Michel de Ghelderode, essere fuori dal secolo

Tre pièces inedite

di / 20 gennaio 2022

ritratto di Michel de Ghelderode

A distanza di quasi cinquant’anni dal Teatro di Michel de Ghelderode edito da Einaudi, vengono proposti per la prima volta in Italia tre testi drammaturgici di uno dei più grandi e influenti autori belgi del Novecento. Nel novembre del 2021, infatti, Lamantica Edizioni di Brescia decide di pubblicare Pièces, un corposo volume contenente tre opere dello scrittore fiammingo: La figlia di Giairo, Il sonno della ragione e Il sole tramonta…. La traduzione è a cura di Federica Cremaschi, laureatasi proprio con una tesi su Ghelderode, e il libro è arricchito dai preziosi contributi critici di Anna Paola Soncini Fratta e Riccardo Benedettini.

Dopo gli “assaggi” nella Collezione di teatro Einaudi, a cura dei coniugi Rossini e Nicoletti (Escuriale e La scuola dei buffoni, 1963 e Magia rossa e La ballata del gran macabro, 1965), nel 1972 la stessa casa editrice aveva deciso di pubblicare un’imponente raccolta dei testi maggiormente rappresentativi di Ghelderode: il volume contiene undici testi teatrali, fra cui si ricordano Il Cavalier Bizzarro, I Ciechi e Maria la Miserabile. Nei decenni, tuttavia, la fortuna editoriale italiana del drammaturgo belga sembrava essersi esaurita, eccetto che per qualche pregevole incursione. Nel 2001 la Panozzo Editore pubblica Sortilegi, la raccolta di racconti più matura, rappresentativa e suggestiva dell’autore. Segue, poi, il libricino L’innamorata delle Edizioni Via del Vento, contenente due racconti giovanili: l’omonimo racconto e La brava ragazza. Nonostante queste sporadiche apparizioni, è servita la coraggiosa impresa editoriale della casa editrice bresciana per proporre questi tre testi inediti in una veste originale e affasciante, caratterizzata dalle emblematiche pagine azzurre. Fra le pièces emerge, senz’altro, La figlia di Giairo, considerato uno dei capolavori drammaturgici di Ghelderode. Lo stesso Nicoletti, nel primo volume Einaudi degli anni Settanta, gli riserva parole entusiaste, lasciando emergere fra le righe una certa delusione per non essere riuscito a inserirlo.

 

Ghelderode: un fuoriclasse non catalogabile

«Signore, signori, adotterò per parlarvi lo stile dell’imbonitore da fiera. Avete di fronte a voi l’uomo più annoiato, più desolato del mondo. Cantate pure che la vita è sorprendente, io la trovo inetta, incomprensibile, insopportabile, o la sopporto solo quando diventa stravagante. Amo la natura quando commette idiozie, amo l’uomo quando è mostruoso» [Il sonno della ragione, p. 140].

Ghelderode è un autore difficilmente catalogabile che – per usare le parole di Soncini Fratta – «unisce la banalità della vita alla sua essenza più profonda, che ti infastidisce e ti prende; lo senti estraneo e al contempo intimo». Nonostante nella sua opera vi siano elementi tipici del teatro dell’assurdo, sarebbe riduttivo e superficiale ricondurvi la sua intera produzione artistica. Consapevole della tradizione del secolo, Ghelderode recepisce anche la lezione del teatro della crudeltà teorizzato da Artaud, oltre a saper cogliere e rivisitare i modelli letterari seicenteschi, soprattutto inglesi e spagnoli. Tuttavia, come ben si può percepire nella lettura, l’Autore ha un gusto particolare e unico per le tradizioni natie e si fa interprete inimitabile della cultura fiamminga.

Nato a Bruxelles, intraprende gli studi presso l’Institut Saint-Louis, dove entra in contatto con le materie filosofiche e con la religione. Probabilmente è qui che per la prima volta approfondisce la conoscenza e lo studio della pittura, fra tutti di Pieter Bruegel il Vecchio e Hieronymus Bosch. Coerentemente, avrà modo di apprezzare anche i capolavori di Goya che influenzeranno notevolmente la sua opera. Basti solo pensare al titolo della seconda pièce proposta da Lamantica Edizioni: Il sonno della ragione.

 

La solitudine, le Fiandre e il grottesco

Riformato per problemi di salute, non partecipa alla Prima guerra mondiale e si dedica sempre più allo studio letterario, in particolare a quello teatrale. In quegli anni matura in lui il concetto di solitudine, fondante per la sua intera produzione. Dallo stesso autore viene considerata tanto un dono quanto una disgrazia o piuttosto – per citare Manuela Raccanello – «ambigua più della morte. [Infatti,] la solitudine è il segno della predestinazione, il marchio di una vita che si erge al di sopra della mediocrità – condizione temuta e disprezzata –, non importa se nel bene o nel male». Emblematico, in tal senso, il passo nel racconto Nuestra Señora de la Soledad, in cui alla domanda della Vergine «Cosa desideri?», il protagonista/narratore risponde: «Ma poiché siete tanto misericordiosa, vi chiedo di preservarmi in solitudine».

