L’Europa di fronte e di profilo

“Per antiche strade” di Mathijs Deen

di / 15 giugno 2020

Copertina di per antiche strade di Deen

Ci sono questi strani libri fatti soltanto di descrizioni. A prima vista, lo è anche Per antiche strade. Un viaggio nella storia d’Europa di Mathijs Deen (Iperborea, 2020, traduzione di Elisabetta Svaluto Moreolo). Di norma si tratta di sequenze di journal intime, guida turistica e trattato di ecocritica, ripulite da ogni sussulto narrativo. Refrattario a confondere i piani, il viandante-cronista trova volgare seguire le orme eccentriche dell’anima come invece fa con le impronte dei conigli dopo un’intensa nevicata, eppure non si stanca mai di proiettarsi romanticamente nel paesaggio.

Ascrivere questo genere al repertorio delle stravaganze potrebbe rassicurarci; con altrettanto sollievo potremmo vederlo come una sfida lanciata ai lettori forti, che per definizione hanno un Super-io così imperioso da proibirsi di saltare anche una sola riga. Tecnicamente, questi libri sono fatti soltanto di righe da saltare. E invece l’autore ha voluto farlo proprio così, il libro. Siccome di solito è un inglese emaciato che in un momento di calore umano ci confida – ci descrive – la fauna che popola i suoi piedi callosi, possiamo stare certi che se calamiterà tutte le sue risorse narrative su un’unica, emozionante scena allora sarà quella di un uccello che staccandosi dalla roccia si alza in volo e attraversa il cielo, e così, mentre il volatile si confonde con l’aria, grazie allo sforzo bio-geologico dell’autore ora sappiamo nominare nel dettaglio il tipo di uccello, di roccia, di tecnica di volo e di pezzo di cielo che in una frazione di secondo spariranno dal nostro campo mnemonico.

Al netto delle pagine più originali, i resoconti di passeggiate hanno il frustrante difetto di ricordarci a ogni piè sospinto che noi non siamo lì, perché lì c’è lo scrittore, che ci blocca la vista e ci pesta i piedi. La natura dell’esperienza che il libro vuole trasmetterci viene uccisa dal fatto stesso di essere mediata dal libro. Inoltre, il più delle volte l’andare per sentieri è immotivato, un tratto che lo definisce ma che ha pesanti ricadute sulla motivazione del lettore.

Per antiche strade fa bene due mosse: da quanto possiamo dedurre, Mathijs Deen è un tipo moderatamente avventuroso ed è suo merito se non prova mai a convincerci del contrario. Così, ad eccezione delle due brevi cornici personali che racchiudono otto novelle scaglionate nel tempo lungo del bipede europeo, fa parlare personaggi molti più interessanti di lui, e attraverso i loro occhi osserviamo gli scenari in cui si muovono, le strade che percorrono, l’umanità che incontrano.

L’altra mossa che gli riesce molto bene è soffiare la vita negli uomini che con tanta passione storica rievoca. L’effetto è persino paradossale: il «pervicace opportunista» che, inseguendo le sue prede e spinto dalla preistorica curiosità di sapere cosa c’è oltre quella collina, si stabilì oltre un milione di anni fa nella penisola iberica dopo un viaggio millenario cominciato in Africa e proseguito verso est fino al Caucaso, ci viene incontro con perturbante familiarità; e allo stesso modo hanno una consistenza tangibile il condottiero cimbro Boiorix, il brigante Bulla Felix che terrorizza la via Appia, o l’islandese convertita Guðríð che con un gruppo di pellegrini raggiunge Roma e lungo la strada vede dappertutto segni di incuria e presagi nefasti, con una consapevolezza proto-luterana.

Il paradosso sta nel fatto che i protagonisti delle due storie a noi più vicine nel tempo sono al confronto quasi degli ectoplasmi. Anzi, come ammette l’autore, bisogna includere anche le cornici biografiche, lo snodo personale sulla Due Cavalli guidata dal padre. Come si capirà alla fine, la forza del mito stritola un po’ la memoria.

