Il vero oltre il reale
Un dialogo partendo da due libri in apparenza agli antipodi: “Alba senza giorno” e “I colpevoli”
di Fernando Coratelli e Andrea Pomella / 7 luglio 2020
Alba senza giorno di Fernando Coratelli (Italo Svevo, 2019) e I colpevoli di Andrea Pomella (Einaudi, 2020) sono due libri completamente diversi tra loro. Il primo – che inaugura la collana di narrativa INCURSIONI – racconta la storia di quattro personaggi – due giovani bulgari di etnia rom in cerca di fortuna nell’Europa occidentale, una giovane ragazza madre della periferia milanese, un sicario della ’ndrangheta che deve vendicare un omicidio –, le cui vicende si sfiorano fino a intrecciarsi nel finale. Il secondo – che viene dopo L’uomo che trema (Einaudi, 2019) – è un memoir dedicato all’incontro, dopo trentasette anni, di un figlio con il padre che ha abbandonato la propria famiglia per amore di un’altra donna.
Abbiamo chiesto a Coratelli e a Pomella di dialogare tra loro, partendo da questi due libri apparentemente agli antipodi.
Fernando Coratelli: Andrea, ho letto il tuo nuovo romanzo, I colpevoli, e vorrei partire da una suggestione. Suggestione che finisce col dare un’accezione allegorica a questo mio primo intervento con cui apro il nostro dialogo. Si tratta di un brano musicale che mi ha accompagnato mentre ero immerso nella lettura del tuo romanzo: Notte inquieta di John Servus Orchestra, usato da Sergio Zavoli come sigla iniziale del ciclo di “La notte della Repubblica”. Peraltro tu stesso nel romanzo a un certo punto fai riferimento a quella trasmissione. Bene, è sull’inquietudine notturna di quei trentasette anni di piombo (per continuare a giocare su suggestione e allegoria), che separano il protagonista dal padre prima della riconciliazione, che si fonda l’intero impianto narrativo. E come quell’indagine a posteriori realizzata da Zavoli, altrettanto l’io narrante indaga e processa l’abbandono del padre, ma anche per converso quello del figlio. Anzi direi che l’abbandono del figlio reca in sé una linea della fermezza che sgomenta il lettore. Penso a quando il protagonista riconsegna il modellino di un galeone spagnolo, regalo natalizio di suo padre. Con queste premesse, alla fine del processo la sentenza non potrà che essere di colpevolezza. Quei trentasette anni dentro cui scorrono cinque padri e cinque figli, come spieghi nel libro prendendo spunto dal ricambio cellulare che subisce il nostro corpo, vengono sezionati, ripercorsi a strappi e ricomposti anche se esclusivamente dal punto di vista del figlio (ma di questo vorrei parlarne più avanti). Così, la sensazione che mi è rimasta è quella di un «notturno», da cui nasce il bisogno dell’io narrante di fare luce soprattutto su se stesso, ancor prima forse che sul rapporto col padre.
Andrea Pomella: Il brano musicale che citi ha un’intensità formidabile, come l’aveva “La notte della Repubblica”. Se guardo indietro alla mia vita la immagino esattamente come un «notturno», ed è notevole che tu abbia colto così precisamente questo aspetto. La qualità del notturno però non è solo della mia vita, ma vorrei dire di una generazione, se non fosse che provo sempre un certo fastidio a parlare di generazione. Intendo dire che la mia vita, la nostra vita, visto che siamo pressoché coetanei, è inserita in un luogo della Storia che ha come qualità essenziale quella di essere senz’altro un notturno. Forse non è un caso che il tuo ultimo romanzo abbia per titolo Alba senza giorno. Vorrei dire che siamo come il personaggio di Stéphka che non ha mai visto il mare, Stéphka che insieme a Stoian attraversa l’Europa di oggi in cerca di un posto in cui provare a vivere una vita normale. La questione del notturno sta tutta nel dove trovare una piccola luce. E la ricerca della piccola luce è forse il tema che accomuna un po’ tutti i personaggi di Alba senza giorno, a partire dalla giovane madre Martina e dal sicario Tonino Cortale. Ma è una piccola luce, appunto, che quando viene scovata, serve a diradare le tenebre. Il che in fondo è solo un modo per non avere più dubbi che fossero «tenebre».
FC: Dici una cosa esatta. Ti svelo un segreto, ho messo parecchio di me in Stéphka. In ogni caso, l’idea di voler vedere il mare e la ricerca della luce, come dici tu, è alla base di ciascun personaggio, da Stoian a Martina a Tonino. A questo punto, però, mi trovo costretto a citarti, quando a pagina 123 del tuo romanzo dici: «La nostra è una lotta per tenere accesa quella luce». Che poi è ciò che fa o tenta di fare il protagonista della tua vicenda, ma è anche ciò che fa lo scrittore stesso nel momento in cui affronta la sua storia – mi verrebbe da dire con la esse maiuscola e minuscola al contempo. Ma c’è un aspetto, che accennavo prima e che vorrei sottolineare, cioè quell’attenzione al punto di vista che ha il narratore di I colpevoli. Non cede mai alla tentazione di provare a interpretare o a indossare la maschera del padre per accusarlo o difenderlo, si limita a ricordare quella frase che ci siamo sentiti dire tutti da piccoli (e forse la diciamo da adulti): «Quando sarai grande capirai». Ma l’io narrante – che peraltro non ha nome, non viene mai chiamato nel romanzo, salvo in una circostanza, in cui lui stesso si dà il nickname di Sam – riesce nonostante tutto a non cadere nella tentazione di dirci quindi se da grande ha capito o no quel che il padre non riusciva a spiegargli. Credo che questa tua capacità autoriale di restare fermo nel punto di vista permetta al lettore di farsi una sua opinione morale ed etica della vicenda.
