NEI SOTTERRANEI DI ROMA ALLA RICERCA DI SE STESSI

Intervista a Matteo Trevisani, autore di “Libro dei fulmini”

di / 10 gennaio 2018

Copertina di “Libro dei fulmini”

Il giovane Matteo Trevisani (classe 1986) esordisce con un’opera spiazzante intitolata Libro dei fulmini e pubblicata per i tipi di Atlantide, casa editrice romana raffinatissima sia per la scelta del catalogo che per l’estrema ricercatezza nel confezionamento dell’oggetto-libro – basta dare un’occhiata ai prezzi sulle quarte di copertina per rendersene conto. Eppure – segno che la qualità paga ancora – il libro di Trevisani si vende molto bene – «andiamo verso la terza ristampa», mi confida – e non era scontato. In uno stile che alterna il registro colloquiale a quello poetico – spesso nella stessa frase –, il realismo e l’onirismo, vi si racconta – in prima persona – la storia di Matteo, della sua “morte” e della sua risalita dal regno dell’Averno, che si sostanzia nel viaggio di questo antieroe nei sotterranei invisibili di una Roma magica, misteriosa e simbolista alla ricerca di se stesso e del senso della vita.

 

Un po’ auto-fiction, un po’ romanzo di formazione, un po’ fiaba epica, un po’ guida turistica (sotterranea) alla Augias, un po’ romanzo storico-esoterico: Libro dei fulmini è un oggetto non identificato. Come lo definiresti?

Qualcuno lo ha definito un romanzo “iniziatico” e credo che questa sia la definizione migliore, in almeno due sensi: da una parte è il racconto di un uomo che cerca il significato delle cose che gli succedono attraverso l’accesso a livelli di consapevolezza sempre più alti, e dall’altra è un esordio, dunque esso stesso un’iniziazione: la mia. Poi certo, è anche tutte le altre cose: è un libro che si può usare anche come guida, quasi tutti i posti che descrivo sono tuttora visitabili, e un piccolo manuale di storia dell’esoterismo (benché ovviamente incompleto).

 

Perché hai scelto proprio Roma – e i suoi sotterranei – come simbolo della città che unisce l’ancestrale e il terreno? Il mondo dei vivi e quello dei morti? Pensi che ne rappresenti l’esempio migliore? Se sì, perché?

Non sono stato io a sceglierla, ma il contrario, che poi è esattamente quello che succede a Matteo, il protagonista del libro. Vivo a Roma da dodici anni, ma mi sono accorto fino a qualche tempo fa di non averla mai amata. Era casa, quello sì. A Roma c’è una sensazione di familiarità con le cose che scoppia subito e che ti accoglie e ti fagocita. Poi per caso ho iniziato ad abbassare lo sguardo, a chiedermi cosa ci fosse sotto quei palazzi del centro, agli scantinati obliati di certe chiese intorno al Circo Massimo e da lì è stata una scoperta esponenziale: ogni posto ne sottintendeva un altro, ogni epigrafe un mito, ogni museo una collezione che non si poteva più visitare. Così, dopo aver visto la lastra del fulmine ai Capitolini ho pensato che dietro l’esercizio di quel rito ci fosse la chiave del passaggio tra quello che sta sopra e quello che sta sotto, tra il mondo dei vivi e quello dei morti. In questo senso Roma, con tutto quello che nasconde, è il posto perfetto per fare in modo che questo possa accadere.

 

Come nel tuo caso – sei nato a San Benedetto –, Roma è stata meravigliosamente evocata da artisti non romani. Pensi che sia importante avere un occhio vergine per stupirsi di fronte alle sue bellezze e ai suoi misteri? Pensi che troppi romani non l’apprezzino come dovrebbero?

È davvero solo una questione di attenzione. Molte persone che conosco hanno avuto la fortuna e dunque il peccato di abituarsi alla meraviglia, non realizzando quanto importante sia quello che si vede passandoci davanti per caso ogni giorno. Per anni è successo anche a me, e sulle altre cose della vita mi succede ancora. Questo ovviamente non vale solo per i luoghi, ma anche per i fatti che ci succedono attorno: accorgersi delle cose, riconoscerle, diventa il gioco più importante a cui puoi partecipare. Perché all’attenzione corrisponde sempre una responsabilità.

 

È la tua passione per Roma che ti ha portato ad approfondire le tematiche storico-esoteriche o il contrario?

Direi piuttosto il contrario. Studio la storia dell’esoterismo e della magia da quando ero molto giovane, mi affascina tutto quello che l’uomo ha potuto produrre sull’inconoscibile, su Dio, sulla magia e sulla morte. Che cosa vuol dire che due cose hanno la stessa natura? Quali erano i presupposti logico-filosofici della magia? Come sono nate le rappresentazioni dell’aldilà (su questo c’è un bellissimo libro illustrato di Duprat)? Sono entrato alla facoltà di Filosofia discretamente agnostico ed ero pronto a uscirne, come succede di solito, del tutto ateo. Ma ho percorso quel tratto di strada a ritroso: Giordano Bruno, la filosofia del Rinascimento e le sue radici ermetiche, il platonismo, mi hanno instillato molti più dubbi che certezze e soprattutto mi hanno insegnato le due parole più magiche di tutta la filosofia: non so. È anche vero che ho sprecato molto tempo a vergognarmi della passione per le cose occulte, e non avrei mai pensato di scriverne. La letteratura aveva a quel tempo una sorta di intoccabilità che scambiavo per purezza. Non sapevo si potesse scrivere un libro del genere. Probabilmente, dopo qualche delusione legittima, era la mia ultima chance come scrittore. Roma è stata una liberazione, da questo punto di vista, dandomi il coraggio e la forza di riuscire a scrivere il Libro dei fulmini che era necessario che scrivessi e a mettere insieme le due cose.

