Quanto fa paura l’idea di scomparire

Su "L’ospite" di Duccio Chiarini

di / 6 settembre 2019

Poster del film L’ospite su Flanerí

Banalmente, L’ospite di Duccio Chiarini è un film che racconta la fine di una storia d’amore. La fine di una storia d’amore che è anche, in questo caso, la fine di un’età (o di un’epoca) in cui tutto sembrava, se non semplice, perlomeno possibile. Ed è proprio da questo spunto – da una fine prima solo annunciata, sospirata, paventata – che il motore narrativo del film si accende, facendoci respirare, sin dalle prime battute, un senso di ineluttabilità che lascia pochi dubbi su quello che sarà. Su quello che non sarà più.

L’ospite si snoda attraverso un labirinto di tentativi goffi e teneri, insieme, ai quali il protagonista si aggrappa per riposizionare i tasselli della sua storia con Chiara al proprio posto, laddove li aveva(no) lasciati prima che un pomeriggio d’inverno e un preservativo bucato non spazzassero via tutte le certezze.
«Un segno del destino» dice lui sommessamente, quasi vergognandosi di quello che sta sentendo in quel preciso istante. «Solo un imprevisto», pensa lei, guardando da un’altra parte.

Un figlio che potrebbe arrivare. Un figlio che non arriverà. «Ne abbiamo parlato già tante volte, pensavo fossimo d’accordo». Le parole di Chiara, che in un’altra circostanza sarebbero state addirittura superflue, questa volta, questo pomeriggio, hanno un effetto deflagrante.

Sarà la risolutezza con cui le pronuncia, quelle parole, ma il peso che Guido si sente gravare addosso appare, sin da subito, quasi insopportabile. Ce lo raccontano i suoi occhi. Ce lo racconta il modo impacciato con cui cerca di aprire nuovi scenari, attraverso parole incerte e frasi spezzate.

È il primo (o forse ultimo) passo verso il precipizio, anche se è logico pensare che di passi, prima, Guido e Chiara ne avevano già compiuti molti, uno in una direzione e una in un’altra. Senza rendersene conto, forse, protetti e viziati da una relazione stabile e tranquilla, serena e monotona.

I minuscoli malesseri quotidiani si fanno, d’un tratto, enormi. Chiara mette l’accento su tante piccole cose che non gradisce (che non ha mai gradito), e Guido prova a minimizzare. Ma il filo sul quale si poggiano queste continue schermaglie è troppo leggero per reggere il peso di tutto il non detto che si muove al di là dei contrasti sempre più frequenti.

La scelta di andarsene di casa, una casa oramai troppo piccola per poter ospitare le paure di lui e le nuove consapevolezze di lei, è la logica conseguenza di una relazione che fatica, oramai, a riconoscere se stessa.

Inizia da qui, dunque, il pellegrinaggio di Guido, un viaggio obbligato verso l’ignoto, nel quale si alternano situazioni dolcemente esilaranti (i consigli sconclusionati degli amici, anche loro alle prese con piccoli e grandi disagi quotidiani) ad altre in cui la malinconia avvolge ogni pensiero, ogni gesto, ogni intenzione.

Guido è smarrito, perché non sa dove andare. O, meglio, sa dove andare, ma nessun posto potrà più dargli tutte le cose che sta perdendo. Tutte le cose che ha già perso. Ospite dei suoi genitori, invecchiati di colpo, fotografie sbiadite di un tempo che Guido rimpiange, ospite dei suoi amici maldestri e disperati, ospite di notti interminabili e di una città aliena, se Guido si affaccia al di là dei suoi tormenti vede in lontananza il profilo nitido dei suoi quarant’anni. E trema un po’.

Guido comprende di non essere più un figlio e di non poter diventare un padre, almeno per il momento. Nuota in un limbo nel quale vengono inghiottite, indistintamente, speranze e intenzioni. Vive nel presente perché non può fare altro. Il passato, soprattutto quello recente, è troppo doloroso, e il futuro non ha, al momento, contorni né sostanza.

Costretto a una condizione ibrida, incatenato in una sorta di immobilismo che fa a pugni con la vita (le vite) che gli gravitano attorno (che sembrano muoversi alla velocità della luce), Guido, giorno dopo giorno, prende coscienza di ciò che è diventato, di ciò che non potrà più essere, mentre via via i timori lasciano spazio alla cupa eppure salvifica rassegnazione.

Parafrasando Italo Calvino (Guido sta scrivendo, proprio in quei giorni burrascosi, un saggio sull’autore), comprende poco a poco che il muro alzato da Chiara si fa ogni giorno, ogni minuto, ogni secondo più alto.

«Se alzi un muro, pensa a cosa lasci fuori», scrive Calvino in Il barone rampante. E il muro di Chiara – e faremmo un torto alla sua onestà e alla sua intelligenza se non la pensassimo così – è frutto di una scelta ben ponderata, tanto ragionata quanto sofferta.

