Grandi e piccole questioni dell’esistenza

L’opera di Brianna Carafa e la sua riscoperta

di / 27 aprile 2022

Gli angeli personali di Brianna Carafa

Nel pregevole volume I libri degli altri di Italo Calvino sono raccolte le lettere che lo scrittore, negli anni dorati dell’Einaudi del Novecento, ha indirizzato a personaggi del calibro di Elio Vittorini, Natalia Ginzburg, Alba de Céspedes. Le lettere arrivano a metà anni Settanta; ciononostante, giunti all’anno 1975 non si trova alcun cenno alla scrittrice Brianna Carafa, cui pure Calvino aveva rivolto dei complimenti, riferendosi al suo La vita involontaria.

La storia di questo romanzo, e di chi lo scrisse, è stata già ampiamente raccontata negli ultimi due anni perché è unica nel suo genere. Il libro si classificò ultimo nella cinquina del premio Strega di quell’anno – a vincere fu Landolfi con A caso; da allora cadde nel dimenticatoio e dell’autrice andarono perse le tracce. L’oblio si protrarrà per quarantacinque anni, fino a quando nel 2020 la casa editrice Cliquot non ne farà un recupero cui è difficile non fare cenno. Alla pubblicazione di La vita involontaria è seguita quella, pochi mesi fa, di Gli angeli personali, una raccolta di racconti che videro la luce per la prima volta tra il ’57 e il ’78 sulle riviste letterarie Paragone letteratura e Botteghe oscure: si trovano qui ritratti familiari e no, tenuti insieme dalla capacità narrativa di Carafa di immortalare un tempo che non c’è più, sostenendo il racconto con una padronanza pacata e ferma dei ricordi.

Due voci autoriali complementari ma distinte caratterizzano da un lato il romanzo, dall’altro i racconti. Nel primo caso, complice la scelta di un personaggio non ancora formato e di cui anzi la storia è ancora da scrivere, tutto è in divenire, ogni episodio non è mai definitivo e viene puntualmente ridiscusso: con la prima persona la resa sposa questa provvisorietà dell’animo, costretto suo malgrado a interrogarsi continuamente. Nel secondo caso, i personaggi sono già cristallizzati nel tempo, fissi a loro modo, senza però quello strato di polvere che ci si aspetterebbe da una serie di ritratti di persone defunte: una maturità sorprendente e uno sguardo ormai non più compromesso lega ciascuno di questi scritti.

La vita involontaria, che dà il titolo al romanzo, è quella di Paolo Pintus, cresciuto nella fittizia città di Oblenz con sua zia Beatrice, senza madre, perché morta alla sua nascita, e senza padre perché morto in guerra. Pintus è giovane e insicuro, vittima di una certa idea del mondo che non gli si è ancora rivelata. Subisce il fascino dell’ignoto, dell’Altro, al punto che anche dei Tetti Rossi possono destabilizzarlo:

«Ma dall’altra parte della strada si ergeva un muro lunghissimo e impenetrabile sulla cui sommità traboccavano, miracolosamente scure e fitte, le fronde di un giardino. Pareva un baluardo, un’isola, un pezzo di paesaggio straniero che la città avesse dimenticato o che dalla città vivesse orgogliosamente avulso».

Copertina di La vita involontaria di Carafa

 

Quell’osservare sempre più insistente si sovrappone a una curiosità sul passato e sulle possibilità che gli riserva il futuro: si lascia allora persuadere dalla promessa insita nelle parole dell’amico Gabriele, i cui racconti su Vallona e sulla sua università sono diabolicamente convincenti e fanno a tal punto breccia da spingerlo al trasferimento. È l’occasione per una nuova vita.

Di riscatti personali o presunti tali è piena la letteratura, perlomeno quella che elegge a protagonisti giovani in procinto di diventare uomini. Se La vita involontaria si fermasse a questo degno ma ordinario evolversi non avrebbe nulla di diverso da altri romanzi. Con Pintus e ciò che gli accadrà – la scoperta di una verità sconcertante sul significato dell’esistenza, il tentativo a tratti disperato di legittimare sé stesso in contrapposizione al prossimo, la lotta all’alienazione e alla pazzia – Carafa riesce a dare testimonianza, in poche pagine, dell’intero senso di inettitudine dell’uomo, delle costruzioni menzognere della mente, ma anche a mettere in piedi una critica alla manipolazione dell’altro per mano di chi dovrebbe averne a cura la sanità mentale.

«La mia infelicità non faceva che crescere: mi pareva che il corpo e, con esso la mia persona, fossero isolati dal mondo, come se nessuno li avesse mai toccati».

