perché se c’è una cosa che non fa la scrittura scientifica è proprio quella di “far vedere” le cose. A questo si aggiunge poi la mia personale ossessione per il cinema e la fotografia. Mi interessava molto rendere visibile un altro mondo, un mondo lontano, poco conosciuto, anche attraverso il rilievo paesaggistico, l’atmosfera, la luce, aspetti che in genere mancano nella scrittura accademica, perché assolutamente non pertinenti. Per questo amo la letteratura di viaggio a sfondo antropologico, molto più del saggio antropologico, perché riesce a restituirmi aspetti e dettagli assenti o addirittura censurati.

 

Nel tuo libro fai riferimento, tra i vari temi, al conflitto tra cacciatori/raccoglitori e agricoltori/allevatori, espresso nei miti di Caino e Abele, di Demetra e Proserpina, di Gilgameš ed Enkidu. Mi sembra di capire che questo conflitto sia ancora in atto…

È ancora in atto e lo sarà finché esisteranno culture di caccia e raccolta, per quanto ormai siano culture residuali – possiamo parlare di fossili antropologici. Tutti questi gruppi entrano necessariamente in conflitto con le culture agricole, che rispetto a loro sono culture egemoniche. Si potrebbe costruire un vero e proprio atlante dei conflitti tra questi due universi culturali. Un fenomeno attuale ma che inizia da subito, perché non è che all’improvviso le culture paleolitiche sono diventate neolitiche passando all’agricoltura. È esistita tutta una serie di sacche in cui continuavano a esistere culture di tipo paleolitico con infiltrazioni sempre più forti di cultura neolitica dedita all’agricoltura. Per cui già intorno a 10.000 anni fa questo tipo di conflitto era presente. Jared Diamond ne ha parlato in modo molto dettagliato, soprattutto in Armi, acciaio e malattie e in Collasso.

 

Veniamo alle “ricollocazioni” degli Inuit che diventano flagpole in luoghi strategici del nord del mondo. In Canada tutti sono a conoscenza di queste vere e proprie deportazioni, però come tu scrivi effettivamente nel libro, le ammissioni di colpa da parte delle istituzioni sono ancora timide…

 Il governo del Canada ha chiesto scusa solo due anni fa per il “ricollocamento” degli Ahiarmiut negli anni Cinquanta, dopo una fase di vera e propria contrattazione tra le comunità locali e il governo, governo che spesso ha cercato e trovato il supporto degli accademici per giustificare le deportazioni. Ed è una cosa che si è ripetuta anche altrove, in modo praticamente identico, tra Danesi e nativi groenlandesi.
Nel libro, come avrai notato, oltre a raccontare storie, ho cercato di fare emergere qualche paradigma, che permetta di definire una specie di grammatica del colonialismo. C’è un colonialismo violento, quello della prima fase; un colonialismo della conoscenza e di pseudo-conciliazione, in una fase successiva; esiste poi tutta un’altra serie di trucchi che caratterizzano il neocolonialismo, e che mostrano come il colonialismo si sia trasformato nelle modalità per restare uguale a se stesso. Una di queste è appunto prendere tempo, soprattutto nei conflitti tra comunità locali e governo centrale. Perché? Perché nel frattempo i vecchi muoiono, quindi spariscono i testimoni oculari, e si vengono a creare delle situazioni propizie per riscrivere i fatti contestati. Si lavora per produrre un nuovo storytelling riguardo al passato, un vero e proprio blanchissement per riscrivere la pagina a proprio piacimento. Mi interessava far vedere che esistono anche meccanismi raffinati di neocolonialismo, come l’usura temporale. O l’aggressione mediatica. O la selezione dei dati con l’avallo dell’accademico di turno. C’è da dire però che negli anni Ottanta i movimenti per i diritti civili sono aumentati e singole persone dotate di un certo carisma culturale hanno lavorato moltissimo per far sì – come nel caso delle comunità artiche – che si creasse una specie di cordata per raggiungere una consapevolezza identitaria e politica comune, e acquisire così un maggiore potere contrattuale tra la singola comunità e i governi di riferimento. Persone come Jean Malaurie, per esempio, che essendo presente alla caduta di un B-52 americano con quattro testate nucleari a Thule, in Groenlandia, ha deciso di prendere le parti delle popolazioni locali, creando una sorta di rete etnica e spendendo moltissime energie in una militanza che lo ha reso sospetto agli occhi degli antropologi “di carriera”. Per molti Inuit è stato invece una sorta di padre politico.

 

E tu questo intervento, che può essere quasi visto come un’interferenza, lo vedi come una cosa positiva?

