Il lutto è un sacchetto di biglie vuoto

“Il disagio della sera” di Marieke Lucas Rijneveld

di / 25 maggio 2020

Copertina di Il disagio della sera di Rijneveld

Dopo aver chiuso Il disagio della sera (Nutrimenti, 2019, traduzione di Stefano Musilli), si è grati al libro per averci illustrato due verità. La prima è che i bimbi tristi crescono anche in Olanda, nel paese dove secondo l’Unicef dovrebbero essere i più felici del pianeta. La seconda è che non possiamo aspettarci il riscatto dalle nostre paure se lo cerchiamo nel focolare domestico.

Altri motivi per essere grati a questo libro disturbante e crudo, e in alcune scene genuinamente rivoltante, non ce ne sono, perché non è pensato per essere piacevole. Non è piacevole Jas, la bimba che ci racconta la storia. Soffre di fobia per i germi, indossa un giaccone che non toglie mai, cova pensieri suicidi e omicidi (a fin di bene, sia detto a sua discolpa). Non sono piacevoli i suoi genitori, allevatori che nella scala delle priorità non hanno ben chiaro chi venga prima tra i quattro figli e le centottanta mucche. Per questi calvinisti di stretta osservanza, è il vertice – Dio – che conta, il resto del creato pascola infiniti gradi di abbrutimento più in basso, per cui ogni classificazione risulta blasfema.

Non è piacevole nemmeno l’evento sismico che fa precipitare nel vuoto un edificio familiare la cui rovina era già in atto da sempre: sotto Natale Matthies, il fratello maggiore di Jas, va a pattinare sul lago e si fida troppo del ghiaccio sottile che lo ricopre «dall’altra parte». Alla notizia della morte, la madre reagisce con la più semplice delle negazioni: «Ma non è morto». La mancata elaborazione del lutto corrode i legami affettivi come una forma di demenza e si estende sotterranea a tutto il racconto, che dal punto di vista dei colpi di scena non ha altro da offrire se non un paio di incidenti prontamente inquadrati come piaghe bibliche (non un paio, dunque, ma dieci).

Benché Jas immagini dei Piani per andare dall’altra parte, l’annegamento del fratello è un interdetto troppo vasto per essere superato. Le è precluso ogni varco per scoprire un orizzonte di amicizie, interessi e valori che potrebbero aiutarla a dare la giusta proporzione alla bolla in cui vive (il tema del soffocamento è variato fino all’ultimo, raggelante stadio).

Sulla base della biografia dell’autore possiamo collocarla all’interno della Bijbelbelt, una fascia di comuni riformati che taglia obliquamente il paese dal Zeeland all’Overijssel. Il cristianesimo predicato con zelo in queste comunità religiose sopravvive benché sia ostile al mondo moderno e alle sue lusinghe. Agli occhi dei suoi membri le polemiche sulle aperture domenicali dei negozi sono superflue, poiché nel giorno del signore non solo è sconsigliato prendere la macchina, ma anche cucinare.

Lasciarsi alle spalle la vita improntata agli insegnamenti della Bibbia e scandita dalla recitazione dei Salmi, in un contesto familiare e sociale estremamente ortodosso, per abbracciare la mondanità in un moto di ribellione e ricerca del proprio io, ha già trovato una forma letteraria in altri romanzi, i più celebri dei quali sono Terug naar Oegstgeest (1965) di Jan Wolkers e Nel giardino del padre (2005) di Jan Siebelink. Di recente il fanatismo protestante è finito più volte sotto la lente di giovani scrittori, testimoniando però un’inquietudine esistenziale che travalica gli steccati confessionali per sciogliersi in un bisogno di assoluto e trascendenza.