Introduce, quindi, una figura a lei cara, quella dello psicanalista: figura nel romanzo determinante, per certi versi, nell’operazione di districare (ma anche sradicare) Pintus, il quale si lascia plasmare nella speranza di emanciparsi assecondando dei meccanismi disfunzionali di cui diventerà inevitabilmente vittima. In questo suo essere, almeno all’inizio, incapace e quasi mai padrone, rivela un’ingenuità e una tenerezza che altro non sono che la manifestazione dell’ostinazione, tipica della giovinezza (come un Giovanni Drogo più dissoluto che attende l’arrivo dei Tartari). Lo scarto però sta appunto nella componente psichica: Pintus rifiuta la realtà in maniera consapevole, in favore di un’opzione accettabile per il proprio ego; sceglie deliberatamente di dare spago all’irrazionalità attraverso forme di disambiguazione, attraverso l’alcol, la depersonalizzazione, finanche attraverso manie di persecuzione.

La componente psicanalitica, che pure trovò il suo sbocco in Brianna Carafa (dopo studi di architettura e psicologia diventerà infatti psicanalista), emerge dunque fortissima nella sua opera, non soltanto nelle tematiche trattate – introducendo il «Guaritore di anime» sulla strada di Pintus, appunto – ma anche e soprattutto per una intenzione indagatrice e rivelatrice che si cela dietro la descrizione di episodi apparentemente superflui, come è il caso dei racconti. E in effetti, nella raccolta, i ritratti non sono mai un resoconto nostalgico di quel che fu ma celano sempre immagini universalmente valide, sorrette dalla parola.

«[…] è questo che io pretendo ora da lui, a tutti i costi, quasi che egli sia il portatore, per me e per gli altri, di una invulnerabilità suprema, rendendosi personalmente garante di una vita sia pur ridotta al minimo, di una vita vegetativa, senza alcuna fede, aggrappata alla sola realtà dell’automatismo consueto. Ma che si opporrà sempre, tenacemente, alla dissoluzione in agguato. Insomma, voglio che Manlio sia la forsennata marionetta di cappa e spada che resti sola, invitta e abbarbicata alla sua bandiera fra un mucchio di morti sul palcoscenico, indifferente agli applausi del pubblico».

Gli otto racconti di Gli angeli personali sono un regno riemerso, una ricerca del tempo perduto in cui il vuoto e la mancanza sono bilanciati da un’urgenza discreta di tralasciare ogni eroismo in favore della realtà, qualunque essa sia. Per questo, nel tratteggiare ad esempio l’importante figura di sua nonna in “Ritratto di straniera”, Carafa non risparmia la lunga serie di fallimenti – se così possono essere intesi – che la donna specie nella sua vecchiaia accumulò. Ciò che importa è rivelarne la natura intima, di donna imperfetta e stravagante ma soprattutto fedele a sé stessa. Anche nell’alternarsi di scene a tratti esilaranti, che rendono Marianna Frankestein Soderini simile alla zia dello Swann proustiano, lo sguardo della scrittrice si affina e svela, anche solo per inciso, come se fosse un dettaglio irrilevante, qualcosa di più profondo (alle parentesi relega, come cosa di poco conto, che sua nonna «dimostrava, a tratti, un’affettuosa e malinconica nostalgia per una pace che non sapeva o non voleva trovare»).

Dall’operazione di riemersione del passato nel presente non viene risparmiato nessuno, neppure la sua Governante, cui è dedicato uno degli scritti indimenticabili di questo volume. Una Brianna bambina viene qui affidata alle cure di Fräulein Hilda; la sua versione adulta ne riporterà poi i fatti traumatici e decisivi:

«Ma io non la consideravo una donna, bensì un’entità misteriosa, provvida e potente, come Dio. O una sua emanazione, senza sesso e senza una personalità definita. In parte, forse, una macchina».

Ne verrà fuori un racconto audace e ambiguo, in cui l’infanzia viene compromessa in favore della lotta per la supremazia: il gioco delle parti – pur in apparenza diseguali – va di pari passo alla presa di coscienza dell’insensatezza della vita in un’alternanza di manifestazioni tra esercizio del potere e sottomissione.

Anche nei racconti più brevi, cui vengono dedicate poche pagine, non manca quella lucidità che attraversa l’intera opera di Carafa, sempre accompagnata da una distanza oculata dalla materia raccontata. È il caso, ad esempio, di “La porta di carta” o “Il sordo”, che svelano aspetti anche meno lusinghieri degli individui, dunque vivissimi. Ciononostante, non si può non pensare, leggendoli, di trovarsi di fronte alla porta cui ogni giorno il mendicante si presenta per il suo pane quotidiano, o di essere seduti a chiacchierare e domandarsi se la persona sorda che respira la nostra stessa aria sia veramente sorda o sia solo una finzione.

Ciò che forse più ammalia e sorprende di Gli angeli personali è quell’unione di grande e piccolo, considerazioni a tratti spietate dell’esistenza mischiate a minuscoli episodi quotidiani. Congedandosi dagli scritti di Carafa, ci si sente più consapevoli e più insicuri, come dopo un colloquio con una persona che rispettiamo che ci ha appena svelato ciò che sapevamo ma non avevamo mai ammesso a noi stessi.

 

(Brianna Carafa, La vita involontaria, Cliquot, 2020, 144 pp., euro 16; Brianna Carafa, Gli angeli personali, Cliquot, 2021, 176 pp., euro 16. Articolo di Giovanna Nappi)
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