 

Leggendoti, ho pensato alla Parigi magica, alchemica dei surrealisti, da Nadja di André Breton al Paesano di Parigi di Louis Aragon. I surrealisti sono tra le tue fonti di ispirazione? Se no, quali sono?

Ho riletto recentemente Il paesano di Parigi. Aragon è stata una delle mie prime letture adolescenziali. Diciamo però che devo ai surrealisti una certa libertà nella forma che mi è stata d’aiuto i primi anni che avevo pensato che scrivere fosse una strada praticabile. Poi no. Sono stato molto pigro, fatico a trovare la disciplina necessaria. Più che altro mi sono dovuto liberare di tutte le letture che avevo fatto negli ultimi anni. Non cercare l’effetto nelle frasi, considerare la necessità di una storia che supportasse la voce, evitare qualsiasi tipo di autocompiacimento. Spero di avercela fatta. Poi, per scrivere il libro, riletture narrative necessarie sono state: Vigolo, Landolfi, De Santillana e naturalmente la visione di Il segno del comando, uno sceneggiato degli anni ’70 in cui Roma diventa la vera protagonista di una ricerca nel segno di un diario perduto di Byron.

 

Ci spieghi in che modo, nel tuo libro, lo scavo psicologico del protagonista diventa scavo archeologico? Potrebbe essere una teoria letteraria, la tua?

Non arriverei a definirla una teoria letteraria. La somiglianza tra scendere nei sotterranei di una città e dentro sé stessi è fin troppo ovvia. La letteratura psicanalitica offre migliaia di pagine bellissime sul tema. Ricordo un documentario di Žižek sul cinema, molto divulgativo ma divertente e sulla cui accuratezza sorvolo, dove si attribuiscono ai diversi piani del Bates Motel i tre livelli della psiche di Norman (l’assassino del capolavoro di Alfred Hitchcock Psycho, ndr). Nel Libro dei fulmini succede una cosa del genere: più si scende più si arriva vicino alla conoscenza, anche se questa non arriva mai del tutto. Piuttosto mi soffermerei su quello che si riesce a trovare dopo una discesa del genere. Scendendo sotto il magazzino del teatro dell’Opera si trova uno dei più bei mitrei di Roma, ma quando si scende dentro sé stessi la conclusione è meno scontata e più spaventosa. C’è senza dubbio la terribile (eppure preziosa) idea che, come per una città sedimentata su sé stessa come Roma, le sole cose importanti da conoscere di noi stessi siano quelle che ci sono più oscure. È solo in quella discesa che si consuma il viaggio.

 

In un’epoca in cui la sessualità e l’erotismo sono sempre più espliciti e tangibili, nel tuo libro il sesso ha un forte valore spirituale, onirico, visionario. Puoi spiegarci come hai lavorato su questo tema e perché?

L’idea che attraverso l’unione sessuale si sprigioni un’energia potentissima, e che questa energia si possa usare per altri scopi che il mero piacere è antichissima, non ho inventato nulla. Senza scomodare Crowley e la magia sexualis, basta pensare alle nozze mistiche, all’unione cosmica di Shiva e Shakti, e agli scritti del buddhismo tantrico dove, più che il sesso a essere ritualizzato, è il rituale che subisce una certa erotizzazione della forma. L’unione sessuale/spirituale tra Matteo e Silvia è un catalizzatore che li spinge ogni volta più giù nel proprio inferno personale, a cercare quello che di sé hanno dimenticato. È l’unico modo che hanno, per quello alla fine si ritrovano a utilizzarlo solo per quello scopo.

 

Per me Libro dei fulmini è anche un’ode alla flânerie, alla deriva psicogeografica o addirittura, semplicemente, all’ozio. È un invito ad approfittare maggiormente del tempo che abbiamo a disposizione? Un invito a sottrarci al tran tran di cui siamo schiavi e a guardarci intorno?

A guardare in basso. A prenderci il tempo che occorre per arrivare al fondo delle cose, sapendo che non è mai raggiungibile. Quando si capisce che non si arriva mai da nessuna parte allora sì, il flâneur può divertirsi a scoprire le cose che non conosce. Sapere le cose è divertente, perché così le si impara a riconoscere. «Riconoscere è un Dio», diceva il titolo di un meraviglioso saggio di Boitani uscito per Einaudi. Questo per me è stato il primo motore. Vedere un’ape incastonata in un fregio e sapere che lì sono passati i Barberini, attraversare ponte Palatino e abbassare lo sguardo verso lo sbocco nel Tevere della Cloaca Maxima o guardare Mitra e riconoscere il suo cappello frigio, e nel granchio e nel cane i reali significati astrologici. È divertente.

(Matteo Trevisani, Libro dei fulmini, Atlantide Edizioni, 2017, pp. 176, euro 20)
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