Fa male non essere più amati. Ma fa male anche rendersi conto di non amare più. E perciò le lacrime di Chiara non sono meno vere di quelle di Guido, che nudo accanto a lei, in un letto che non sarà più il loro, finalmente riesce (in una delle ultime scene del film) a sfogare tutta la sua amarezza. La necessaria esplosione che giunge come una tempesta dopo una miriade di piccole e grandi implosioni.
«Non mi ami più?», le chiede. Una domanda retorica stupida e struggente che ce lo fa sentire ancora più vicino. Ancora più umano.

Chiara andrà a vivere in Canada. E lui resterà a Roma. Forse.
Con una precisione quasi chirurgica il cerchio si va a chiudere proprio in quegli istanti, e la narrazione torna essenzialmente al punto di partenza, solo che le nuove consapevolezze dei due protagonisti, adesso, appaiono inscalfibili, e l’atmosfera di fatalità che si respirava fin dai primi fotogrammi, ora si è palesata in tutta la sua definitezza.

È un film che avresti voluto scrivere tu, L’ospite, perché mette a nudo tutte quelle problematiche che una generazione senza nome (e chi ha un’età che vai dai trenta ai quarant’anni in questo preciso periodo storico lo sa bene) si trova costretta ad affrontare senza soluzione di continuità, e lo fa ribaltando qualsiasi tipo di cliché e annientando la miriade di luoghi comuni che troppo spesso hanno invaso questo genere di argomenti (ogni riferimento mucciniano non è puramente casuale).

I turbamenti, le preoccupazioni, la paura di diventare «più che grandi», lo sgomento che anticipa o segue una scelta (da prendere o da metabolizzare), la precarietà esistenziale (e lavorativa) sono temi che molti film italiani, in questi ultimi anni, hanno trattato. Ma è il modo in cui in questi temi vengono esposti, senza compromessi eppure senza scivolare in schemi melodrammatici obsoleti, a lasciare positivamente stupiti.

La macchina da presa segue questa «cronaca di un addio», questi giorni dell’abbandono, in maniera discreta e a tratti invisibile, e spesso ci si dimentica di trovarci di fronte ad una pellicola cinematografica, tanta e tale è l’empatia che i protagonisti del film (Daniele Parisi e Silvia D’Amico, già in coppia in Orecchie, di una naturalezza straordinario) riescono a rendere impattante in ogni sequenza.

Ci sono situazioni e dialoghi che strappano sorrisi sinceri. Memorabile la scena in cui Dario, l’amico Don Giovanni di Guido, afferma di non aver avuto il coraggio di lasciare la sua compagna di domenica, perché crede sia ingiusto lasciarsi di domenica, «meglio il lunedì, ché una il lunedì c’ha altre cose da fare, sai, il lavoro, e magari si distrae». Ci sono momenti in cui l’inquietudine si mescola all’accettazione di una realtà che non è come si vorrebbe. In questo equilibrio, L’ospite scivola via come una lacrima trattenuta, indecisa se precipitare al suolo o se restare lì, sospesa, nell’attesa che qualcosa (o qualcuno) possa cambiare.

«La verità è che ti fa paura l’idea di scomparire», canta Brunori al pianoforte, mentre Guido si decide (forzando un po’ le sue intenzioni?) a baciare Roberta, l’ex fiamma di Dario, forse per illudersi che per dimenticare Chiara non ci vorrà poi molto tempo.
E con ogni probabilità è proprio quella la paura più grande di Guido, l’idea di scomparire, l’idea che, una volta perduto ciò che si pensava potesse durare per sempre, si possa svanire anche noi; che ci si possa dissolvere a poco a poco, invischiati in una sfilza di giornate tutte uguali e con la prospettiva di vivere molti anni senza più estati. Ospiti della nostra stessa esistenza.

Al secondo film di finzione dopo l’interessante Short Skin, Duccio Chiarini si conferma come uno dei nuovi registi italiani da osservare con estrema attenzione.

Non serve, e probabilmente non ha molto senso, scomodare materie quali la filosofia e la sociologia, per comprendere che L’ospite non è solo un film che parla in maniera delicata e toccante di una (fine di una) storia. L’ospite è, innanzitutto, una riflessione molto lucida e cosciente su quello che è, che rappresenta, e che, al fine, ci nega, il tempo che stiamo vivendo. E lo fa partendo da una vicenda nella quale tutti possiamo riconoscerci, una vicenda nella quale emergono con nitidezza espressioni emotive quali la fragilità e l’incapacità di capire cosa vogliamo davvero.

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LA CRITICA

Attraverso una scrittura che non appare mai ridondante, L’ospite scorre via tra conversazioni iperrealistiche e una macchina da presa che rifugge sin da subito il ruolo designato di protagonista assoluta, lasciando agli spettatori la gradevole sensazione di aver visto qualcosa che non presto sarà dimenticato.

VOTO

8/10

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effe

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