AP: Scrivere è dover risolvere una serie di problemi, sbrogliare matasse, assumere delle decisioni piuttosto che altre, il tutto cercando di arrivare da qualche parte nel modo più redditizio possibile. La questione del punto di vista è la prima tra le decisioni che bisogna prendere. Nel mio caso, non facendo mistero dell’origine autobiografica dei miei libri (perlomeno degli ultimi tre), il punto di vista può apparire scontato. Eppure non lo è. Ogni volta che parlo in pubblico mi sento rivolgere domande che non attengono al mondo racchiuso entro i confini del libro, ma alla mia vita privata. È come se il punto di vista del narratore autobiografico sia costantemente equivocato con l’essere umano in carne e ossa che ha vissuto materialmente quelle esperienze. Questa profonda incomprensione inquina il godimento stesso del testo, perché lo scardina, ne vìola i confini, imponendone di nuovi e arbitrari. È come lasciare aperta una bottiglia di profumo, l’aroma viene contaminato e si disperde fra i centomila altri profumi del mondo. Che l’io narrante non aderisca all’autore come una carta regalo dovrebbe essere una questione risaputa. Eppure mi trovo continuamente a doverlo puntualizzare. Nel tuo caso invece il narratore è impersonale, è colui che tutto sa della storia, ne riporta i fatti come se li dominasse a volo d’uccello. Qualche mese fa ci siamo incontrati per caso su un Frecciarossa diretto a Milano e ricordo di averti detto che Alba senza giorno mi ha ricordato i lavori di Guillermo Arriaga, soprattutto le sue sceneggiature per i primi, grandi film di Iñárritu: Amores perros, 21 grammi, Babel. Parlo della costruzione del tempo, del montaggio che definirei «cubista» perché fa intravedere tutti i lati possibili della storia in un solo colpo d’occhio. In questo sguardo io ci trovo un rigore, una disciplina che è propria di chi lascia parlare la vicenda senza, appunto, farsene interprete palese. Mi chiedo però se lo stesso lettore che confonde il mio libro col mio privato, posto di fronte a uno stile così intransigente, riesca a non porsi alla fine le stesse domande, a chiedersi per esempio: «In tutto questo, tu, Fernando Coratelli, dove ti sei nascosto?».
FC: Confesso: l’idea della struttura di Alba senza giorno si ispira proprio a Babel di Iñárritu. Detto questo, a differenza dei miei lavori precedenti, in cui i lettori si sbizzarrivano a identificarmi e a chiedermi se taluno o talaltro personaggio fossero il mio alter ego, in questo romanzo invece hanno deciso di porsi e pormi un altro interrogativo. Quanto c’è di realmente accaduto nella vicenda? Quali sono i fatti di cronaca che dissemino nel romanzo? Come se il voyeurismo che spesso spinge il lettore a cercare l’aderenza della vita dell’autore con quella del suo personaggio, nel mio si fosse trasferita nell’aderenza tra la realtà di cronaca e quella della narrazione. E qui vorrei aprire un capitolo sulla differenza tra verità e realtà e tra vero e reale. Non a caso in alcune occasioni ho voluto sottolineare che Alba senza giorno lo percepisco più come un romanzo verista che realista. Alla base c’è il vero più che il reale, del resto non tutto ciò che è vero è reale e viceversa. Con vero e verità, sia ben chiaro, non intendo però l’assolutezza di una affermazione o di un giudizio, bensì la sua onestà e credibilità, cosa che spesso nel reale non si trova. E allora prendo in prestito ancora una volta una frase del tuo I colpevoli, quando dici che «ciò che è reale è regale, e non c’è nulla di più falso degli attributi tradizionali e favolosi dei re». Trovo molto interessante questa tua affermazione, in particolare se si tiene conto del fatto che vieni catalogato come scrittore autobiografico per cui l’idea preminente è quella dell’aderenza di ciò che narri alla realtà dei fatti. Quante volte durante presentazioni o interviste ho ascoltato autori dire: «Mi sono attenuto ai fatti, ciò che è scritto è realmente accaduto, mi sono limitato a raccontare». Di solito mi viene l’orticaria.