La vedo positiva in questo senso: io sono contro il recupero folklorico. Se una cultura è destinata a morire, deve morire e basta. E tutto ciò che è revival folklorico mi dà l’orticaria. Però in questo caso c’è qualcosa che va oltre: qui si parla di persone che in alcuni casi stanno morendo di alcolismo, in altri sono morte di fame, ci sono suicidi, iniquità sociali, sfruttamento, quindi nel recupero e nel riuso di tradizioni morte c’è almeno una finalità politica. Partendo da questo me ne fotto del purismo antropologico, me ne fotto se fare revival folklorico è qualcosa che fa schifo rispetto alle “vere” tradizioni della nonna, perché un’operazione del genere in questo caso dà consapevolezza politica a persone che sono in minoranza – minoranze etniche calpestate – e crea un’unità interna in grado di fare emergere un gruppo che può entrare in competizione dialettica con i poteri forti. In questo senso sì, la vedo come una cosa positiva.

 

Come ti accennavo prima, mi ha colpito molto, anche se in parte lo condivido, l’uso che fai di un certo linguaggio in Artico nero: utilizzi parole molto forti, spesso aggressive. Qual è lo scopo di questa scelta, che può essere anche rischiosa perché ti si può anche ritorcere contro?

Mi piaceva in alcuni casi provare a utilizzare un “linguaggio da caserma”. Stavo leggendo Fine missione di Phil Klay (Einaudi, 2015), una serie di storie sulla guerra del Golfo. Il suo linguaggio crudo mi ha dato in qualche modo la voce per abbozzare le prime pagine del secondo capitolo di Artico nero, che in realtà è il primo capitolo che ho scritto. Un modo per cominciare. Una prova di stile. Poi me la sono portata dietro un po’ per tutto il libro. Magari oggi, con meno rabbia, scriverei quelle stesse pagine senza bisogno di dare pugni nello stomaco. Anche se chi ha letto il libro, questa cosa del pugno nello stomaco, ha detto che ci sta. Che serve.

 

La fine del mondo artico è in qualche modo una profezia sulla fine del mondo come noi lo conosciamo: i ghiacciai che si sciolgono, le scorie nucleari, i virus solo in parte debellati… Qual è secondo te la condizione attuale dell’Artico e quanto è vicina alla situazione del resto del mondo?

Anche se può sembrare esagerato, l’Artico è realisticamente una bomba biologica: non sappiamo che cosa ci sia all’interno del permafrost che si sta sciogliendo. Per esempio, il ritorno del vaiolo è una reale preoccupazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, perché dal ghiaccio riemergono corpi di gente morta di vaiolo che adesso può contaminare le acque, il bestiame. O l’antrace, tornato in Siberia lo scorso agosto, dopo un letargo di più di settant’anni: una renna morta durante la seconda guerra mondiale e riemersa dal permafrost. Quindi non si tratta di leggende metropolitane o di distopie. In sintesi lo scioglimento del permafrost fa sì che tutto ciò che è organico ed è lì anche da decine di millenni si decomponga, creando gas metano. L’Artico si sta scaldando tre volte più intensamente e più rapidamente del resto del pianeta. Ecco cosa intendo quando dico che lì sta accadendo in anticipo quello che accadrà a breve anche da noi. E questo non lo dicono solo gli ambientalisti, ce lo dicono le banche e le compagnie di assicurazione che stanno pagando specialisti per avere dei report realistici sul cambiamento climatico allo scopo di fare una previsione di spesa per i prossimi anni.

 

E quanto c’è di fiction invece in ciò che descrivi?

Il mio amore per la letteratura distopica e fantascientifica può avere influito sul mio modo di raccontare, ma ciò che dico è reale. Mi ha affascinato moltissimo un documentario in cui si vedevano i Ciukci, abbandonati dall’Unione Sovietica, che si sono dovuti inventare delle nuove strategie per sopravvivere, riprendendo a cacciare con tecniche antiche quando non lo facevano più da settant’anni. Non sapendo fabbricare arpioni d’osso, per esempio, hanno usato il metallo delle balestre dei camion militari abbandonati. È stato Frédéric Tonolli a filmarli, lo cito nella bibliografia. C’è tutta questa idea di una tecnologia di recupero che fa molto atmosfera post-apocalittica, una specie di neo-preistoria. Ecco, nell’Artico già si stanno configurando situazioni simili, anche perché ci sono intere città abbandonate, miniere siberiane fantasma che rimandano all’immaginario di una certa cinematografia di serie B, ed è come se la distanza tra realtà e fiction si stesse sempre più riducendo. Basti pensare a certi episodi di X-Files, a La cosa di John Carpenter o ancora a Fortitude o Il senso di Smilla per la neve

 

(Matteo Meschiari, Artico nero, Exòrma edizioni, pp. 168, euro 14,50)
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