Gli accostamenti non rendono però giustizia alla grottesca e fulminante singolarità di Il disagio della sera, che semmai richiama Le sere di Gerard Reve. Vale la pena di riportare un brano, appunto, molto reviano: « “Ancora un giorno e ce ne andremo per sempre”, dico ai rospi per poi tirarli fuori dall’acqua e asciugare con un calzino a righe rosse la loro pelle piena di protuberanze. Sento la mamma che grida al piano di sotto. Lei e papà stanno litigando perché un vecchio cliente della fattoria si è lamentato con la congregazione. Stavolta non del latte troppo pallido o troppo acquoso, ma di noi, dei Re Magi. Io, in particolare, sono pallida e ho anche gli occhi un po’ acquosi. La mamma ha detto che era colpa di papà, che non badava a noi, e papà ha detto che era colpa della mamma, che era lei a non badare a noi. Poi tutti e due hanno cominciato a minacciare di andarsene, ma è venuto fuori che era impossibile: solo uno poteva fare le valigie, solo uno poteva essere rimpianto, e solo uno poteva tornare poi a casa e fare come se non fosse successo niente. Ora litigano su chi se ne andrà. Io, sotto sotto, spero che sia papà, perché in genere lui ritorna verso l’ora del caffè. Se non beve il caffè gli viene il mal di testa».

Raramente, inoltre, il punto di vista di una decenne è stato riprodotto con una tale resa iperrealistica. Abituati ai ragazzini della letteratura americana post-moderna, vittime della farraginosa violenza verbale dei loro creatori – visto che un bambino nomina tutto per la prima volta, io autore ho il permesso di imitarlo, no? – le osservazioni di Jas ci restituiscono tutta la sensualità con cui un uomo fa effettivamente esperienza del mondo a quella età. A dieci anni si è ancora creature ibride, amorfe, a metà strada tra gli animali e gli adulti. Siamo dei cuccioli. La nostra facoltà logica gattona, i nostri istinti ruggiscono – il tutto, mentre i nostri parenti predicano. Rijneveld ricorre a uno stile fortemente connotato in senso metaforico per dire questa indeterminazione. La mente di Jas associa, corrisponde, prende alla lettera, non vede quei colori che ci fanno distinguere la realtà dalla fantasia. Ogni pagina è piena di paragoni originali, sempre alla portata delle conoscenze scolastiche (e biologiche) di Jas, che farebbero impallidire molti poeti visionari e materialistici. Jas tira fuori similitudini per gli organi sessuali che neanche Philip Roth. Di più: la similitudine è così dettagliata che il termine di paragone infesta e si impone sul referente reale. 

L’altro strumento retorico di Rijneveld è appunto il dettaglio. Poiché una famiglia protestante di stretta osservanza presenta poche variabili, si offre egregiamente a uno studio esaustivo della sua Umwelt. Il corpo sensibilissimo e rudimentale del bambino non è otturato da pregiudizi di ordine etico: mette tutto sullo stesso piano, non è ancora pronto per le gerarchie e gli intrecci (da qui l’assenza della trama, ma anche il filone poco felice sugli ebrei nascosti in cantina). Se una cultura molto prescrittiva lo isola e lo reprime, finirà con lo sviluppare un’immaginazione fervidissima ma ossessionata e paranoica, oltre che tendenze incestuose – in queste comunità gli esperimenti tra fratelli non saranno all’ordine del giorno, tuttavia ci sono, e sono più frequenti che altrove: Rijneveld non vuole scandalizzare, le cose stanno proprio così.

Non credo che la scelta sia tra allevare dei geni nevrotici e pieni di bachi mentali o dei decorosi e grigi cittadini. Da parte di Jas non c’è una parola di condanna rivolta alla sua educazione, dal momento che non ha idea di cosa sia l’educazione. La scambia per la natura. Per questo, a differenza dei suoi ribelli antenati letterari, l’unico scenario di redenzione passa attraverso riti sacrificali. E arrivati a questo punto, nessuna scelta è più possibile.

 

(Marieke Lucas Rijneveld, Il disagio della sera, trad. di Stefano Musilli, Nutrimenti, 2019, 256 pp., euro 18, articolo di Giuseppe Cocomazzi)

 

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