“Quanto silenzio, amore mio, per una parola vera”

Conversazione con i Cardiopoetica

di / 11 ottobre 2018

“Quanto silenzio, amore mio, per una parola vera” copertina

I Cardiopoetica, collettivo formato da Fabio Appetito, Marco de Cave e Mariano Macale, si muovono sulla scena poetica italiana da ormai diversi anni, inseguendo il progetto di una poesia che modernizzandosi si faccia ancora spazio nel trafficato mondo della letteratura contemporanea. Traendo ispirazione da svariati autori, da Montale a Neruda, dalla Merini alla Beat Generation americana, i Cardiopoetica studiano un metodo promozionale del tutto innovativo, volto a portare “fisicamente” i propri versi tra la gente, muovendosi in lungo e in largo per l’Italia e cogliendo un bacino d’utenza, sempre in crescita, decisamente ampio e variegato.

Dopo l’esordio con State scherzando, vero? (Ensemble, 2012), volume pubblicato senza l’effige di Cardiopoetica, e il successo di Resushitati, sono tornati lo scorso anno in libreria con Quanto silenzio, amore mio, per una parola vera (Ensemble, 2017) del quale dicono: «È il resoconto delle nostre possibilità, perché se la sola idea di poesia dimostra che tutto è possibile, allora perfino morire e scriverci un libro sopra è stata la nostra mimesi di felicità».

 

Come ha preso piede l’idea di dare vita al collettivo Cardiopoetica? Solitamente si ha della poesia un’idea di individualità…

Cardiopoetica nasce da un approccio comune alla vita, da una visione che, pur diversificata, ci trova in armonia su molti aspetti funzionanti, esattamente come un mosaico: ogni tessera mantiene la sua unicità ma a uno sguardo d’insieme risulta chiara la direzione di tutte le tessere. Ecco, Cardiopoetica è il mosaico delle nostre emozioni. Chiaramente abbiamo background (oggi vanno di moda questi anglicismi) differenti, eppure alla fine riusciamo a convergere sul tipo di mondo che vogliamo disegnare. Pensiamo infatti che fare poesia equivalga a fare politica. Il mondo non è lo stesso dopo che dei versi sono stati scritti: la scrittura raddrizza il ramo, decide se deve curvare in alto o in basso, dove far nascere i germogli, con quali altri rami intricarsi o separarsi. Fare poesia significa attuare un cambiamento. Persino una comune poesia d’amore, se scritta con un maturo linguaggio poetico, con una visione che nasce da un vissuto e non per relata referens, è un atto di cambiamento, un’azione che plasma. Prima non c’era, adesso c’è. E chi verrà dopo, anche senza saperlo, dovrà farci i conti.

 

A tal proposito, cosa vi accomuna e cosa vi diversifica?

Ci accomuna la passione per l’Umanesimo. Ognuno con i propri gusti, le letture personali, gli studi dissimili. L’interesse e la curiosità per tutto ciò che, muovendosi, trova posto nel reale e nel fantasmagorico. Certamente siamo diversi nell’approccio verso un’idea di letteratura e poesia e quindi, per forza di cose, nello stile. Soprattutto ci accomuna, come dicevamo, l’approccio. Per citare Brodskij, fare poesia non significa attuare una produzione tipografica, ma guardare il mondo, avere e proporre una visione del mondo. A questa visione convergiamo da diverse angolazioni.

 

Quanto vi sentite cresciuti, dai tempi degli esordi con State scherzando, vero?

Gli anni di pausa ci hanno portato un po’ di tutto. Sono stati una discarica, un letamaio dal quale abbiamo cercato di cogliere i fiori della prateria. Anche il male ha certo i suoi fiori, e abbiamo frequentato le aiuole più scure, l’abbandono, la sfiducia, la fine di una relazione, la disillusione, la depressione latente. Ci hanno tolto l’ingenuità, ma non ci hanno del tutto privato della curiosità: fortunatamente (giacché è necessaria anche una certa dose di fortuna), abbiamo trovato la forza di descrivere l’abisso, perché se oggi possiamo ammirare l’albero e i suoi frutti, è negli anfratti perduti delle radici che bisogna cercare l’origine. Non diciamo e non scriviamo che il peggio è passato, però possiamo dire che a un certo punto abbiamo trovato la forza comune di mettere nero su bianco quel che accadeva. Ed è straordinario capire come poi l’esperienza umana del dolore, della misura della forza, della ricerca della serenità sia universale.

 

Avete promosso ogni vostra raccolta con un tour, vi sentite soddisfatti di questo metodo promozionale, insolito nell’ambito della poesia? Cosa si prova a leggere direttamente negli occhi degli spettatori le sensazioni provocate dai vostri versi?

