Che fatica, crescere!

“Una bambina da non frequentare” di Irmgard Keun

di / 11 marzo 2019

copertina di Una bambina da non frequentare di Keun

Quando viene dato alle stampe il suo terzo romanzo, Irmgard Keun ha trentun anni e ha già conosciuto il successo e il declino sotto il regime nazista. È il 1936 e l’autrice è esiliata in Olanda, ma con questa storia torna indietro al 1918, nella sua Colonia devastata dalla guerra.

Con Una bambina da non frequentare (2018) – tradotto per la prima volta in italiano da Eleonora Tomassini ed Eusebio Trabucchi – L’orma editore prosegue il suo eccellente percorso di riscoperta di una delle autrici più originali del Novecento tedesco. E la piccola peste protagonista di questa storia ha molto in comune con le sorelle maggiori Gilgi, una di noi e Doris, la ragazza misto seta. Come loro, ha uno spirito indipendente e fiero che si nutre di sogni e di speranze di felicità: «Di libri ne ho letti abbastanza e sono andata anche a teatro e lo so: l’amore vuol dire tenere qualcuno stretto tra le proprie braccia».

«Devo imparare a prendere la vita sul serio. Ma com’è che si fa?». Diventare grandi è una faccenda complicata, lo sai bene se hai dieci anni e ti sembra di non capirci niente a sentire gli adulti che ti stanno col fiato sul collo. Sempre a dirti che cosa non puoi fare, ma è difficile imparare a cavarsela in mezzo al groviglio delle loro regole insensate.

E poi sembrano tutti così inquieti che non si sa mai come prenderli: che siano tanto infelici perché hanno smesso di giocare? «Mi pare che gli adulti non abbiano mai una gioia che sia una a questo mondo. Quando sarò grande, i giocattoli non daranno più gioia neppure a me e non vorrò né pattini, né trottole, né ruote, né bambole, né niente. E come farò a vivere se nulla mi darà più gioia?». Una consapevolezza di futura infelicità, sorprendente per una bambina di soli dieci anni.

«Dicono che sia stato mio padre a mettermi al mondo. Non so come abbia fatto, ma credo che dietro a una roba del genere ci sia qualcosa di tremendamente difficile, e mio padre è proprio da ammirare. Mi chiedo solo dov’è che stavo prima». È complicato trovare il tuo posto nel mondo se vivi, nel 1918, in una Germania in ginocchio per un conflitto mondiale che ha l’aria di non voler finire mai. Eppure ai tuoi occhi è tutto così chiaro: che la guerra è un affare inutile – basta scrivere una lettera all’imperatore per farglielo sapere; che andare a combattere è un po’ come andare a scuola – vale la pena di prendersi la scarlattina per risparmiarsi gli ultimi fuochi e restare a casa; che non c’è bisogno di essere ubriachi per dirsi la verità.

«È così stupido da parte degli adulti credere che i bambini non abbiano preoccupazioni. Dicono sempre: Ah, l’infanzia spensierata, non tornerà più. Ma un bambino ha di certo molte più preoccupazioni di un adulto». Piuttosto che cercare di farsi prendere sul serio, si fa prima a dire le bugie che i grandi vogliono sentirsi raccontare: «Non mi credono mai, soprattutto quando dico la verità. È una cosa talmente strana e folle che mi metto a balbettare e mi si attorcigliano i pensieri e alla fine non so più com’è andata per davvero e intanto loro mi guardano con occhi cattivi e indagatori. A volte dico semplicemente: “Sì, sono stata io” solo perché la smettano con quegli sguardi appuntiti e con l’interrogatorio e poi in quei momenti proprio non lo so più se sono stata io oppure no».

«Quando sarò grande cambierò tutto, ma proprio tutto». Cambiare ogni cosa, domani. Ma oggi, intanto, aggrapparsi forte a quei piccoli rituali che funzionano bene quando c’è bisogno di tenere a bada la paura: «Se il marciapiede è di lastricato non devo toccare le righe ma mettere il piede solo al centro della pietra». E basta chiudere gli occhi per vedere cose che i grandi non sono più capaci di immaginare: «Se mi metto le mani o un cuscino sul viso e premo forte sugli occhi, vedo tutte stelle in fiamme, grandi e piccole, e soli variopinti che si trasformano in linee velocissime. Mi appaiono i colori più incredibili, come ce ne sono solo in cielo».

A quasi un secolo di distanza, è un bene che la lingua graziosamente affilata di Irmgard Keun sia tornata a parlarci. Oggi, più che mai, vale la pena di dare ascolto a una voce che è stata capace – con la stessa irriverenza della bambina uscita dalla sua penna – di scrivere a Goebbels, ministro della cultura e della propaganda del Reich, e di reclamare un indennizzo dallo Stato per aver messo al rogo le sue opere. Perché abbiamo ancora bisogno di ricordarci una cosa molto semplice: che la guerra è una grandissima stronzata.

 

 

(Irmgard Keun, Una bambina da non frequentare, trad. di Eleonora Tomassini, Eusebio Trabucchi, L’orma editore, 2018, pp. 184, euro 16)
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LA CRITICA

Irmgard Keun racconta una Germania illuminata dalla stessa luce che allunga le ombre quando si fa sera. Dalla sua bambina ribelle avremmo tutti molte cose da imparare.

VOTO

8/10

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