Sono gli anni della giovinezza, perciò, che predestinano Ghelderode al suo futuro di drammaturgo. Fin dalle prime pubblicazioni riscuote un eccellente successo di critica e nonostante scriva in francese, le sue opere sono colme di riferimenti al dialetto e ai costumi delle Fiandre. In questo senso scenari ideali delle sue rappresentazioni, se non fisici almeno metaforici, sono Gand e Bruges. Se in quest’ultima è ambientata La figlia di Giairo, ne Il sole tramonta… la città di Gand viene spesso richiamata nei pensieri di Carlo V, che proprio in «questo luogo fuori dal tempo» è nato, e che nel 1556 si ritira, dopo aver abdicato, nel monastero spagnolo di Yuste. Nel dialogo col suo alter-ego Messer Ignotus viene detto: «Quelli della nostra razza, del nostro sangue – e il sangue rosso scorre in ogni uomo – non temono la Morte né l’Inferno», come se la sola provenienza conferisse al monarca una natura eccezionale. Il memento mori è una delle tematiche più presenti nell’intera opera di Ghelderode, trattato con un’originalità tale che è difficile trovare corrispettivi nella letteratura. Il senso della vita non viene ricercato tanto nell’assurdo quanto nel grottesco. Non è un caso, perciò, che Kayser nel suo saggio Das Groteske scriva come le opere di Bosch e Bruegel il Vecchio anticipino le visioni di Goya. Ed è così che il drammaturgo belga fa tesoro di queste grandiose esperienze passate e riuscendo a rielaborarle in una cifra stilistica altamente riconoscibile. La sua attenzione di filologo e viaggiatore da fermo, lo portano ad approfondire le tradizioni popolari della gente delle Fiandre, che viene restituita in tutto il suo fascino nelle opere teatrali. Se, quindi, alcuni ritengano che grazie ai testi di Joyce si possa ricostruire Dublino in vista di un’ipotetica catastrofe, lo stesso vale per Ghelderode e le Fiandre. Uno studioso che decida di studiare la cultura fiamminga non può sicuramente prescindere dall’apporto storico e artistico di questo Autore. Tuttavia, come precisa Stefan Fischer, mentre un autore come Bosch «fece del grottesco moralistico […] la sua caratteristica distintiva», Ghelderode non può definirsi un autore morale.

 

Il fascino dei riti religiosi per Ghelderode

Lo stesso Benedettini, nella sua postfazione, ritiene come l’Autore non possa essere definito moralistico, in quanto non cristiano. Deve essere riconosciuto, però, come sempre «vicino a certe forme esteriori, cattoliche, che continueranno ad esercitare su di lui una estrema seduzione: i riti, le sacre rappresentazioni degli uffici liturgici, il prestigio delle processioni e i funerali». Tutto ciò è particolarmente evidente nella sua opera, e queste Pièces non fanno eccezione. Ne La figlia di Giairo si parla di una resurrezione, ne Il sonno della ragione primeggia la rappresentazione fisica dei sette peccati capitali, mente ne Il sole tramonta… c’è una riflessione sulla morte imminente e, di conseguenza, sulla caducità dell’uomo. Il tutto popolato da personaggi grotteschi, surreali e pateticamente comici. Nei suoi testi campeggiano spesso marionette, fantocci, semoventi, come pure comparse stereotipate degne delle migliori satire. Ma anche il personaggio apparentemente meno importante o più bizzarro acquisisce ai fini della trama una sua tridimensionalità. Il suo è un teatro coinvolgente, strabordante, che rifugge ogni proposito naturalistico; il suo obiettivo è quello di sconvolgere il pubblico con un’esperienza irripetibile. Le note di regia sono descrizioni minuziose e conferiscono al décor una tale vividezza da sembrare un vero e proprio dipinto fiammingo, tanto dettagliato quanto grandioso – anche nei suoi momenti più quotidiani, intimi.

 

I giudizi universali

La poetica e la visione estetica di Ghelderode sono impregnate di suggestioni letterarie, pittoriche, musicali, che nella sua reinvenzione rendendo l’opera teatrale un esempio di avanguardia non di certo fine a sé stessa. Si pensi solo alle impressioni di Blandina, la risorta, in La figlia di Giairo: proprio in quest’opera, forse la più rappresentativa dell’intera raccolta, Ghelderode ci restituisce una delle più suggestive citazioni dell’Ascesa all’Empireo di Bosch. All’inizio della settima scena del secondo atto Blandina descrive il suo sogno – in realtà si tratta della sua morte, prima di essere resuscitata dal Fulvo, sorta di anti-Cristo dai tratti nordici. Blandina recita: «Perché mi svegliate? (con voce che non è sua e come se parlasse da un’altra stanza, le mascelle ancora serrate) Fluttuavo felice al centro di una sfera bluastra; ero sconosciuta. Hanno gridato il mio nome. La sfera, il sogno infranti, ed io cadevo. Perché?».

Per prendere in prestito le parole di Gianni Nicoletti: «[Ghelderode] non indaga ma agisce, nel contesto del proprio stile, per tagli e contrapposizioni, per raffronti che racchiudono estensioni storiche indefinibili onde trasumanare in ispecie di giudizi universali».

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