Siamo molto soddisfatti di questo metodo, per così dire, promozionale, perché è sia un modo per farci conoscere a tutti gli effetti e con noi ciò che scriviamo, il nostro libro, sia un modo soprattutto per conoscere, per accogliere, per continuare a cercarlo, questo mondo, spesso disprezzato, scansato. Si dice di voler tanto correggere la grammatica di molti valorizzando così un certo linguaggio oppure si dice di voler diffondere la lettura, ma se non ci si sporca le mani, come faceva Don Milani con i suoi ultimi, se non si va nel mondo a odorare, a toccare, a sentire, cosa si fa? Noi li vediamo, gli occhi delle persone che vengono a vederci, a sentirci. In ogni reading sembra di stare all’interno di una grande e improvvisata famiglia. A un certo punto non siamo neanche più noi il motivo reale di quell’incontro, noi, lo diciamo sempre, siamo solo un pretesto temporaneo della bellezza: se ci incontriamo è perché in comune abbiamo le paure, le disperazioni, le speranze. Questa è la materia più viscosa e vera, poi vengono i premi, la conoscenza letteraria, i curricula. Ma la vita è lì che accade, che comincia, in uno sguardo complice.

 

Cosa pensate della situazione attuale della poesia? Qual è il contributo che volete dare?

È un po’ come chiedere una diagnosi di un corpo che cammina, se facesse un po’ più di sport sarebbe certamente meglio. Sì, Mariangela Gualtieri, Milo De Angelis, Aldo Nove, Nanni Balestrini sono alcuni dei nomi che vivificano l’attuale panorama italiano, e certamente non possiamo dimenticare altri grandi del Novecento, non spetta a noi fare vane elencazioni. Ma se si vuole sensibilizzare i più all’ascolto della poesia, allora li si deve sensibilizzare al patrimonio, a delle chiare scelte anche politiche in senso lato, e questo passa anche, ma non necessariamente, dall’istruzione. Passa dal dialogo in famiglia, per esempio. Passa dal lottare contro una fretta sempre più vorace del sociale. Passa da una scelta radicale tra avere o essere, recuperando il discorso di Fromm. Non si può leggerlo e poi far finta che non esista. Afferma un detto ebraico che se stai vivendo la stessa vita che qualcun altro già vive o potrebbe vivere al tuo posto, allora stai sprecando la tua vita. Ecco perché non basta essere medici, avvocati, metalmeccanici o poeti, non basta. Alla fine la domanda è: sei soltanto quello che fai o sei così folle da riuscire a vedere altro? Ecco il nostro contributo: guardare altrove. Alzare gli occhi.

 

I titoli che scegliete per le vostre raccolte e i vostri tour sono molto particolari. Qual è il significato che hanno per voi?

I titoli nascono sempre da una forma che ripercorre ciò che nelle raccolte scriviamo. Quanto silenzio, amore mio, per una parola vera è un titolo semplice e al tempo stesso poetico, di buon impatto uditivo, consapevolmente non erudito. Il tour Mica come Prévert trae anch’esso origine da una poesia all’interno del nostro libro. È una frase in grado di restare impressa nella mente, è una frase, per così dire, da tour. Il tour si basa sulle tappe, su un appuntamento. Nel giro di pochi secondi devi finire di dire il nome del tour. Non possiamo fingere di vivere in una società ottocentesca. Ci sono regole comunicative alle quali cerchiamo di adattarci come meglio possiamo, senza scadere in compromessi nazional-popolari.

 

Parliamo di Quanto silenzio, amore mio, per una parola vera. La raccolta è divisa in tre sezioni: “Dubbio”, “Silenzio” e “Parola”. Che ruolo hanno nella vostra vita queste parole? E che ruolo ha la poesia nel vostro quotidiano?

È un ruolo, quello di Dubbio, Silenzio e Parola, che sintetizza le esperienze che abbiamo vissuto. Esperienze emotive nelle quali non sempre è facile discernere la luce dal buio, anzi impossibile. Non puoi dire, all’interno di una relazione, questo va bene, questo non va bene. Puoi illuderti di mettere ordine, ma il giorno dopo ti sveglierai nello stesso caos. Ecco, queste tre sezioni sono un illusorio ma efficace tentativo di ordine. Il lettore sa che c’è un momento per dubitare, uno per tacere, uno per parlare. Ma è avvertito: questi tre momenti spesso coincidono. La poesia è il nostro quotidiano, o uno è poeta sempre o non lo è. Non puoi dire «Sono poeta dalle otto alle dieci». Te lo porti dentro, e la cosa peggiore è che non puoi farci niente. Se sei abbastanza svergognato, al limite puoi scriverci un libro.

 

Questo libro avrà un seguito?

Questo libro, sin da subito, ha avuto i presupposti di una lapide. Del resto, la letteratura tutta deve essere un pugno sul cranio mentre si cerca di acciuffare una piuma. I fantasmi e gli avvenimenti che ci hanno assillato in questi anni hanno trovato, attraverso la pubblicazione, la loro fine definitiva. Ogni poesia che lo forma ora è una barchetta, un aeroplano di carta. Al di là della traiettoria, dei centimetri o dei chilometri che percorrerà, l’abbiamo lasciato andare. Ciò che ne seguirà sarà qualcosa di diverso che, ancora una volta, farà perdere le tracce di sé.

 

(Cardiopoetica, Quanto silenzio, amore mio, per una parola vera, Edizioni Ensemble, 2017, pp. 98, euro 12)
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