Accettare il ritmo dell’esistenza

“Lontano dagli occhi” di Paolo Di Paolo

di / 18 novembre 2019

copertina di Lontano dagli occhi di Paolo Di Paolo

A poco più di dieci anni di distanza, con questo Lontano dagli occhi (Feltrinelli, 2019) Paolo Di Paolo sembra voler riprendere, rendendolo insieme più fantasioso e più esplicito, lo spunto di un suo felice, svelto romanzo precedente: Raccontami la notte in cui sono nato, uscito originariamente presso Perrone e poi ripubblicato, più di recente, sempre da Feltrinelli.

Torna, infatti, nel nuovo romanzo, accampandosi in un luminoso, calibrato gioco di “variazioni sul tema” di una “vita che non è – ma anche, ad un tempo, è…– la mia”, il nucleo segreto e ulcerante che era stato appena alluso, nel romanzo precedente, con una specie di pudico understatement ma insieme con una spericolata abilità affabulatoria, attraverso lo spunto narrativo della propria vita “messa in vendita”, per far subentrare un quasi sconosciuto studente padovano al proprio posto, fra le proprie amicizie e i propri parenti: ritratti, questi ultimi, in una scintillante scena matrimoniale, con un realismo, si direbbe, affettuoso, ma che fa venire in mente le parole di Aristotele sugli organismi repellenti che, visti però nell’arte, ci appaiono belli.

Ebbene, questo scambio da favola mitteleuropea (Peter Schlemil, o Il naso di Gogol’, per non citare che i primi in punta di lingua) era, in realtà, assai meno implausibile di quanto potesse sembrare a una prima, frettolosa lettura di quella storia, quasi misteriosamente conclusa sull’apparire di una enigmatica figura di donna «che non conosco»e il suo dare alla luce un bambino: a una «luce di giugno»che sembrava farsi rifrazione di quella dell’August di Faulkner.

E lo comprendiamo, finalmente, dal libro che possiamo leggere oggi: quel bambino nato in giugno, e poi venuto, lui sì, a prendere un posto che non era previsto per lui, in quella vita e fra quei parenti, nel saldarsi della casualità di un infermiere del turno di notte che scopre un fagotto di calore umano perso in una oscurità su cui comunque risplendono vaghe, forse non leopardiane, stelle, e della capacità di donare amore di alcuni altri esseri umani, quel bambino altri non era, nella realtà, che colui che ha scritto oggi il libro.

Libro in cui però, con ancor maggiore, ormai scaltrita, abilità affabulatoria, dalla singola figura femminile su cui si chiude il primo libro, gemmano quelle delle tre giovani, o giovanissime, donne, Luciana, Valentina, Cecilia, colte tutte da Di Paolo nello sconvolgente discrimine del proprio sentirsi diventar madre; e accostate, a dar loro un tacito, eppur soverchiante rilievo, a quelle degli altrettanto giovani uomini, l’Irlandese, Ermes, Gaetano, rapportati al trauma dell’essere padre in una progressione, si vorrebbe dire, discendente di canaglieria: dal primo, atterrito dalla perdita del preservativo, all’ultimo, quasi-innocente,un po’ nel senso che il termine ha in russo, in Musorgskij, in Dostoevskij.

Nessuna, al contrario, delle tre le figure femminili ha – da subito: o quasi subito, Cecilia – dubbi circa il tenerlo, il bambino; ma è probabile che qui operi, inconsciamente, opportunamente non sottoposto, in sede di struttura narrativa, a nessuno scandaglio di analisi interiore, e perciò con effetto ancora più “eloquente”, il substrato cristiano delle tre ragazze (non cattolico, attenzione!, non pesantemente penitenziale, chiesastico: “cristiano” qui vuol dire a-confessionalmente “umano”), se non, anche, dell’Autore stesso.

Il che porta a un’altra osservazione. Non è chiaro fino a che punto la cosa sia intenzionale, ma la figura di Gaetano, il suo accettare, con tacita, silenziosa immediatezza – «“Sì”, risponde Gaetano, “sì”»– la paternità di cui non può essere sicuro, fa irresistibilmente pensare alla figura evangelica di Giuseppe: l’iniziale del nome (vorrà dire qualcosa?) del resto è la stessa.

Certo, Di Paolo si è premurato, col suo solito, elegantissimo understatement antiretorico, di fare in modo che le mani si bagnassero d’olio e di pomodoro (ma quel rosso, quel rosso sulle mani: “…questo è il […] mio sangue”, no?, et pour cause: la pizza avrebbe potuto essere una quattro formaggi, o la «mozzarella, funghi e salsiccia»celebrata qualche pagina dopo, no?), ma Gaetano è l’unico personaggio cui sia associata la similitudine del pregare, proprio nell’atteggiamento dell’orante catacombale, sottolineato, se non bastasse, da un sobrio, gozzaniano endecasillabo: «Un santo con le mani aperte e unte».