Manca qui la vertiginosa empatia che invece apprezziamo nel magnifico restauro della vita di una compagnia teatrale olandese nel Secolo d’Oro o durante le marce che portano l’asmatico Coenraad, coscritto tra le file del 125° reggimento di fanteria, dalla costa olandese fino a Smolensk, e solo per constatare la disfatta della Grande Armée napoleonica.

Quando Deen, forte della bibliografia più recente, compete con gli storici romani per vedere chi si avvicina di più alla realtà descritta, o intreccia le lettere degli ufficiali d’inizio Ottocento ritrovate in archivi silenziosi alla memoria dei sopravvissuti compie un’opera che lo esalta e ci seduce. Sembra davvero di viaggiare nel tempo.

Persuasivo, emerge poi il principio secondo il quale la risoluzione di enigmi pratici per garantirci il successo nella lotta per la sopravvivenza – come ti comporti nel traffico infernale delle vie romane? Come fa un ebreo sefardita a farsi voler bene da una compagnia di teatranti che usa un magazzino come sala prove? Che si fa per tirare a campare nell’Islanda dell’anno Mille? – è la chiave migliore per farci immedesimare nei nostri antenati. 

In varia misura, è per portare a termine una missione che i nostri viandanti si mettono in cammino. Questa missione è vitale e non è mai revocata in dubbio, se non a partire dal mondo forgiato dalle forze rivoluzionarie di fine Settecento: la devastante traversata verso la Russia, in nome di un sovrano straniero, è per Coenraad insensata e porta alla follia; il pilota Charles Jarrott rischia la vita inseguendo il mito dell’alta velocità così diffuso a inizio Novecento.

Nel terzo millennio, l’Europa è per il marocchino Mohamed Sayem e per molti come lui di nuovo il continente di un cuore itinerante alla ricerca della fortuna, al pari dei progenitori che scrutavano bramosamente la costa al di là dello stretto di Gibilterra. Per gli europei che hanno cominciato a definirsi tali, non lo è più. Da un certo punto di vista, è un bene.

Nemmeno quando ripercorre le peregrinazioni attuali Deen affronta la portata politica delle migrazioni. È un presupposto letterario che non viene mai discusso e pertanto esula della intenzioni del libro. In questo Deen è molto coerente – è troppo accorto per cedere alla tentazione di paracadutare qua e là slogan apologetici sull’identità europea.

Eppure, allo stesso modo in cui c’è un messaggio ideologico nella numerazione delle strade europee – che ha origine nel Regno Unito e si sposta da nord a sud e da ovest a est, in direzione contraria agli ominidi che colonizzarono il continente a partire dal campo base nell’attuale Georgia – e per quanto siano strade percorribili in entrambe le direzioni, così emerge l’ideale un po’ troppo geografico e erasmiano di un’Europa che elitariamente è lì da sempre.

Questo svolazzante spirito europeo va bene tanto per la destra boreale e cristiana che per la sinistra cosmopolita e laica. Nei labirinti delle istituzioni europee, ci mette poco a trasformarsi nel mostro che riduce plotoni di interpreti in una poltiglia di acronimi, o nell’Europa delle multinazionali e dei monopoli, come avvertiva Sicco Mansholt, con la sua coda di lobbisti e funzionari esentasse.

In fondo, già in epoca moderna scienziati e teologi si contendevano il dominio della cultura europea sulla base di descrizioni. Erano modelli per nulla neutri e innocenti, con aspirazioni universali. Come la storia insegna, a dominare non fu chi aveva ragione, ma chi aveva la descrizione più convincente. Forse è ancora presto per crederci, in ogni caso Per antiche strade di Mathijs Deen è una descrizione documentata e avvincente del mito autostradale europeo. Ce ne ricorderemo la prossima volta che incontriamo un cartello con lo sfondo verde.

 

(Mathijs Deen, Per antiche strade, trad. di Elisabetta Svaluto Moreolo, Iperborea, 2020, 480 pp., euro 18,50, articolo di Giuseppe Cocomazzi)

 

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