«La luna, sopr’a le stelle reìna»

Il caso Gadda

di / 23 luglio 2020

copertina di Il primo libro delle favole di Gadda

Nel panorama letterario la componente favolistica costituisce un fenomeno carsico che si manifesta, anche in secoli differenti, con maggiore o minore vigore in virtù delle esigenze narrative d’autore o delle necessità imposte dal contesto storico-sociale. In particolare, la polisemia di cui favole e fiabe risultano investite non costituisce solo un valore aggiunto in termini di spessore ed elaborazione testuali, ma anche uno degli elementi più utili a eludere misure censorie e, contemporaneamente, esprimere determinati contenuti ideologici, filosofici o politici. Non a caso, infatti, l’immaginario letterario italiano del Novecento tende ad accogliere disparate riproposizioni, riscritture e reinvenzioni favolistiche e fiabesche, ricorrendo molto spesso a immagini simboliche, metaforiche o allegoriche ottenute soprattutto tramite l’impiego di personaggi animali, o ritratti realisticamente o modellati sull’esempio esopico.

 

Il primo libro delle favole

 

Un caso molto significativo è costituito dalla produzione favolistica di Carlo Emilio Gadda, sulla cui fisionomia si sono recentemente ottenute nuove e importanti acquisizioni ‒ come efficacemente illustrato nella piattaforma Wiki-Gadda del portale Filologia d’autore.

Considerato dapprima un’opera minore e solo in un secondo momento reso oggetto di rinnovati studi critici che ne hanno restituito il complesso quanto elaborato itinerario genetico, Il Primo libro delle favole (Neri Pozza, 1952) fu pubblicato insieme a una Nota bibliografica scritta da Gadda medesimo e posta a chiusura di un corpus di 186 racconti variamente strutturati.

Nel terzo capitolo, intitolato Le «picciole fave» di Carlo Emilio Gadda, del volume La maschera di Esopo. Animali in favola nella letteratura italiana del Novecento (Bulzoni, 2014), Elisabetta Bacchereti ricorda che al primo nucleo di 98 favole gaddiane, prive di titolo ma ordinate numericamente in cifre arabe e già pubblicate in piccoli gruppi su varie riviste tra il 1938 e il 1940, si aggiunge un secondo corpus di testi composti o corretti (mediante riprese, aggiunte o vere e proprie riscritture) dopo la fine del conflitto mondiale, a partire dal 1951, come attestano i tre quaderni manoscritti conservati presso l’Archivio Garzanti.

 

Fattori di varietà: componente esopica, satira politica e critica sociale

 

Nonostante la predominante eterogeneità della raccolta, piccole serie di racconti appaiono caratterizzate da strutture e personaggi molto simili. La presenza di animali parlanti, in particolare, contraddistingue le favole esopiche, alla cui tradizione Gadda medesimo rimanda esplicitamente già nel brevissimo testo incipitario del libro, dove tuttavia il paradigma fedriano viene rovesciato: «L’agnello di Persia incontrò una gentildonna lombarda, che prese a rimirarlo con l’occhialino. “Fedro, Fedro”, belava miseramente l’agnello: “prestami il tuo lupo”!».

La sferzata polemica s’indirizza infatti, nella figura simbolica della dama milanese, contro la spietata società borghese, la quale, nella prospettiva restituita da Gadda favolista tramite gli occhi di un animale dal vello pregiato, risulta ben più temibile della famigerata belva classica.

 

 

 

Come ampiamente notato dalla critica, la piccola sezione costituita dalle favole 119, 120, 121, 122 e 123 rappresenta, invece, una brillante riproposizione della celeberrima Il corvo e la volpe esopiana e poi fedriana. All’apologo che narra del trucco ordito dalla volpe affinché il corvo, aprendo il becco, lasci cadere il pezzo di formaggio procacciato, Gadda aggiunge un seguito e immagina gli effetti provocati dall’accaduto nella madre (testo 119), nel padre (testo 120), nel fratello (testo 121) e nella sorella dell’uccello (testo 122), concludendo poi con l’epimitio del racconto 123: «Queste favolette ne adducano: acqua in bocca, e cacio nel becco. E d’attorno a’ corbi e’ fanno buon giulebbe e’ babbei».

Tuttavia, gli apologhi gaddiani di fattura esopica non ospitano esclusivamente animali tradizionali, anzi: non di rado l’azione narrativa coinvolge creature mai apparse negli schemi classici. Ad esempio, la favola 20 recita: «Il dinosauro, fuggito dal Museo, incontrò la lucertola che ancora non vi abitava. Disse: “Oggi a me, domani a te”». E la stessa fabula ricorre, ampliata e corredata di morale esplicita, nel racconto 60:

Il dinosauro che dormicchiava al Museo, si sentì vellicar la groppa da zampini di lacertola, sendoché d’un osso in altro quella vi andava scintillando a diporto, nell’esercizio mattutino. Disse: “Oggi a me, domani a te”.

Questa favoletta ne adduce: che i piccoli vivi amano rampicare i grandi morti.

