Cosa resta di un’amicizia dopo l’infanzia

“Swing Time”, il nuovo romanzo di Zadie Smith

di / 15 novembre 2017

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Se un debutto letterario ti consacra fra i grandi nomi della cultura contemporanea, non è facile corrispondere alle conseguenti aspettative dei lettori, che in qualunque tuo libro ricercano l’equilibrio, la freschezza, l’unicità di quel primo. Quando nel 2000 Denti Bianchi fece il suo esordio nel mondo anglosassone, Zadie Smith aveva ventiquattro anni, era appena uscita da Cambridge, e in un romanzo aveva saputo condensare un mondo che non aveva ancora degni rappresentanti fra gli scrittori: quello dei sobborghi londinesi alle porte del ventunesimo secolo, abitati dall’umanità variegata e sempre più numerosa che dalla periferia smantellava e ridefiniva il concetto di identità britannica. Era una voce nuova, uno sguardo intelligente su un volto fotogenico, una mente brillante, e proponeva una storia che aveva ogni requisito per essere riconosciuta come buona letteratura. L’autrice inglese ha sdoganato il discorso postcoloniale fra il grande pubblico, e da campo di studio per sociologi e corrente di nicchia l’ha reso fenomeno di tendenza, generando una narrativa che le deve gran parte del suo attuale successo. Diciassette anni dopo, Swing Time (Mondadori, 2016) soffre ancora di quell’impegnativo confronto, e viene da chiedersi se senza quel predecessore scomodo i giudizi sulla sua validità sarebbero meno faziosi.

La trama, che racconta l’evoluzione di un rapporto d’amicizia dall’infanzia alla vita adulta, presenta le tematiche ricorrenti nei lavori della scrittrice: il conflitto che genera l’essere figli di unioni interetniche, il peso delle classi sociali nel determinare le opportunità di successo nella vita di un individuo, Londra come paradigma identitario. Eppure, stavolta questi presupposti risultano infiacchiti dall’uso, e nella produzione smithiana Swing Time appare come il calco di un modello di romanzo particolarmente riuscito, peccando di mancanza di originalità.

La danza e la musica fanno da leitmotiv a questa storia plurale. La narratrice, figlia di genitori di estrazione proletaria, cresce tra un’ambiziosa madre nera che crede nella cultura come mezzo di riscatto sociale e un padre bianco, premuroso ma poco determinato. Tracey vive con una madre bianca un po’ troppo permissiva e preferisce credere che le frequenti assenze del padre nero siano dovute a un fantomatico lavoro come ballerino di Michael Jackson, e non ai periodi passati in prigione. Sin dal primo incontro le due bambine stringono un rapporto simbiotico che avrà ripercussioni importanti su entrambe: Tracey balla con più talento della protagonista (che non rivela il suo nome nel corso del libro), è spesso dispotica e coltiva una gelosia segreta per il padre dell’amica, la quale, d’altro canto, ne ammira l’esuberanza e resta in disparte, evitando di imporsi e di scatenare conflitti. L’anonima voce narrante mantiene questo profilo basso lungo il corso del romanzo, al momento di compiere scelte o far sentire la propria voce: «Mi si stava rivelando una verità: avevo sempre cercato di aggregarmi alla luce degli altri, non avevo mai avuto una luce mia. Mi percepii come una specie di ombra», ammette, guardandosi indietro.

C’è una parte del libro, quasi aliena rispetto alle atmosfere su cui il racconto è costruito, in cui la protagonista viene mandata in un paese dell’Africa subsahariana per seguire un progetto di sviluppo messo in piedi da Aimee, la popstar per cui lavora come assistente. È un’occasione dal grosso potenziale per rompere la tendenza all’apatia che la caratterizza, ma il suo spirito indolente vive l’esperienza senza il coinvolgimento necessario. Allo stesso modo i capitoli dedicati alla parentesi africana, che contengono abbastanza materia grezza per un romanzo a sé, scivolano nella lettura come un’opportunità mancata.

Certo, resta la grandezza di Zadie Smith nel costruire personaggi dai profili psicologici complessi e magistralmente resi su pagina, come le varie figure materne che popolano il romanzo: la madre della protagonista, guidata da un’aspirazione che sfiora l’arrivismo e che negli anni si apre la strada verso la politica; la madre di Tracey, fragilissima, amorevole e spietata insieme; Aimee, la cantante di fama internazionale che vede la maternità come una delle missioni di cui il fato l’ha investita e sublima il mandato con l’adozione di un neonato africano.

Alla fine della lettura di Swing Time rimane perciò un’incertezza: è meglio che uno scrittore resti fedele ai temi che l’hanno reso famoso e ai topoi che lo rappresentano, rischiando però di perdere un po’ di verve, o che si lanci nel vuoto sperimentando qualcosa di nuovo, consapevole dei rischi che questo comporta? E chissà se il lettore sarebbe pronto a un’opera un po’ troppo rivoluzionaria e distante da un modello collaudato: la formula comprovata magari non sorprende, ma resta una garanzia di qualità.

 

(Zadie Smith, Swing Time, trad. di S. Pareschi, Mondadori, 2016, pp. 417, euro 22)
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