E se queste rischieranno di sembrare illazioni illegittime, si rimanga allora sul piano “materialistico”, diciamo pure di un Verismo di ritorno: come quello che – eco pasoliniana? – impronta, con una felicissima mimesi, tanto l’alta voce quanto il monologo interiore dei personaggi più giovani. Oppure, ancora meglio: i punti in cui più la grande ombra di Verga, e quella – lo si concederà – un tantino minore di Pasolini, vegliano, protettive, sulla pagina, quelli in cui fanno mostra di sé, senza neanche il lusso sinonimico del Belli, gli organi sessuali: chiamati proprio, pane al pane e vino al vino, come li si chiama dal Cenisio alla balza di Scilla. E certo, non potevano non accampare diritti di presenza, quelle parti lì, in un libro che ruota intorno al tema del concepimento, della vita nascente: e non rifiutata, comunque.

Perché in definitiva, e nel libro di oggi ancor meglio che nel precedente, vi è in Di Paolo un’accettazione, caparbia, realistica e tutt’altro che garrula e bamboleggiante, un’intrepida accettazione del ritmo dell’esistenza, con tutto quello che d’impuro – che altro vogliono dire, le molte notazioni sul degrado degli ambienti: ma, soprattutto, ed elettivamente, le “parole sporche” con cui si esprimono quasi tutti i personaggi? – quello che di fangoso contiene «il mare della realtà […], immenso, stupefacente e spaventoso». Ma in cui, pure, ci sono le api… e i cani, che però non fanno più tanta paura.

Proprio quello, in fondo, da cui tutto il libro riceve la sua incisività: non di exemplum da predicozzo bassamente retrivo, ma proprio nel senso di richiamo alle radici affondate nel vivo dell’esistenza, nelle regioni stesse a cui finiamo, prima o poi, per venire richiamati.

E in questo senso, davvero felice risulta l’invenzione del personaggio, apparentemente poco più di una comparsa (neanche il lusso di un nome, gli viene concesso!), dell’infermiere del turno di notte, dilettante d’astronomia, di cui si è fatto cenno sopra; è a lui che viene affidato, lasciando finalmente «scivolare via» se non proprio le molte mutande tolte davanti a Ilona Staller, certamente «le maschere» (e che altro è, un romanzo?), è affidato, si diceva, un monologo interiore tutt’altro che smandrappato come quelli degli scapati padri e madri adolescenti, anzi attentamente puntato a culminare in: «È sbagliato supporre che lassù, oltre il mondo, niente parli»; dove, naturalmente, il primo livello di lettura autorizzato è quello, diciamo così, da E.T., di un semplice, leopardiano sguardo sul firmamento: ma la felice ambiguità della frase consente, quanto meno, se proprio non autorizza, anche quell’altra lettura, pudicamente sottaciuta, che sembra di capire non stia meno a cuore, a Di Paolo.

Né diversamente, a lettura conclusa, l’impressione più profonda non la lasciano tanto le tre “incognite” su una uguale, possibile maternità, col loro groviglio d’imperfezioni e slanci, e debolezze – soprattutto dei maschi, gli adulti quasi allo stesso livello dei ragazzi: «I padri […] non si vedono mai»–, e quel senso di umanità indifesa, dell’essere «Inchiodati», certo, «alle necessità della specie», o, forse nel modo più vivacemente esilarante, nella scena di Capocotta, alla propria “svergognata” animalità; piuttosto, le pagine meglio convincenti del libro sono sicuramente quelle di «Vita 2»; anche perché forse il dover parlare finalmente con la propria voce ha permesso a Di Paolo di ritrovarne la naturale eleganza, la cadenza del lessico squisito e nitido, lo spezzarsi e il comporsi delle frasi, ognuna con la sua lunghezza giusta, con la sua levità sostanziata sempre di concretezza poetica.

Del resto, anche prima, nel corso delle storie in cui viene prestata, questa voce, alla travolgente immaturità delle tre madri-per-caso e dei loro paredri, non manca, qua e là, di riemergere una incoercibile tendenza alla clausola poetica che chiude un periodo. Gli esempi sarebbero tanti («sicura no, ma protetta, in maschera»; il respiro «più profondo, come quando si piange»,o, splendido, nella stessa pagina, «si è portato via il firmamento come un telo per fare cinema»; «una porta diversa e la chiave che la apre»; la pioggia che cade «in un modo […] malato e feroce»; altra gemma: «La voce delle strade riprende il suo discorso»; le lacrime pescate «da un pozzo remoto […] quelle che da anni bisognava finire di piangere», o ancora, in presenza di un referente liberty, i due quasi-dannunziani endecasillabi «e dai salici. L’ocra delle mura […] avvampa in questi giorni di solstizio»), ma farne un elenco minuto sarebbe, fuori da ogni dubbio, abbastanza idiota (e senza neanche Dostoevskij alle spalle).

In conclusione: un libro che prende, ma sì, perfettamente in bilico fra l’impudica sincerità autobiografica del maschio-medio (la Roma dei cori urlati in strada, gli armeggi con il proprio aggeggio, ecc.) e la quasi chirurgica sapienza (ancora, si pensa al D’Annunzio del parto nell’Innocente…) del punto di vista di una donna in sala parto, o dal ginecologo; ma soprattutto, che morde nella carne viva dell’esistere, e si avventura, nel punto in cui più assurdo sembra farsene l’infuriare caotico, a trovargli una qualche plausibile ragione.

(Paolo Di Paolo, Lontano dagli occhi, Feltrinelli, 2019, pp. 192, euro 16, articolo di Mario Massimo)

 

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