AP: Tu dedichi il libro a Petru Birladeanu, il suonatore di fisarmonica che fu ucciso a Napoli nel 2009 durante una “stesa”, quella pratica a cui ricorrono i giovani camorristi che per sfidare i rivali corrono all’impazzata sui motorini sparando a raffica contro tutto ciò che capita loro a tiro. Ma Alba senza giorno non è la storia di Petru Birladeanu. Non lo è per due motivi: il primo perché tanto la storia che racconti quanto il personaggio di Stoian sono diversi dalla storia e dalla persona di Petru Birladeanu; il secondo perché anche se tu avessi voluto «attenerti ai fatti», ciò che avresti concepito sarebbe stata comunque un’altra storia rispetto a quella realmente accaduta. Per questo anch’io credo che sia profondamente inutile tirare in ballo il principio di realtà nella letteratura, così come è inutile dividere i romanzi tra fiction e non fiction. Il semplice atto di narrare presuppone che si ricorra a degli accomodamenti, che si raddrizzi il tiro, che si spiani dove ci sono delle gobbe, e che attraverso tutto questo si finisca per consegnare al lettore qualcosa che prima non esisteva. Quanto sia profonda questa incomprensione lo testimonia per esempio il fatto che c’è ancora tanta gente che confonde la scrittura autobiografica con l’autofiction, anche tra i più autorevoli addetti ai lavori. Dare a una storia la patente di fiction, o il suo contrario, è utile solo al mercato editoriale. Ma è una semplificazione che tradisce il motivo stesso del fare letteratura.
FC: Sottoscrivo. Già l’assurdità di dover dirimere se autofiction si pronuncia all’inglese o alla francese, da dove poi sarebbe nata, un po’ come “stage”, mi fa ridere. A ogni buon conto, la mia scelta era appunto voler raccontare una storia vera – realmente accaduta o no, poco importa.
Per concludere vorrei parlare un po’ dei luoghi del romanzo. Il protagonista di I colpevoli cresce in una periferia, che non citi per esteso ma solo con una S., definita né una borgata né un quartiere. Un non-luogo. Anche il palazzo, il grattacielo, in cui a un certo punto il protagonista va a lavorare è un non-luogo, un castello kafkiano. L’impressione che se ne ha è che per l’intero romanzo la colpevolezza di padre e figlio si rispecchi sempre in luoghi periferici e senza identità – penso anche alla settimana al mare in cui si compie forse lo strappo definitivo tra padre e figlio. E lì giochi sulla contrapposizione di Cerenova, dove il padre lo porta, e Gaeta, dove sarebbero dovuti andare; un gioco anche di suono, di forza evocativa che ispira. Per contraltare, invece, i luoghi dell’amore, che spingono il protagonista fra le braccia di Pris, sono i pochi immediatamente riconoscibili di Roma, luoghi di forte carica cinematografica o letteraria, ma soprattutto intrisi di bellezza. Questo nonostante l’amore con Pris sottenda a un tradimento del protagonista alla donna con la quale ha una relazione. Mi ha attratto fortemente questa geografia dei luoghi che segue passo passo involuzione ed evoluzione della vicenda. L’ho trovata una linea sotterranea parecchio interessante.
AP: Questa geografia dei luoghi non fa che ripercorrere Roma, una città abusata dal cinema e dalla letteratura, ma che per quanto mi riguarda rimane una città irraccontabile. Lo è perché contiene al suo interno ogni negazione possibile, perché non è la città dell’eterna bellezza e non è la periferia ipertrofica, oppure, essendo entrambe le cose, rende impossibile qualsiasi sintesi che abbia la pretesa di esaurirla. Perciò se all’interno di un romanzo si deve fare i conti con Roma, non si può che adoperarla come una scenografia mobile, sapendo che qui c’è uno sfondo per ogni occasione. Non so se Milano si lascia raccontare, e in che modo. Tu ci avevi già provato con La resa. A me pare che la «tua» Milano sia una città sociale, voglio dire una città i cui pregi e difetti affiorano attraverso le dinamiche che alimentano o abbrutiscono la comunità. In Alba senza giorno sono i presidî contro l’installazione di un campo nomadi. Penso che la geografia di un romanzo sia importante, ma penso anche che negli ultimi anni si sia dato troppo peso a questo aspetto. I luoghi servono a dare una bella mano agli autori. Sono stati d’animo già pronti per l’uso. Scegliere di ambientare una storia a Roma, o a Milano, o quel che sia, può indurre un autore a dare per acquisito quello che sarà il tono dominante del proprio affresco. Ma a me interessano più i contesti mentali, i luoghi psichici, lo spazio che si crea nelle relazioni. In quelle ampiezze si trovano città meravigliose e ai più invisibili che chiedono solo di essere raccontate.
FC: Sono d’accordo con te. Bene, direi che abbiamo abusato abbastanza della pazienza dei lettori online. Grazie di avere voluto condividere con me un po’ di suggestioni su luoghi, suoni e prospettive della scrittura.
AP: Grazie a te. Ci rivediamo su un Frecciarossa a caso, o magari stavolta su un Italo.
(Fernando Coratelli, Alba senza giorno, Italo Svevo, 2019, pp. 312, euro 18 | Andrea Pomella, I colpevoli, Einaudi, 2020, pp. 216, euro 18,50)
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