Pur prescindendo da valutazioni relative ai coinvolgimenti di Gadda con il regime fascista (di cui Eros e Priapo, specie nella riscoperta versione originale, è fondamentale espressione), è bene considerare che uno dei nuclei più complessi quanto interessanti della raccolta è costituito dalla serie delle cosiddette favole mussoliniane (111, 129, 134), la cui struttura allegorica è analizzata nel commento di Claudio Vela a C.E. Gadda, Il primo libro delle favole (Mondadori, 1990): in particolare, si nota che l’azione narrativa culmina, quasi a mo’ di esplosione collerica, nell’amplesso del personaggio protagonista, immagine del dittatore, con una figura femminile che, simboleggiando metaforicamente la collettività sociale, risponde al nome della Erinni Megera ma presenta anche alcune caratteristiche tipiche delle Arpie virgiliane. Ma se nella favola 134 la descrizione muove anche dal ricordo mitologico dell’incontro erotico tra Pasifae e il toro bianco, nel racconto 111 l’intreccio narrativo sembra piuttosto ispirarsi alla pena infernale dei dannati immersi nello sterco della seconda bolgia dantesca: infatti, come nella favola si legge che «la dogal cuticagna (…) impisciavono, e scacazzavono il capo calvo», così in Inf. XVIII 116-117 è descritto «un col capo sì di merda lordo, / che non parëa s’era laico o cherco».

D’altronde, gli echi danteschi si susseguono frequentemente nella raccolta, tanto che gli amanti che «paiono imitare i colombi» del brano 103 sono stati spesso associati a Paolo e Francesca.

E dopotutto, un gran numero di racconti rimanda, implicitamente o esplicitamente, a prodotti favolistici della tradizione letteraria: basti come esempio quel gruppo di testi apertamente riferiti agli apologhi di Leonardo da Vinci. Assai brillante, in particolare, la riscrittura del celebre esempio del ragno nella favola 133:

Il ragno, stando in fra l’uve, pigliava le mosche, che in su tali uve si pascevano: venne la vendemmia e fu pestato, il ragno insieme coll’uve.

Questa favola del sommo Lionardo di misser Antonio di ser Piero di ser Ghuido da Vinci, nel quartiere di Santo Spirito, ne ammonisce a ritenere: che quale ancide altro animante a suo vitto, la gran vendemmia del Cristo lui ancide.

 

 

Alcune favole, poi, seppur apparentemente molto semplici, si rivelano in realtà intessute di allusioni e riferimenti satirici a personaggi o vicende non sempre facilmente identificabili.

Elisabetta Bacchereti, nel libro suddetto, riflette sulla favola 39, leggendola quale sarcastica polemica vibrata contro la tassa sul celibato prevista dalla legislazione di regime attraverso la figura di un passero solitario di leopardiana memoria, occupato nella ricerca di uno stratagemma valido a evitargli la pena altrimenti imputatagli:

Il passero solitario fu invitato dall’Agente delle Imposte a voler pagare la tassa dei celibi, comminàtegli in caso d’inadempienza le sanzioni statuite dalla legge.

Parendogli troppo grave il pagare, deliberò di togliersi, a non pagare, una Marfisa. Poiché la passera s’era già coniugata al beccafico, ei s’ammogliò con la foca.

Non scarseggiano, inoltre, le allusioni al malcostume critico-letterario, come nel brano 97: «Il canarino, volendo fare della critica, cominciò a provare il becco su di un osso di seppia».

 

Fattori di organicità: stile, tonalità e ispirazione

 

Insomma, traducendo in forma di apologhi, favole, epigrammi e anche brevi aforismi impressioni comunque ricorrenti in tutta la sua produzione, Gadda realizza una raccolta che, pur estremamente variopinta, appare ispirata ad almeno tre principi fondamentali: il manierismo espressivo che, visibile anche negli esempi testuali finora citati, investe tanto l’aspetto morfologico quanto quello lessicale e sintattico; i toni talmente dissacranti da evocare scenari non solo satirici ma talora persino simili a sfoghi rabbiosi e, infine, la comune ispirazione dei racconti a uno dei principali presupposti concettuali del pensiero gaddiano, sintetizzato dall’ingegnere nella Meditazione milanese con le formule n, n+1 e n1. Egli, infatti, scrive che l’esistenza di un sistema (inteso sia come singolo individuo sia come collettività sia come paese o stato) e delle rispettive caratteristiche psicologiche, sociali o politiche dipende dall’andamento di ogni possibile fase vitale: la stasi coincide con la mera sopravvivenza (da Gadda indicata semplicemente con “n”), il miglioramento delle condizioni alimenta invece una graduale progressione (riassunta nella formula “n+1”) mentre il peggioramento è responsabile di un inevitabile degradamento (rappresentato con “n−1”).

Ed è proprio nella struttura figurata caratteristica della forma favola che questa concezione si traduce in efficaci quadretti di iconica immediatezza: «I buoi dissero all’operaie: “così voi non per voi mellificate, o api”. Risposero l’operaie: “così voi non per voi portate l’aratro, o buoi”» (favola 37).

 

 

***

(Nel testo la riproduzione della prima di copertina originale , Neri Pozza, e le illustrazioni delle favole 1 e 39 contenute in C.E. Gadda, Il primo libro delle favole, con venticinque disegni di Mirko Vucetich, il Saggiatore, 1969).

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