Nella doppia Milano delle mafie e del jet set

Su “Polvere d’agosto” di Hans Tuzzi

di / 21 gennaio 2020

Copertina di Polvere d'agosto di Tuzzi

Con Polvere d’agosto (Bollati Boringhieri, 2019) siamo nella Milano del 1989, dal 16 agosto al 25 ottobre. C’è stato un omicidio, con un cadavere che però scompare e di cui non si avranno tracce fino al termine del romanzo. Ci sono altri due omicidi, di Bernardo Docci D’Orni e del suo maggiordomo\factotum Bruno Mazzone, che danno il via all’indagine della polizia.

Ci sono droga, prostituzione, segreti esoterici, perversioni, c’è la Milano delle periferie degradate e la Milano raffinata degli aperitivi e della moda. L’ispettore Melis, in poco più di due mesi, risolve il caso e scopre chi è l’assassino e quali i moventi.

Polvere d’agosto si presenta come un divertissement: è un’esplorazione, svagata e ironica, di una Milano ancora “da bere” (siamo alla fine degli anni ’80). Ci sono alcuni riferimenti storici a quegli anni, come la caduta del muro di Berlino o la comparsa dei primi cellulari. Per il resto Tuzzi è interessato a fotografare una doppia Milano, quella degradata e malavitosa delle Torri Zingales e quella frizzante e ricca dei quartieri eleganti.

Col procedere della storia i personaggi crescono quasi a dismisura. Raramente assumono una individualità ben connotata, ma trovano, piuttosto, una loro ragion d’essere nel milieu sociale di cui sono espressione. I toni ludici del testo, che strizzano sempre l’occhio a un lettore divertito e colto, sono poi confermati dai nomi di molti personaggi che sono nomina omina (la dottoressa Crimisi, che si occupa di crimini, Santo Guardascione, delle torri Zingales, Del Ghinghero che è un sarto, e così via). Molto ben riuscita è la loro caratterizzazione linguistica in riferimento alla estrazione sociale e al contesto.

Hans Tuzzi esplora con sagacia tale universo fatto di termini gergali o di parole auliche, di registri che si modellano sui diversi personaggi qualificandoli e definendoli. Così spiega e descrive la psicologia e le azioni di tutti coloro che a vario titolo hanno un ruolo decisivo nell’evoluzione dei fatti.

Il giallo, il genere letterario che Tuzzi sceglie di esplorare (e che ritroviamo anche in tutta la famosa serie di gialli dedicati all’ispettore Melis) è una chiave di ricerca antropologica e sociale su una Milano schizofrenica dove l’alto e il basso trovano una saldatura complementare e dove ciò che appare non corrisponde a ciò che è.

Tuzzi non nasconde i suoi ascendenti letterari, la sua grande cultura di appassionato ed esperto bibliofilo: cita l’Umberto Eco del Pendolo di Foucault a proposito di un eventuale coinvolgimento di massoni; cita i romanzi di Agatha Christie e i loro congegni narrativi; semina qua e là inserti che parlano di libri antichi e di edizioni rare e che non trascurano intrighi appassionanti di scomparse eresie e società segrete. A volte si ha l’impressione che il romanzo, nella sua costruzione e nella sua appartenenza al genere, sia una scusa per parlare d’altro e per veicolare contenuti di tipo saggistico ed erudito.

In effetti viene da porsi un confronto con i numerosi thriller che, in Italia e all’estero, proliferano con tanto successo: Polvere d’agosto è un giallo che si posiziona su un tono sommesso, che evita gli effetti truculenti, che si costruisce su piccoli meccanismi, che opta per una mediocritas consapevole e fino in fondo voluta. Per questo trova la sua più corretta collocazione in un tipo di narrativa che, pur essendo di genere, ha comunque un respiro di maggiore ampiezza. Genera piacere nel lettore non solo e non tanto perché pone con sapienza indizi in vista di uno scioglimento finale dell’enigma, quanto perché descrive con arguzia e intelligenza Milano e un’epoca di Milano.
Si tratta solo di accettare la sfida e lasciarsi prendere da questo giallo dal ritmo leggero e frizzante.

 

(Hans Tuzzi, Polvere d’agosto, Bollati Boringhieri, 2019, 247 pp., euro 14, articolo di Riccardo Romagnoli)

 

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